Nei giorni scorsi TF ha dato notizia della pubblicazione della sentenza con cui la Corte EDU ha definito il caso Isaia ed altri c. Italia (a questo link per la consultazione e il download della versione in lingua inglese della decisione).
È adesso il momento di approfondire i punti essenziali della sua motivazione e dell’opinione marcatamente dissenziente del componente italiano del collegio, Dr. Raffaele Sabato.
La parte descrittiva di entrambe tali parti sarà alimentata esclusivamente da passaggi letterali del provvedimento, evidenziandoli tra virgolette ed in corsivo.
Eventuali interruzioni al loro interno saranno evidenziate con il simbolo […].
L’enfatizzazione in neretto di talune espressioni della decisione è di chi scrive.
Seguirà conclusivamente il commento.
LA SENTENZA (PUNTI NN. 1/106)
I ricorrenti e l’oggetto del caso (punto 1)
Ricorrono Giuseppe Isaia, Carmela Scaletta e Davide Isaia con distinti ricorsi riuniti dalla Corte.
“Il caso riguarda la «confisca preventiva» dei beni dei ricorrenti, disposta dai tribunali nazionali competenti ai sensi dell’articolo 24 del decreto legislativo n. 159 del 6 settembre 2011 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione – «Decreto n. 159/2011»), in quanto il primo ricorrente era stato considerato una persona pericolosa per la società durante un certo periodo di tempo e i beni confiscati erano ritenuti proventi di attività illecite commesse o presumibilmente commesse durante tale periodo. I ricorrenti hanno lamentato che le decisioni dei tribunali nazionali non erano conformi alle condizioni stabilite dalla legislazione nazionale e dalla giurisprudenza per l’imposizione della misura contestata.”.
Esposizione dell’iter giudiziario (punti 2/19), della ricognizione normativa (punti 20/22) e della giurisprudenza nazionale (punti 23/33)
Si rimanda per intero alla decisione.
Denuncia di violazione dell’articolo 1 del protocollo 1 (punti 35/93)
…La qualificazione del ricorso (punti nn. 35/36)
“35. I ricorrenti hanno denunciato, ai sensi dell’articolo 6 § 1 della Convenzione, la «confisca preventiva» dei loro beni, sostenendo che le decisioni dei tribunali nazionali non erano conformi alle condizioni stabilite dalla legislazione e dalla giurisprudenza nazionali per l’imposizione della misura contestata.
36. Essendo competente a qualificare giuridicamente i fatti della causa (cfr. Radomilja e altri c. Croazia [GC], nn. 37685/10 e 22768/12, §§ 114 e 126, 20 marzo 2018, e Yüksel Yalçınkaya c. Turchia [GC], n. 15669/20, § 217, 26 settembre 2023), la Corte ritiene che le denunce dei ricorrenti debbano essere esaminate esclusivamente alla luce dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione (cfr., per lo stesso approccio, Todorov e altri c. Bulgaria, nn. 50705/11 e altri 6, § 129, 13 luglio 2021; Yordanov e altri c. Bulgaria, nn. 265/17 e 26473/18, § 69, 26 settembre 2023; e Mandev e altri c. Bulgaria, nn. 57002/11 e altri 4, § 78, 21 maggio 2024)”.
…La ricevibilità (punto n. 37)
“37. La Corte rileva che le domande non sono manifestamente infondate né inammissibili per gli altri motivi elencati nell’articolo 35 della Convenzione. Esse devono pertanto essere dichiarate ammissibili.”
… L’ingerenza nel diritto al pacifico godimento dei beni (punti nn. 38/42)
“38. L’articolo 1 del Protocollo n. 1, che garantisce in sostanza il diritto di proprietà, comprende tre norme distinte. La prima, espressa nella prima frase del primo paragrafo, sancisce il principio del godimento pacifico dei beni in generale. La seconda norma, contenuta nella seconda frase dello stesso paragrafo, riguarda la privazione dei beni e la sottopone a determinate condizioni. La terza, contenuta nel secondo paragrafo, riconosce che gli Stati contraenti hanno il diritto, tra l’altro, di controllare l’uso della proprietà in funzione dell’interesse generale. La seconda e la terza norma, che riguardano casi particolari di interferenza con il diritto al pacifico godimento dei beni, devono essere interpretate alla luce del principio generale sancito dalla prima norma (cfr., tra le molte altre autorità, Immobiliare Saffi c. Italia [GC], n. 22774/93, § 44, CEDU 1999-V; cfr. anche Todorov e altri, § 179, e Yordanov e altri, § 97, entrambi citati sopra).
39. La Corte osserva innanzitutto che le parti non hanno contestato il fatto che la confisca dei beni dei ricorrenti abbia costituito un’ingerenza nel loro diritto al pacifico godimento dei beni garantito dall’articolo 1 del Protocollo n. 1. La Corte non vede alcun motivo per ritenere diversamente. […]
42. Tuttavia, secondo la Corte, non è necessario determinare in base a quale delle tre norme dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 debba essere esaminato il caso, poiché i principi che disciplinano la questione della giustificazione sono sostanzialmente gli stessi (cfr. Todorov e altri, § 182, e Yordanov e altri, § 98, entrambi citati sopra; cfr. anche Denisova e Moiseyeva c. Russia, n. 16903/03, § 55, 1° aprile 2010)”.
…La giustificazione dell’ingerenza: le valutazioni della Corte (punti nn. 43/93 per la motivazione nella sua interezza; punti nn. 60/93 per le valutazioni della Corte)
“60. La Corte ribadisce che il primo e più importante requisito dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 è che qualsiasi interferenza da parte di un’autorità pubblica con il pacifico godimento dei beni debba essere legittima: la seconda frase del primo comma autorizza la privazione dei beni solo «alle condizioni previste dalla legge» e il secondo comma riconosce che gli Stati hanno il diritto di controllare l’uso dei beni applicando le «leggi». Inoltre, lo Stato di diritto, uno dei principi fondamentali di una società democratica, è insito in tutti gli articoli della Convenzione (cfr. Lekić c. Slovenia [GC], n. 36480/07, § 94, 11 dicembre 2018).
61. L’esistenza di una base giuridica nel diritto interno non è di per sé sufficiente a soddisfare il principio di legalità. Inoltre, la base giuridica deve avere una certa qualità, ovvero deve essere sufficientemente accessibile, precisa e prevedibile nella sua applicazione e nelle sue conseguenze (cfr. Centro Europa 7 S.r.l. e Di Stefano c. Italia [GC], n. 38433/09, § 187, CEDU 2012), compatibile con lo Stato di diritto e fornire garanzie procedurali sufficienti contro l’arbitrarietà (cfr. Vistiņš e Perepjolkins c. Lettonia [GC], n. 71243/01, § 96, 25 ottobre 2012). Il requisito della legittimità richiede anche il rispetto delle disposizioni pertinenti del diritto interno (cfr. East West Alliance Limited c. Ucraina, n. 19336/04, § 167, 23 gennaio 2014; Dimitrovi c. Bulgaria, n. 12655/09, § 44, 3 marzo 2015; e Zlínsat, spol. S r.o. c. Bulgaria, n. 57785/00, §§ 97-98, 15 giugno 2006).
