La Cassazione penale sezione 5 con la sentenza numero 31239 del 17 settembre 2025 si pronuncia riguardo i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione stabilendo che per la loro configurazione occorre valutare l’elemento psicologico.
Per configurare i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alla persona e di estorsione, bisogna valutare l’elemento psicologico.
Nel primo caso, l’agente agisce nella convinzione di esercitare un proprio diritto, anche se infondata, mentre nel secondo agisce con la consapevolezza dell’ingiustizia della sua pretesa.
Decisivo è l’esistenza di una pretesa ragionevolmente suscettibile di essere giudizialmente tutelata.
Fatto:
La questione principale sollevata con il ricorso è quella della qualificazione giuridica del fatto come estorsione o come esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Per sciogliere la questione sarà necessario ricostruire brevemente i fatti, così come riassunti nell’ordinanza impugnata e in parte narrati da B.B., vittima del reato.
La vicenda delittuosa trova origine in un rapporto negoziale intercorso tra B.B. e C.C., i quali stipulavano un contratto preliminare di compravendita con cui i due si impegnavano, rispettivamente, a vendere e ad acquistare una villetta.
In occasione del perfezionamento di tale accordo negoziale, C.C. versava a B.B. una somma pari a 36.000,00 Euro (circa 40.000,00 Euro dirà lo stesso B.B.) a titolo di caparra.
Al contratto preliminare non seguiva la stipula del contratto definitivo e B.B. tratteneva per sé la somma ricevuta.
In relazione a tale fase della vicenda, il Tribunale riporta le dichiarazioni di B.B., che così vengono riassunte alla pagina 12 dell’ordinanza impugnata: “In data 31.08.2022 veniva escusso a sommarie informazioni B.B., il quale, confermava di avere avuto un contenzioso insorto nel luglio 2020, con C.C. per un atto preliminare relativo alla vendita di una villetta, senza poi arrivare alla stipula del contratto definitivo, ricevendo una caparra di circa 40.000,00 euro.
Il B.B. spiegava che, dopo sei/otto mesi dalla conclusione del preliminare, il C.C., non avendo ottenuto il mutuo dalla banca, lo aveva autorizzato a vendere la villetta ad altro acquirente, pretendendo tuttavia la restituzione della caparra nel momento in cui avesse venduto la villetta”.
La somma non veniva restituita e C.C. si rivolgeva all’odierno ricorrente e – sostanzialmente – al clan (Omissis) per riscuotere la somma.
L’esito negativo dell’attività di recupero della somma attuata da A.A. (insieme a D.D. e E.E., rispettivamente suocero e cognato di C.C.) inducevano lo stesso A.A., D.D. e E.E. a rivolgersi a F.F., appartenente al clan (Omissis), egemone sul territorio di residenza di B.B. F.F., insieme ad G.G., si attivava effettivamente per il recupero della somma di denaro, esercitando ripetute violenze e minacce in danno di B.B., al quale chiedeva – oltre alla somma pretesa da C.C. – anche un’ulteriore somma, non precisata, da destinare ai detenuti.
Infine, la villetta veniva effettivamente venduta da B.B., che corrispondeva a C.C. la somma da lui pretesa, in data 04/10/2021 (per come risulta dalla conversazione intercettata).
Il Tribunale ha ritenuto configurabile il delitto di estorsione osservando che la richiesta di restituzione della somma di denaro era accompagnata da un interesse proprio di F.F., costituito dalla necessità di ribadire il controllo sul territorio e dalla richiesta di una somma ulteriore rispetto a quella pretesa da C.C., destinata ai detenuti del clan.
Decisione:
Così ricostruiti i fatti, per verificare la correttezza della qualificazione giuridica ritenuta dal Tribunale, occorre fare riferimento ai principi dettati dalle Sezioni Unite in tema di distinzione tra il reato di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo).
In tale pronuncia è stato precisato che i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alla persona e di estorsione, pur caratterizzati da una materialità non esattamente sovrapponibile, si distinguono essenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente intende conseguire un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia.
Con l’ulteriore precisazione che “ai fini dell’integrazione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la pretesa arbitrariamente coltivata dall’agente deve, peraltro, corrispondere esattamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato, e l’agente deve, quindi, essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente (Sez. 5, n. 2819 del 24/11/2014, dep. 2015, Angelotti, Rv. 263589; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268362).
Pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata, ovvero che il diritto oggetto dell’illegittima tutela privata sia realmente esistente, deve, peraltro, trattarsi di una pretesa non del tutto arbitraria, ovvero del tutto sfornita di una possibile base legale (Sez. 5, n. 23923 del 16/05/2014, Demattè, Rv. 260584; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268362), poiché il soggetto attivo deve agire nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto in ipotesi suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale avente, in astratto, apprezzabili possibilità di successo (Sez. 2, n. 24478 del 08/05/2017, Salute, Rv. 269967)”.
Ai fini della distinzione tra i reati di cui agli articoli 393 e 629 cod. pen. assume, pertanto, decisivo rilievo l’esistenza o meno di una pretesa in astratto ragionevolmente suscettibile di essere giudizialmente tutelata: nel primo, il soggetto agisce con la coscienza e la volontà di attuare un proprio diritto, a nulla rilevando che il diritto stesso sussista o non sussista, purché l’agente, ragionevolmente, ritenga di poterlo legittimamente realizzare; nell’estorsione, invece, l’agente non si rappresenta, quale impulso del suo operare, alcuna facoltà di agire in astratto legittima, ma tende all’ottenimento dell’evento di profitto mosso dal solo fine di compiere un atto che sa essere contra ius, perché privo di giuridica legittimazione, per conseguire un profitto che sa non spettargli.