62. Nel caso di specie, la Corte osserva innanzitutto che le parti non hanno contestato il fatto che la misura contestata avesse un fondamento nel diritto interno, in particolare nell’articolo 24 § 1 del decreto n. 159/2011, e che fosse accessibile.
63. Il disaccordo tra le parti riguardava piuttosto il rispetto delle condizioni e delle limitazioni imposte dal diritto interno, come interpretato dalla giurisprudenza nazionale pertinente, al fine di applicare la confisca contestata, con particolare riferimento: i) alla natura e alla gravità dei reati la cui commissione giustificava la constatazione che la persona in questione rappresentava un pericolo per la società, comportando la presunzione che i beni acquisiti durante tale periodo fossero il prodotto di attività illecite, e ii) alla delimitazione temporale dei beni che, nella misura in cui erano stati acquisiti durante il periodo in cui la persona in questione aveva commesso reati penali, potevano essere confiscati.
64. La Corte ritiene che, nel caso di specie, la questione se la misura controversa sia stata imposta nel rispetto delle condizioni e delle limitazioni stabilite dal diritto interno e dalla giurisprudenza nazionale e se sia quindi compatibile con il principio di legalità sia strettamente connessa alla questione se la misura fosse proporzionata rispetto agli obiettivi legittimi perseguiti. Essa esaminerà pertanto tali questioni congiuntamente.
65. Indipendentemente dalla norma applicabile dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, qualsiasi interferenza da parte di un’autorità pubblica nel pacifico godimento dei beni può essere giustificata solo se serve un interesse generale legittimo. Il principio di «equo equilibrio» insito nell’articolo 1 del Protocollo n. 1 presuppone di per sé l’esistenza di un interesse generale della collettività (cfr. The J. Paul Getty Trust and Others, citata sopra, § 335, con ulteriori riferimenti). […]
Per quanto riguarda in particolare la misura di «confisca preventiva» prevista dalla legge italiana, la Corte ha già constatato che essa era intesa a garantire che il crimine non pagasse e a impedire l’arricchimento ingiustificato, privando l’interessato e i terzi che non avevano un diritto valido sui beni da confiscare dei proventi delle attività criminali, e che era quindi essenzialmente di natura riparatoria e non punitiva (cfr. Garofalo e altri c. Italia (dec.), nn. 47269/18 e altri 3, § 134, 21 gennaio 2025).
67. Nel caso di specie, la Corte ritiene che il regime italiano di confisca senza condanna perseguiva uno scopo legittimo di interesse pubblico, ovvero evitare l’arricchimento ingiusto derivante da reati penali, privando le persone interessate dei profitti illeciti (cfr. Garofalo e altri, citato sopra, § 133; Todorov e altri, citato sopra, § 186).
68. La Corte ribadisce che la preoccupazione di raggiungere un «giusto equilibrio» tra le esigenze dell’interesse generale della collettività e le esigenze della tutela dei diritti fondamentali dell’individuo si riflette nella struttura dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 nel suo complesso, indipendentemente dai paragrafi interessati in ciascun caso, e comporta la necessità di un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo che si intende raggiungere (cfr., tra le altre autorità, The J. Paul Getty Trust e altri, citata sopra, § 374). L’equilibrio richiesto non sussiste se le persone interessate hanno dovuto sopportare un onere eccessivo (cfr. Todorov e altri, citata sopra, § 187).
69. La Corte ribadisce inoltre che, sebbene l’articolo 1 del Protocollo n. 1 non contenga requisiti procedurali espliciti, essa ha costantemente richiesto che i procedimenti interni offrano alla persona lesa una ragionevole opportunità di sottoporre il proprio caso alle autorità competenti al fine di contestare efficacemente le misure che interferiscono con i diritti garantiti da tale disposizione. Per accertare se tale condizione sia stata soddisfatta, occorre esaminare in modo globale le procedure applicabili (cfr. Rummi c. Estonia, n. 63362/09, § 104, 15 gennaio 2015).
70. La Corte ha già riconosciuto la compatibilità, in linea di principio, con la Convenzione delle procedure di confisca dei beni in assenza di una condanna che accerti la colpevolezza degli imputati, qualora tali beni siano collegati alla presunta commissione di vari reati gravi che comportano un arricchimento ingiustificato. Pertanto, ha ritenuto che le richieste fossero manifestamente infondate o che non vi fosse stata violazione nei casi relativi a reati di mafia (cfr. Raimondo c. Italia, 22 febbraio 1994, §§ 16-30, Serie A n. 281-A; Arcuri e altri c. Italia (dec.), n. 52024/99, CEDU 2001-VII; e Morabito e altri c. Italia (dec.), n. 58572/00, CEDU 7 giugno 2005), traffico di droga (cfr. Butler c. Regno Unito (dec.), n. 41661/98, 27 giugno 2002; Webb c. Regno Unito (dec.), n. 56054/00, 10 febbraio 2004; e Saccoccia c. Austria, n. 69917/01, §§ 87-91, 18 dicembre 2008), corruzione nei servizi pubblici (cfr. Gogitidze e altri, citato sopra, §§ 103-14), criminalità organizzata (cfr. Silickienė, citato sopra, §§ 60-70) o riciclaggio di denaro (cfr. Balsamo c. San Marino, nn. 20319/17 e 21414/17, §§ 89-95, 8 ottobre 2019, e Zaghini c. San Marino, n. 3405/21, §§ 60-71, 11 maggio 2023). La Corte ha inoltre chiarito che la confisca non dovrebbe essere utilizzata per perseguire ulteriori obiettivi specificamente contemplati da altri strumenti, che contengono le proprie garanzie procedurali (cfr. Todorov e altri, citato sopra, § 203).
71. Riassumendo l’approccio seguito in tali casi, la Corte ha osservato, in primo luogo, che si può affermare l’esistenza di norme giuridiche comuni europee e persino universali che incoraggiano la confisca dei beni collegati a reati gravi quali la corruzione, il riciclaggio di denaro e i reati di droga, senza che sussista una precedente condanna penale. In secondo luogo, l’onere di provare l’origine lecita dei beni che si presume siano stati acquisiti illecitamente può essere legittimamente trasferito ai convenuti in tali procedimenti non penali di confisca, compresi i procedimenti civili in rem. In terzo luogo, le misure di confisca possono essere applicate non solo ai proventi diretti del reato, ma anche ai beni, compresi i redditi e altri benefici indiretti, ottenuti convertendo o trasformando i proventi diretti del reato o mescolandoli con altri beni, eventualmente leciti. Infine, le misure di confisca potrebbero essere applicate non solo alle persone direttamente sospettate di reati penali, ma anche a terzi che detengono diritti di proprietà senza la necessaria buona fede, al fine di nascondere il loro ruolo illecito nell’accumulo della ricchezza in questione (cfr. Gogitidze e altri, §§ 105 e 107, e Telbis e Viziteu, § 76, entrambi citati sopra).
72. Nel valutare se le misure di confisca fossero compatibili con le garanzie sancite dall’articolo 1 del Protocollo n. 1, la Corte ha valutato, in primo luogo, la natura dei reati presupposto e, in particolare, la loro gravità e la questione se si potesse presumere che generassero redditi illeciti (cfr. Todorov e altri, citato sopra, § 200, e, in particolare, Yordanov e altri, citato sopra, § 115, quest’ultimo riguardante una confisca non basata su una condanna simile a quella in questione nel presente caso). La Corte ha espresso serie preoccupazioni in merito alla legislazione nazionale che prevedeva che le procedure per l’imposizione di misure simili potessero essere avviate non solo per reati particolarmente gravi come quelli relativi alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti, alla corruzione nella pubblica amministrazione o al riciclaggio di denaro, o altri reati che si poteva presumere generassero sempre reddito, ma anche per una serie di altri reati, oltre ad alcuni illeciti amministrativi (cfr., in particolare, Yordanov e altri, § 115, e Todorov e altri, § 200, entrambi citati sopra). Inoltre, sebbene la Corte abbia ritenuto legittimo che le autorità nazionali competenti emettessero ordinanze di confisca sulla base di una preponderanza di prove che suggerivano che i redditi legittimi dei convenuti non potevano essere sufficienti per consentire loro di acquistare la proprietà in questione (cfr. Gogitidze e altri, § 107; Telbis e Viziteu, § 68; e Balsamo, § 91, tutti citati sopra), ha chiarito che la possibilità di imporre tali misure dovrebbe essere subordinata alla necessità di individuare discrepanze «significative» tra il reddito legale accertato di una persona e i beni da essa posseduti (cfr. Todorov e altri, citato sopra, § 204).
73. In secondo luogo, la Corte ha chiarito che era necessario che le autorità nazionali stabilissero un nesso tra i beni da confiscare e i reati presupposto che erano stati presumibilmente commessi dalla persona in questione (cfr. Todorov e altri, citato sopra, § 212, relativo a una confisca estesa successiva alla condanna, e Yordanov e altri, citato sopra, § 124, relativo anch’esso a una confisca non basata su una condanna). Questo approccio è stato sviluppato dalla Corte nelle cause Todorov e altri e Yordanov e altri sulla base della sua giurisprudenza precedente. In particolare, la Corte ha osservato che nei casi precedenti aveva tenuto conto del fatto che le autorità nazionali che avevano ordinato la confisca avessero stabilito la provenienza criminale dei beni in questione. Ad esempio, nella causa G.I.E.M. S.R.L. e altri c. Italia ([GC], nn. 1828/06 e altri 2, § 301, 28 giugno 2018) ha rilevato nella sua analisi di proporzionalità il grado di colpevolezza o negligenza da parte dei ricorrenti. In altri casi, come Phillips (citato sopra, § 53), Veits (citato sopra, § 74) e Silickienė (citato sopra, § 68), ha cercato di accertarsi che l’origine illecita o criminale dei beni da confiscare fosse stata accertata nei procedimenti interni, anche se non secondo uno standard di prova di diritto penale. Per contro, la Corte ha riscontrato violazioni delle disposizioni della Convenzione in alcuni altri casi di confisca in cui le autorità nazionali non avevano dimostrato che i beni confiscati fossero proventi di reato né avevano effettuato alcuna valutazione dei beni esatti che avrebbero potuto essere ottenuti attraverso il reato (cfr. Geerings c. Paesi Bassi, n. 30810/03, § 47, 1° marzo 2007, e Rummi, citata sopra, § 107).
74. Di conseguenza, la Corte ha ritenuto che, nel determinare se fosse stato raggiunto il giusto equilibrio richiesto dall’articolo 1 del Protocollo n. 1 nei casi riguardanti la confisca di beni presumibilmente derivanti da attività illecite, fosse necessario valutare se i tribunali nazionali avessero fornito alcuni dettagli in merito alla presunta condotta criminale da cui avrebbero avuto origine i beni da confiscare e dimostrato in modo ragionato che tali beni potevano essere il provento della condotta criminale dimostrata o presunta (cfr. Todorov e altri, § 215, e Yordanov e altri, § 124, entrambi citati sopra).
75. Con specifico riferimento alla misura di “confisca preventiva” prevista dalla legge italiana, nella causa Garofalo e altri (citata sopra) la Corte ha ritenuto che essa non potesse essere considerata una sanzione, ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione, in ragione di una serie di limitazioni previste dalla legge nazionale applicabile e dalla giurisprudenza e, in particolare, al fatto che la confisca in questione poteva essere applicata esclusivamente nei confronti di beni che si presumeva avessero origine da attività illecite, a causa della mancanza di prove che ne dimostrassero l’origine lecita (ibid., § 129); che la misura poteva essere giustificata solo nella misura in cui i reati presumibilmente commessi dall’interessato fossero fonte di profitti illeciti, di importo ragionevolmente congruente con il valore dei beni da confiscare (ibid., § 130); che la misura potesse essere applicata solo in relazione ai beni acquisiti dall’interessato durante il periodo in cui avrebbe presumibilmente commesso reati penali che comportavano profitti illeciti, dimostrando così che tale misura mirava a prevenire l’arricchimento ingiustificato sulla base della commissione di reati penali (ibid., § 131); e che essa doveva essere applicata solo in relazione ai profitti illeciti derivanti dai reati presumibilmente commessi dall’interessato, senza estendersi al prodotto del reato (ibid., § 132).
76. In terzo luogo, per quanto riguarda le garanzie procedurali e in particolare lo standard di prova imposto alle autorità nazionali, ogniqualvolta un provvedimento di confisca fosse il risultato di un procedimento relativo ai proventi di reati gravi, la Corte non ha richiesto la prova «al di là di ogni ragionevole dubbio» dell’origine illecita dei beni in tali procedimenti. È stato invece ritenuto sufficiente, ai fini del controllo di proporzionalità ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, il bilanciamento delle probabilità o l’elevata probabilità dell’origine illecita, unitamente all’incapacità del proprietario di provare il contrario (cfr. Silickienė, §§ 60-70; Balsamo, § 91; Telbis e Viziteu, § 68; e Zaghini, § 62, tutti citati sopra). Tuttavia, la Corte ha chiarito che l’ordinamento giuridico interno dovrebbe limitare il periodo di tempo in cui i beni in questione possono essere confiscati, al fine di non rendere eccessivamente oneroso per l’interessato fornire la prova del reddito lecito o della provenienza lecita dei beni acquisiti molti anni prima dell’avvio del procedimento di confisca (cfr. Todorov e altri, § 201-02, e Yordanov e altri, §§ 116-17, entrambi citati sopra).
77. Inoltre, la Convenzione ha concesso alle autorità nazionali la facoltà di applicare misure di confisca non solo alle persone direttamente accusate di reati, ma anche ai loro familiari e altri parenti stretti che si presumeva possedessero e gestissero informalmente i beni “illeciti” per conto dei sospetti autori dei reati, o che comunque non possedevano il necessario status di buona fede (cfr. Gogitidze e altri, citato sopra, § 107, e Telbis e Viziteu, citata sopra, § 68, con ulteriori riferimenti). La Corte ha ritenuto ragionevole che i ricorrenti, che si presumeva avessero indebitamente beneficiato dei proventi dei reati commessi dai loro familiari, fossero tenuti ad assolvere la loro parte dell’onere della prova confutando i fondati sospetti del pubblico ministero circa l’origine illecita dei loro beni (cfr. Balsamo, § 91, e Telbis e Viziteu, § 77, entrambi citati sopra). Tuttavia, la Corte ha richiesto alle autorità nazionali di dimostrare l’esistenza di un nesso tra i beni in questione e i reati commessi dal presunto autore del reato, senza basarsi sulla semplice discrepanza tra le entrate e le spese della persona proprietaria dei beni (cfr. Todorov e altri, citata sopra, § 221).