Le Sezioni Unite hanno altresì osservato e precisato che “un orientamento ha ritenuto che integra sempre gli estremi dell’estorsione aggravata dal c.d. “metodo mafioso” (già art. 7 D.L. n. 152 del 1991, conv. I. n. 203 del 1991, ora art. 416-bis.1 cod. pen.), e non dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone ugualmente aggravato, la condotta consistente in minacce di morte o gravi lesioni personali formulate dal presunto creditore e da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio in danno della persona offesa, estrinsecatesi nell’evocazione dell’appartenenza di entrambi ad una organizzazione malavitosa di tipo mafioso, per l’estrema incisività della forza intimidatoria esercitata, costituente indice del fine di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di recupero di somme di denaro sulla base di un preteso diritto (Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, P.G. in proc. Agostino, Rv. 264628).
L’orientamento non può essere condiviso, poiché la formulazione dell’art. 416-bis.1 cod. pen. non consente di affermare che la circostanza aggravante in oggetto sia assolutamente incompatibile con il reato di cui all’art. 393 cod. pen.; residua al più la possibilità di valorizzare l’impiego del c.d. “metodo mafioso”, unitamente ad altri elementi, quale elemento sintomatico del dolo di estorsione”. In riferimento all’atteggiarsi del concorso di persone in relazione al reato di ragion fattasi, nella sentenza Filardo è stato osservato che “la giurisprudenza di questa Corte ha tradizionalmente affermato che, per configurare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, nel caso in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, occorre che il terzo abbia commesso il fatto al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effettivo titolare, dal quale abbia ricevuto incarico di attivarsi, e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio, ravvisabile ad esempio nella promessa o nel conseguimento di un compenso per sé, anche se di natura non patrimoniale (Sez. 2, n. 11282 del 2/10/1985, Conforti, Rv. 171209); qualora il terzo agente – seppure inizialmente inserito in un rapporto inquadrabile ex art. 110 cod. pen. nella previsione dell’art. 393 stesso codice – inizi ad agire in piena autonomia per il perseguimento dei propri interessi, deve ritenersi che tale condotta integri gli estremi del concorso nel reato di estorsione ex artt. 110 e 629 cod. pen. (Sez. 2, n. 8836 del 05/02/1991, Paiano, Rv. 188123; Sez. 2, n. 4681 del 21/03/1997, Russo, Rv. 207595; Sez. 5, n. 29015 del 12/07/2002, Aligi, Rv. 222292; Sez. 5, n. 22003 del 07/03/2013, Accarino, Rv. 255651).
Questo orientamento va condiviso e ribadito.
Due sono i punti di partenza di questa ulteriore disamina, necessariamente costituiti dai principi in precedenza affermati: – il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ha natura di reato proprio non esclusivo, – il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia o violenza alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico.
Di conseguenza, se, ai fini della distinzione tra i reati de quibus, alla partecipazione al reato di terzi concorrenti non creditori (abbiano, o meno, posto in essere la condotta tipica) non è possibile attribuire rilievo decisivo, risulta, al contrario, determinante il fatto che i terzi eventualmente concorrenti ad adiuvandum del preteso creditore abbiano, o meno, perseguito (anche o soltanto) un interesse proprio.
Ove ciò sia accaduto, i terzi (ed il creditore) risponderanno di concorso in estorsione; in caso contrario, ove cioè i concorrenti nel reato abbiano perseguito proprio e soltanto l’interesse del creditore, nei limiti in cui esso sarebbe stato in astratto giudizialmente tutelabile, tutti risponderanno di concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Non appare inopportuno precisare che, di conseguenza, nei casi in cui ricorra la circostanza aggravante della c.d. “finalità mafiosa” (art. 416-bis.1 cod. pen.: essere “i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi… al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste” dall’art. 416-bis cod. pen.), la finalizzazione della condotta alla soddisfazione di un interesse ulteriore (anche se di per sé di natura non patrimoniale) rispetto a quello di ottenere la mera soddisfazione del diritto arbitrariamente azionato, comporta la sussumibilità della fattispecie sempre e comunque nella sfera di tipicità dell’art. 629 cod. pen., con il concorso dello stesso creditore, per avere agevolato il perseguimento (anche o soltanto) di una finalità (anche soltanto lato sensu) di profitto di terzi.
D’altro canto, questa Corte ha già chiarito che non è configurabile il reato di ragion fattasi, bensì quello di estorsione (in concorso con quello di partecipazione ad associazione per delinquere), allorché si sia in presenza di una organizzazione specializzata in realizzazione di crediti per conto altrui, la quale operi, in vista del conseguimento anche di un proprio profitto, mediante sistematico ricorso alla violenza o ad altre forme di illecita coartazione nei confronti dei soggetti indicatile come debitori (Sez. 2, n. 1556 del 01/04/1992, Dionigi, Rv. 189943; Sez. 2, n. 12982 del 16/02/2006, Caratozzolo, Rv. 234117)”.
Così tracciate le differenze tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione, va puntualizzato che, vertendosi in un caso di condotta tipica realizzata da un soggetto terzo rispetto al titolare della pretesa economica che si assume tutelabile in giudizio, occorre verificare se gli agenti, con la condotta minacciosa e/o violenta, intendessero perseguire un interesse proprio e ulteriore rispetto a quello della restituzione della caparra pretesa da C.C.. Interesse proprio e ulteriore che, vale la pena ribadirlo, può essere di per sé di natura non patrimoniale rispetto a quello di ottenere la mera soddisfazione del diritto arbitrariamente azionato.