78. Fintantoché è stata effettuata l’analisi del nesso tra i beni da confiscare e i reati presupposto, la Corte si rimette generalmente alla valutazione dei tribunali nazionali, a meno che i ricorrenti non abbiano dimostrato che tale valutazione è arbitraria o manifestamente irragionevole (cfr. Yordanov e altri, citata sopra, § 125, con ulteriori riferimenti).
79. Tenuto conto dei principi generali sopra ribaditi e delle denunce dei ricorrenti, la Corte ritiene che nel caso di specie sia necessario valutare se i tribunali nazionali abbiano motivato in modo ragionato e sulla base di una valutazione obiettiva dei fatti e delle reati gravi che generano redditi illeciti (cfr. paragrafo 74 sopra). In tale contesto, la Corte ha chiesto alle autorità nazionali di fornire almeno alcuni dettagli in merito alla presunta condotta illecita che ha portato all’acquisizione dei beni da confiscare e di stabilire un nesso tra tali beni e la condotta illecita (Todorov e altri, citato sopra, §§ 220 e 238), in particolare dal punto di vista temporale. La Corte sottolinea che tale valutazione è richiesta non solo dalla sua giurisprudenza, ma anche dalla giurisprudenza nazionale pertinente (cfr. paragrafi 23-32 supra).
80. Nel caso di specie, la Corte rileva che le autorità nazionali hanno osservato che il primo ricorrente aveva commesso diversi reati tra il 1980 e il 1998, tra cui rapine e tentate rapine nel 1980, 1993, 1994, 1995 e 1998, furto aggravato nel 1980, estorsione nel 1987, associazione a delinquere finalizzata alla rapina tra il 1990 e il 1995 e ricettazione nel 1995, e hanno inoltre osservato che egli aveva commesso un altro furto nel 2008 (cfr. paragrafo 7 supra). La Corte osserva che, secondo la fedina penale del ricorrente, l’ultimo reato citato era un tentativo di furto (cfr. paragrafo 8 supra).
Il procedimento di confisca è iniziato nel 2018 con la richiesta del questore e si è concluso nel 2022 con la sentenza definitiva della Corte di cassazione che ha confermato la decisione del tribunale di primo grado sulla confisca (cfr. paragrafi 5 e 19 supra).
81. In primo luogo, la Corte osserva di aver già espresso serie preoccupazioni quando ha constatato che le autorità nazionali avevano confiscato beni acquisiti molti anni dopo la commissione dei reati presupposto su cui si basava la misura contestata (cfr. Todorov e altri, citata sopra, §§ 219 e 237, e, mutatis mutandis, Dimitrovi, citata sopra, § 46). Nel caso di specie, la Corte osserva che non vi è alcuna ragione apparente per cui le autorità abbiano atteso dieci anni dopo la fine del periodo in cui il primo ricorrente aveva rappresentato un pericolo per la società (dal 1980 al 2008) per avviare il procedimento di confisca (cfr. paragrafi 5 e 7 supra). Inoltre, la Corte sottolinea che, secondo i tribunali nazionali, il primo ricorrente ha rappresentato per la prima volta un pericolo per la società nel 1980, ovvero trentotto anni prima (cfr. paragrafo 7 sopra).
82. In secondo luogo, per quanto riguarda i dettagli della condotta criminale che avrebbe potuto generare i presunti proventi di reato e la capacità di tali reati di generare reddito nel caso in esame, la Corte osserva quanto segue: le autorità nazionali si sono limitate a fare riferimento al fatto che il primo ricorrente era stato condannato per diversi reati (cfr. paragrafi 7 e 13 supra) senza valutare se i reati presupposto avessero prodotto, nelle circostanze specifiche del caso, un guadagno finanziario significativo, in particolare tenuto conto del fatto che il ricorrente era stato condannato in molti casi per tentato reato; che in un’occasione i tribunali nazionali hanno applicato circostanze attenuanti, definite dall’articolo 62 § 6 del codice penale, come «il pieno risarcimento del danno prima del processo, mediante indennizzo o, se possibile, restituzione; [e] l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato».
Per quanto riguarda più specificamente il periodo compreso tra il 1998 e il 2008, la Corte osserva che il ricorrente, dopo aver trascorso un lungo periodo in carcere, ha commesso un tentativo di furto nel 2008 (cfr. paragrafi 7 e 8 supra) e che le autorità non hanno fornito alcuna motivazione sul modo in cui tale reato avrebbe potuto generare un reddito illecito.
Inoltre, nella maggior parte dei casi, i tribunali penali hanno emesso un ordine di confisca di beni non specificati al momento della condanna (cfr. paragrafo 8 sopra). Tuttavia, il ragionamento dei tribunali non tiene conto di tali precedenti confische penali né del loro potenziale impatto sulla confisca preventiva dei beni dei ricorrenti.
83. Alla luce di quanto sopra, e tenendo conto della giurisprudenza nazionale citata che richiede la commissione, durante un «periodo di tempo significativo», di «attività criminali che […] producono redditi illeciti» (cfr. paragrafi 23-24 supra), la Corte ritiene che i tribunali nazionali non abbiano dimostrato in modo ragionato che si potesse presumere che il primo ricorrente avesse commesso abitualmente reati penali in grado di produrre redditi illeciti.
84. In terzo luogo, per quanto riguarda il fatto che i beni confiscati potessero essere il prodotto di attività criminali, la Corte osserva che essi sono stati acquistati nel 2010, nel 2016 e nel 2018 (cfr. paragrafo 6 supra), vale a dire – ad eccezione dell’acquisto del 2010 – molti anni dopo la fine del periodo durante il quale il ricorrente era considerato un pericolo per la società (2008) e ancora più a lungo dopo che egli aveva commesso reati in grado di generare redditi illeciti (1998).
85. La Corte osserva che nel caso di specie i tribunali nazionali hanno presunto l’esistenza di un nesso tra tali beni e la condotta illecita di cui era stato accusato il primo ricorrente, sulla base del solo fatto che il reddito legittimo dei ricorrenti era insufficiente a giustificare i loro beni (cfr. paragrafi 9 e 13 supra).
La Corte osserva che, secondo la Corte d’appello, il rapporto sproporzionato tra i beni posseduti e il reddito potrebbe costituire l’unica prova dell’origine illecita di tali beni (cfr. paragrafo 13 supra). Inoltre, la Corte di cassazione ha precisato che, al fine di giustificare l’origine dei beni soggetti a confisca, fornire «una giustificazione per ogni singola transazione [era] irrilevante, dato che il confronto tra le risorse legittimamente disponibili e i singoli acquisti [non poteva] essere effettuato in modo isolato, slegato dal contesto complessivo delle transazioni finanziarie e dei movimenti di beni effettuati nello stesso periodo di tempo limitato, ma [doveva] essere effettuato alla luce di una considerazione complessiva dei movimenti patrimoniali avvenuti nel periodo in questione e della destinazione complessiva di tutte le risorse economiche disponibili» (cfr. punto 19 supra).
86. Tuttavia, la Corte ha già stabilito in precedenza che, indipendentemente dal periodo in cui sono stati acquistati i beni confiscati, il semplice riferimento alla discrepanza tra entrate e uscite non è sufficiente per stabilire un nesso tra i reati presupposto e i beni confiscati (cfr. Todorov e altri, citata sopra, § 221).
Pertanto, la Corte ritiene che il ragionamento dei tribunali nazionali sia stato insufficiente per quanto riguarda l’esistenza di un nesso tra i beni confiscabili e la condotta illecita.[…]
88. Sulla base delle considerazioni sopra esposte (cfr. paragrafi 85-86 supra), la Corte osserva che le carenze individuate hanno viziato la valutazione di tale proprietà da parte dei tribunali nazionali. Inoltre, al di là del semplice riferimento alla discrepanza tra il reddito dei ricorrenti e spese, i tribunali nazionali non hanno proceduto a una valutazione rigorosa della catena di reinvestimenti che ha portato all’acquisto dei beni confiscati, omettendo di fornire elementi specifici (cfr. paragrafi 11, 13 e 19 supra). A titolo esemplificativo, la Corte osserva che le autorità nazionali hanno confiscato conti bancari aperti sei e otto anni dopo la fine del periodo in cui il primo ricorrente aveva rappresentato un pericolo per la società, sulla base della semplice discrepanza tra le entrate e le spese della famiglia e senza valutare in alcun modo le transazioni bancarie al fine di risalire all’origine del denaro. […]
Pertanto, la Corte ritiene che il ragionamento dei giudici nazionali non fosse conforme al requisito di un nesso temporale tra i beni confiscati e i reati che avrebbero generato il reddito illecito.
89. Prima di concludere, la Corte osserva inoltre che nessuno dei beni confiscati nel caso di specie era ufficialmente di proprietà del primo ricorrente, destinatario del provvedimento impugnato, bensì dei secondi e terzi ricorrenti (cfr. paragrafo 6 supra), che non erano stati ritenuti dalle autorità nazionali come individui pericolosi per la società. Tuttavia, le decisioni dei tribunali nazionali non includevano alcun tipo di motivazione sul motivo per cui i beni confiscati potessero essere considerati a disposizione del primo ricorrente, come richiesto dalla legge nazionale (cfr. paragrafo 22 sopra). Si basavano semplicemente sul fatto che il secondo e il terzo ricorrente non disponevano di un reddito legale sufficiente a giustificare l’acquisto dei beni confiscati (cfr. paragrafo 9 sopra). I tribunali nazionali hanno quindi presunto che vi fosse un nesso tra i beni confiscati e le attività criminali del primo ricorrente e che essi fossero quindi proventi di reato, dopo aver constatato che il secondo e il terzo ricorrente non avevano fornito la prova di un reddito legale sufficiente (cfr. Todorov e altri, citato sopra, § 246).
90. La Corte ritiene pertanto che le decisioni dei tribunali nazionali non abbiano fornito alcuna motivazione che dimostri che i beni confiscati, acquistati nel 2010, 2016 e 2018 dal secondo e dal terzo ricorrente, potessero essere considerati come acquisiti con i proventi dei reati penali commessi tra il 1980 e il 1998 dal primo ricorrente, e che essi fossero a sua disposizione. Pertanto, non sono riusciti a dimostrare in modo ragionato e sulla base di una valutazione obiettiva dei fatti e delle prove che i beni confiscati potessero essere considerati come acquistati con i proventi dei reati commessi dal primo ricorrente.
“91. Alla luce di quanto sopra, e ribadendo che il suo potere di verificare la conformità con il diritto interno è limitato ai casi di applicazione manifestamente errata delle disposizioni giuridiche in questione o di conclusioni arbitrarie (cfr. paragrafo 78 supra; cfr. anche BENet Praha, spol. sr.o. c. Repubblica Ceca, n. 33908/04, § 97, 24 febbraio 2011, e BTS Holding, a.s. c. Slovacchia, n. 55617/17, § 65, 30 giugno 2022), la Corte ritiene che le carenze delle decisioni dei tribunali nazionali fossero così gravi e manifestamente incompatibili con diverse limitazioni e garanzie stabilite dalla legislazione nazionale e dalla giurisprudenza pertinenti che la misura deve essere considerata come imposta in modo arbitrario o manifestamente irragionevole. In particolare, la Corte ritiene che le decisioni dei tribunali nazionali non fossero conformi alle limitazioni stabilite dalla legge nazionale per quanto riguarda l’identificazione dei reati che producono redditi illeciti (cfr. paragrafo 82 supra), la delimitazione temporale dei beni che potevano essere legittimamente sottoposti a confisca (cfr. paragrafo 86 supra) e l’identificazione dei beni che, sebbene ufficialmente di proprietà di terzi, erano considerati a disposizione della persona in questione (cfr. paragrafo 89 supra).
92. In ogni caso, e anche supponendo che i limiti stabiliti dal diritto interno non fossero stati così gravemente disattesi, il fatto che il procedimento sia stato avviato molti anni dopo gli ultimi reati (cfr. paragrafo 81 supra) e che le autorità nazionali non abbiano stabilito alcun nesso tra le attività criminali del primo ricorrente e i beni confiscati (cfr. paragrafi 82, 86, 88 e 90 supra) è sufficiente affinché la Corte ritenga che non sia stato raggiunto il necessario equilibrio equo tra gli obiettivi legittimi di interesse pubblico perseguiti dalla misura in questione e i diritti individuali dei ricorrenti, vale a dire che la confisca dei beni dei ricorrenti ha costituito un’ingerenza sproporzionata nei loro diritti ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1.
93. Si è quindi verificata una violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1“.
…L’applicazione dell’art. 41 CEDU (punti nn. 94/106)
“94. L’articolo 41 della Convenzione recita:
«Se la Corte constata che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno della Parte contraente interessata consente solo una riparazione parziale, la Corte, se necessario, accorda una giusta soddisfazione alla parte lesa».” […]
A. Danno
“99. Pertanto, la Corte ritiene opportuno richiedere allo Stato convenuto di garantire, con mezzi adeguati e senza indebiti ritardi, che i beni in questione (cfr. paragrafo 6 sopra) siano restituiti ai ricorrenti.
100. La Corte osserva inoltre che, nei casi in cui ha ordinato la restituzione di beni illegalmente espropriati dallo Stato, ha ritenuto che, qualora la restituzione fosse impossibile, lo Stato fosse tenuto a versare ai ricorrenti una somma corrispondente al valore dei beni al momento in cui il ricorrente ne aveva perso la proprietà (cfr. Guiso-Gallisay c. Italia (giusta soddisfazione) [GC], n. 58858/00, § 103, 22 dicembre 2009, Vistiņš e Perepjolkins, citata sopra, § 111).
101. Nel caso di specie, i ricorrenti hanno chiesto, in alternativa alla restituzione, il rimborso del valore dei beni al momento dell’acquisto, come stabilito nella decisione del tribunale di primo grado.
102. La Corte ritiene che, qualora la restituzione dei beni confiscati fosse impossibile a causa di eventuali danni o distruzione dei beni in questione verificatisi nel frattempo, lo Stato convenuto debba rimborsare il valore di tali beni (cfr., mutatis mutandis, Akshin Garayev c. Azerbaigian, n. 30352/11, § 73, 2 febbraio 2023) come determinato nella decisione del tribunale di primo grado (cfr. paragrafi 6 e 7 sopra).
103. Infine, la Corte osserva che i ricorrenti non hanno presentato alcuna richiesta di risarcimento per danni non pecuniari. La Corte ritiene pertanto che non vi sia motivo di concedere loro alcun risarcimento a tale titolo”.
…Dispositivo
“PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE
1. Dichiara, a maggioranza, ammissibili le domande;
2. Ritiene, con sei voti contro uno, che vi sia stata una violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione;
3. ritiene, con sei voti contro uno, che lo Stato convenuto debba garantire, con mezzi adeguati e senza indebito ritardo, che i beni in questione (cfr. paragrafo 6 supra) siano restituiti ai ricorrenti o, qualora tale restituzione fosse impossibile, che il loro valore, determinato nella decisione del tribunale di primo grado, sia rimborsato ai ricorrenti;
4. Respinge all’unanimità il resto della richiesta di equa soddisfazione presentata dai ricorrenti”.
OPINIONE DISSENZIENTE DEL GIUDICE SABATO (PUNTI NN. 1/101)
L’inammissibilità delle richieste (punti nn. 5/25)
…Il contenuto dei moduli di ricorso
“5. Come ho già detto, la maggioranza ha ritenuto, in primo luogo, che le domande fossero ammissibili. Non capisco come ciò sia stato possibile: i tre moduli di ricorso (praticamente identici per ciascun ricorrente), alla sezione E, pagina 5, contenevano una dichiarazione dei «fatti» lunga solo ventuno righe e mezzo, che consisteva in poco più di un semplice elenco dei beni confiscati e dei dati identificativi (numeri e date) dei relativi procedimenti e sentenze nazionali.
6. Non è stato detto nulla in merito alle ragioni addotte dal capo dell’autorità di polizia locale (questore) nel richiedere la confisca, alle controargomentazioni dei ricorrenti nel procedimento giudiziario o al ragionamento delle sentenze nazionali. In breve, nessuna delle informazioni che ora possiamo leggere nei paragrafi da 2 a 19 della sentenza della maggioranza è stata menzionata in quella sezione del modulo di domanda che, in altre parole, non forniva dettagli che avrebbero consentito alla Corte di comprendere il caso nazionale. Se non fosse stato per il termine «prevenzione» associato ai dettagli dei tribunali nazionali che hanno ordinato la confisca, non sarebbe stata menzionata nemmeno la categoria giuridica generale in cui collocare il caso.
7. Informazioni leggermente più dettagliate, sebbene ancora del tutto inadeguate, si trovavano nella sezione F, a pagina 8, dove era indicata una sola presunta violazione, sotto forma di due denunce ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione:
(a) I primi due paragrafi – che identifico come la prima denuncia – sostenevano che le prove dimostravano effettivamente l’origine lecita dei beni confiscati; i ricorrenti citavano un precedente nazionale e sostenevano che i tribunali nazionali avessero commesso un errore nella valutazione delle prove, in quanto, a loro avviso, le loro risorse lecite erano state sufficienti a giustificare l’acquisto dei beni dopo il periodo di “pericolosità”. Essi hanno inoltre sostenuto che vi era stata una “inversione dell’onere della prova”.
(b) «In secondo luogo» (avverbio che indica che vi erano due motivi di reclamo, almeno fino a quel momento, e che questo era il secondo), i ricorrenti – riferendosi anche a un parere non vincolante del pubblico ministero – sostenevano che non era stato dimostrato alcun «legame temporale tra il periodo di pericolosità e l’acquisizione dei beni confiscati».
(c) “Infine” (avverbio che introduce una frase singola e isolata che non poteva essere interpretata come l’inizio di un’altra denuncia, poiché il contenuto non aveva peso indipendente ed era collegato alla questione precedente del “collegamento temporale”), i ricorrenti hanno sostenuto che “una classificazione di pericolosità sociale sine die … in assenza di elementi decisivi” costituiva “una violazione dei diritti umani”.
Questo è tutto. Non sono state avanzate ulteriori richieste, in particolare nessuna riguardante natura dei reati presupposto, altri aspetti del ragionamento dei e/o il reinvestimento di proventi illeciti, o la proporzionalità in generale o sotto aspetti specifici (tali argomenti – come vedremo – sono comunque “entrati” nell’ambito della causa esaminata dalla maggioranza)”.
…Perché le richieste ai sensi dell’articolo 6 erano inammissibili: incomplete, incomprensibili, di quarto grado e manifestamente infondate
“8. Come si vedrà, la sentenza della maggioranza non ha affrontato direttamente la prima denuncia relativa alla presunta “inversione” dell’onere della prova. Le argomentazioni pertinenti dei ricorrenti – che erano palesemente incomplete, se non incomprensibili – erano inammissibili a sostegno di una denuncia. Anche se fossero stati ammissibili, il loro scopo sarebbe chiaramente quello di chiedere alla Corte di rivalutare le prove, ovvero di pronunciarsi in “quarta istanza”, il che sarebbe stato, ancora una volta, inammissibile. E, anche supponendo che la denuncia relativa alla valutazione delle prove fosse ammissibile, si tratterebbe comunque di una denuncia procedurale, come risulta evidente dal fatto che l’unica disposizione invocata era l’articolo 6.
9. La maggioranza, invece, ha preso in considerazione – nell’ambito di una più ampia valutazione delle «prove» – il reclamo relativo alla «correlazione temporale» (compresa la parte sulla «pericolosità sociale sine die»). I ricorrenti hanno infatti sostenuto nei loro moduli di ricorso che: non era stata dimostrata alcuna “correlazione temporale tra il periodo di pericolosità e l’acquisizione dei beni confiscati”; che i beni confiscati erano stati acquisiti alcuni anni dopo la cessazione della pericolosità; e che la giurisprudenza nazionale (hanno citato la sentenza n. 12329 del 14 febbraio 2020 della Corte di cassazione nella causa Turchi) consentiva tale correlazione «ritardata» solo a condizione che i tribunali nazionali fossero tenuti a fornire motivazioni relative alla derivazione dei beni attuali da acquisizioni effettuate durante il periodo di pericolosità.
10. Non desidero esprimere un parere definitivo sulla ricevibilità formale di questa denuncia. Data la sua mancanza di chiarezza e completezza, strettamente legate all’inadeguata esposizione dei fatti, tale denuncia era probabilmente inammissibile già su questa base.
11. Tuttavia, anche supponendo che l’aspetto “formale” dell’ammissibilità non ponesse alcun problema, dato che gli stessi ricorrenti riconoscevano la possibilità – secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione – di una correlazione temporale “ritardata” qualora i tribunali nazionali fornissero una motivazione relativa al fatto che le attività correnti potevano essere presunte come reinvestimento di fondi precedentemente acquisiti, la Corte avrebbe dovuto verificare i documenti pertinenti e – dato che i tribunali nazionali avevano chiaramente fornito una motivazione su tale punto (cosa che la maggioranza ha negato superficialmente e di cui cercherò di dimostrare l’esistenza) – il ricorso sarebbe stato comunque respinto de plano in quanto manifestamente infondato. Come vedremo, al contrario, sorprendentemente la maggioranza ha assunto una posizione molto critica sulla correlazione ritardata correlazione, anche se gli stessi ricorrenti avevano riconosciuto che era consentita.
12. Comunque sia, anche questa denuncia, se ammissibile, riguardava, in sostanza, come si è visto, una questione di prove e/o di mancanza di motivazione da parte dei tribunali nazionali. Ciò spiega chiaramente perché i ricorrenti si siano basati esclusivamente sull’articolo 6”.
…La ricaratterizzazione artificiale dall’articolo 6 all’articolo 1 del Protocollo n. 1 e l’ampliamento dell’ambito di applicazione, dai moduli di domanda alle osservazioni: l’inammissibilità originaria non può essere sanata (Fu Quan, s.r.o. e Grosam)
“13. A questo punto, il lettore si chiederà se il caso di cui sto parlando sia effettivamente lo stesso trattato nella sentenza della maggioranza. Sì, lo è.
Infatti, il lettore, dopo aver letto le numerose argomentazioni esposte nella sentenza della maggioranza (oltre alle pochissime contenute nelle domande), si chiederà come sia possibile che siano state aggiunte nuove argomentazioni, non correlate a quelle iniziali che ho accuratamente riprodotto sopra. Inoltre, il lettore si chiederà come queste domande – che, come abbiamo visto, erano chiaramente relative solo a questioni di equo processo ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione – siano state riclassificate ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, che non è mai stato invocato. Dove, quindi, nelle domande iniziali c’erano reclami chiari e comprensibili di una violazione del diritto di proprietà?
14. Per rispondere ai dubbi del lettore, dovrò purtroppo illustrare il lungo e tortuoso percorso che ha portato a identificare artificialmente un nuovo ambito di applicazione per questo caso insolito. Le forze motrici sono state: (1) la ricaratterizzazione delle denunce, al di là delle regole stabilite in questo contesto; e (2) l’accettazione di argomenti avanzati per la prima volta nelle osservazioni delle parti, come se fossero un’integrazione delle denunce iniziali (purtroppo, su domande poste dalla Corte che a loro volta andavano oltre le denunce iniziali e proponevano già una ricaratterizzazione).
15. Devo immediatamente osservare che la pratica di trattare artificialmente un ambito ampliato del caso, al di là del contenuto iniziale dei moduli di domanda, è stata condannata dalla Grande Camera in due autorità parallele, Fu Quan, s.r.o. contro la Repubblica Ceca ([GC], n. 24827/14, 1° giugno 2023) e Grosam c. Repubblica Ceca ([GC], n. 19750/13, 1° giugno 2023), a cui farò rapidamente riferimento.
In particolare, nella causa Fu Quan, s.r.o., la Grande Camera ha chiaramente affermato (§§ 145-46): «Il ricorrente deve denunciare che un determinato atto o omissione ha comportato una violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione […] in modo tale da non lasciare alla Corte il compito di valutare se una determinata denuncia sia stata sollevata o meno […] frasi ambigue o parole isolate non sono sufficienti per accettare che sia stata sollevata una particolare denuncia».
…Ciò deriva dall’articolo 47, paragrafo 1, lettere e) e f), e paragrafo 2, lettera a), del Regolamento della Corte, che prevede che tutte le domande debbano contenere, tra l’altro, una descrizione concisa e leggibile dei fatti e delle presunte violazioni della Convenzione, nonché le argomentazioni pertinenti, e che tali informazioni devono essere sufficienti per consentire alla Corte di determinare la natura e la portata della domanda senza ricorrere ad altri documenti.
16. Sulla base di tali principi, la riclassificazione delle denunce, poiché eccedeva l’ambito originario delle domande, ha costituito la prima violazione delle buone prassi della Corte e del regolamento della Corte. Poiché la riclassificazione era già stata proposta al momento della notifica delle domande al Governo, attraverso le domande poste alle parti, essa è stata anche la forza motrice dell’ampliamento delle argomentazioni (le parti avendo, ovviamente, risposto alle domande poste), una seconda violazione delle buone prassi e del regolamento della Corte. È sorprendente che, di fronte a tre ricorsi che erano per loro natura inammissibili e riguardavano esclusivamente denunce relative all’articolo 6, la maggioranza abbia comunque – al paragrafo 36 della sua sentenza – «ratificato» la scelta di esaminare il caso ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1. Nel resto della sentenza, come vedremo, la maggioranza ha accettato di integrare le (pochissime) osservazioni originali con altre osservazioni che violavano il regolamento della Corte.
17. A sostegno della propria scelta di ricaratterizzazione, la maggioranza ha citato, al paragrafo 35 della sentenza, Radomilja e altri c. Croazia [GC], nn. 37685/10 e 22768/12, § 126, 20 marzo 2018. Leggiamo questa citazione piuttosto nota:
“… si può concludere che l’ambito di applicazione di un caso “deferito” alla Corte nell’esercizio del diritto di ricorso individuale è determinato dalla denuncia del ricorrente.
Una denuncia è composta da due elementi: allegazioni di fatto e argomenti giuridici. In virtù del principio jura novit curia, la Corte non è vincolata dai motivi giuridici addotti dal ricorrente ai sensi della Convenzione e dei relativi Protocolli e ha il potere di decidere in merito alla qualificazione giuridica dei fatti oggetto di una denuncia esaminandola alla luce di articoli o disposizioni della Convenzione diversi da quelli invocati dal ricorrente.
Tuttavia, essa non può basare la propria decisione su fatti che non sono oggetto della denuncia. Ciò equivarrebbe a decidere al di là dell’ambito di una causa, in altre parole a decidere su questioni che non le sono state «sottoposte», ai sensi dell’articolo 32 della Convenzione. (Enfasi aggiunta.)
18. Eppure è proprio sulla base di questa formulazione della Grande Camera (si veda l’enfasi aggiunta) che l’errore della maggioranza diventa evidente: la Corte può riclassificare, ma solo sulla base dei «fatti» contenuti nella denuncia, attribuendo loro, se necessario, una diversa qualificazione «giuridica» (ibid., § 114). Nel caso di specie, tuttavia, come ho dimostrato, le denunce non contenevano alcuna allegazione fattuale indicativa di una violazione del diritto al pacifico godimento dei beni. Contenevano invece, come già spiegato, una vaga allegazione procedurale relativa alla valutazione inadeguata delle prove e al ragionamento dei tribunali nazionali sulla questione della «correlazione temporale».
19. Altrettanto errati – con tutto il rispetto – sono i riferimenti fatti dalla maggioranza al paragrafo 36 della loro sentenza ad altri presunti precedenti, in particolare il ricorso inopportuno alla causa Todorov e altri c. Bulgaria (n. 50705/99, § 129, 13 luglio 2006), Yordanov c. Bulgaria (n. 56856/00, 69, 10 agosto 2006) e Mandev c. Bulgaria (n. 27222/04, § 78, 15 settembre 2015).
20. Come risulta chiaramente dalla semplice lettura di queste tre sentenze (cui mi riferirò come giurisprudenza bulgara in materia di confisca), in ciascuna di esse i ricorrenti stessi avevano invocato l’articolo 6, paragrafo 1, in combinato disposto con l’articolo 1 del Protocollo n. 1 e l’articolo 13, e avevano presentato argomentazioni fattuali e giuridiche appropriate relative a un’ingerenza nella proprietà. La Corte ha quindi deciso di esaminare le loro denunce – chiaramente relative alla proprietà – esclusivamente alla luce dell’articolo 1 del Protocollo n. 1. Ciò risulta chiaramente dai paragrafi 128, 68 e 77 di ciascuna delle tre sentenze.
21. Al contrario, nella causa Isaia e altri, la maggioranza, di fronte a tre ricorsi che – come abbiamo visto – erano inammissibili per molteplici motivi e che non contenevano alcuna base fattuale o giuridica per una denuncia relativa alla proprietà, ha «creato» dal nulla un caso relativo all’articolo 1 del Protocollo n. 1.
22. Ma, come già detto, la violazione delle buone pratiche e del regolamento della Corte non è stata causata solo dall’indebita riclassificazione ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 delle poche argomentazioni contenute nel modulo di ricorso, includendo così aspetti non sollevati dai ricorrenti. La questione più importante è che, come vedremo, altre denunce sono state confuse con l’unica allegazione iniziale, quella dell’insufficienza di prove di «correlazione temporale».
23. Le ulteriori censure – che il lettore avrà notato leggendo la sentenza della maggioranza – compaiono per la prima volta nelle osservazioni scritte delle parti: come ho detto prima, esse riguardano la natura dei reati presupposto, altri aspetti del ragionamento dei giudici nazionali, la possibile registrazione fittizia di beni a nome di parenti e/o il reinvestimento di proventi illeciti, ovvero la proporzionalità in generale o sotto specifici aspetti. Tali argomenti – che non possono essere considerati parte integrante delle denunce iniziali, poiché riguardano questioni del tutto separate ed eterogenee – sono stati formulati, in particolare, dai ricorrenti in risposta alle domande poste dalla Camera.
24. Tuttavia, l’estensione dell’ambito della causa a causa di un errore della Corte non trasforma l’inammissibilità iniziale in ammissibilità. Come recentemente chiarito dalla Grande Camera nella causa Grosam (citata sopra, § 97), prima di dichiarare inammissibile il ricorso in questione:
«Ne consegue che, ponendo una domanda […], la Camera ha esteso d’ufficio l’ambito della causa oltre quello inizialmente sottoposto dal ricorrente nella sua domanda. La Camera ha quindi ecceduto i poteri conferiti alla Corte dagli articoli 32 e 34 della Convenzione».
25. In conclusione, la serie di errori che hanno portato a un nuovo ambito di applicazione del caso non alterano la palese irricevibilità delle domande iniziali”.
La non violazione dell’art. 1 del protocollo 1 (punti nn. 26/98)
Si riportano soltanto le conclusioni sul punto, nell’impossibilità di comprimere, come sarebbe necessario in uno scritto divulgativo come questo, il complesso nutrito delle argomentazioni del giudice Sabato.
“95. Sebbene, come ho spiegato, ritenga che non sia mai stata sollevata alcuna denuncia ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, ho dovuto adattare il mio ragionamento e criticare la sentenza della maggioranza come se tale violazione fosse stata denunciata.
96. Supponendo, quindi, che tale ipotetica denuncia esistesse, ritengo che, alla luce del mio ragionamento, sia chiaro che non si possa riscontrare alcuna violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1. Sulla base della giurisprudenza consolidata della Corte, i tribunali italiani – senza violare alcuna disposizione del diritto nazionale – hanno fornito ampie motivazioni per ritenere che almeno due membri della famiglia dei ricorrenti rientrassero nelle categorie previste dalla legge di pericolosità sociale, che vi fosse un evidente squilibrio tra il patrimonio detenuto e il loro reddito legittimo e che – attraverso reinvestimenti, che giustificavano il ritardo temporaneo nella confisca – si potesse presumere che i beni derivassero da attività illecite e fossero detenuti in modo fittizio.
97. Trovo particolarmente preoccupante che, ai paragrafi 91 e 92, la maggioranza nella causa Isaia e altri si spinga, senza una giustificazione sostanziale, ad accusare i tribunali nazionali non solo di aver violato la Convenzione, ma anche di aver contravvenuto a presunti criteri stabiliti dalla legislazione e dalla giurisprudenza nazionali. Tali criteri sono stati presentati, come ho dimostrato, in modo unilaterale e confuso, confondendo principi giurisprudenziali fraintesi e talvolta travisando il quadro giuridico (ad esempio, in relazione alla dimostrazione della catena di reinvestimento che giustifica la correlazione ritardata).
98. La Corte – che normalmente ritiene che i giudici nazionali siano nella posizione migliore per valutare sia i fatti che il diritto applicabile, nello spirito della sussidiarietà – ha assunto in questo caso, a maggioranza, il ruolo pericoloso di super-giudice. Ha definito arbitrarie decisioni nazionali che, in realtà, sono rimaste interamente nell’ambito del quadro giuridico applicabile e, soprattutto, conformi alla Convenzione”.
Conclusione generale (punti nn. 99/101)
“99. Le questioni che ho cercato di affrontare, come sarà evidente, sollevano seri interrogativi sull’interpretazione e l’applicazione della Convenzione, riguardando sia l’ammissibilità delle domande (e la portata dei poteri della Corte di ricaratterizzare e/o di prendere in considerazione le osservazioni delle parti che integrano le denunce presentate nei moduli di domanda) sia il loro merito.
100. In un certo senso, pur avendo dovuto necessariamente sottolineare le questioni di ammissibilità, devo riconoscere che – qualora le domande fossero ritenute, contrariamente al mio parere, ammissibili, in tutto o in parte – ciò che potrebbe rivestire maggiore importanza è il riesame da parte della Corte, nel caso di specie, della compatibilità con la Convenzione delle misure di confisca preventiva. Queste sono state oggetto di una giurisprudenza costante e consolidata (in un contesto più ampio di trattati internazionali e dell’Unione europea), recentemente ribadita nella causa Păcurar (citata sopra), in contrasto con l’approccio della maggioranza nella causa Isaia e altri, che invece si è basata su una giurisprudenza bulgara a partire dalla causa Todorov e altri.
101. Qualora il caso fosse deferito alla Grande Camera, come auspico, su richiesta della parte interessata, o fosse semplicemente ripreso in sentenze successive, ritengo che sarà necessario chiarire la portata e le modalità di applicazione della giurisprudenza sopra citata, conflittuale e/o coesistente. Ciò è tanto più necessario alla luce della tendenza all’aumento del numero di casi sottoposti alla Corte che riguardano confische non basate su condanne penali”.
BREVI NOTE DI COMMENTO
I lettori dispongono adesso di quanto basta per comprendere quale percorso argomentativo abbia utilizzato il collegio della prima sezione della Corte di Strasburgo per decidere i ricorsi affidatigli, quali siano state le obiezioni dell’unico giudice dissenziente Raffaele Sabato e, soprattutto, quanto sia incolmabile la distanza tra la maggioranza e il dissidente.
Non si deve e non si vuole esprimere giudizi e dare pagelle sulle posizioni in campo e sulla loro tenuta.
È comunque innegabile che le considerazioni del giudice Sabato hanno un riflesso che va ben oltre il caso specifico in quanto espresse a difesa della legittimità di un apparato normativo e giurisprudenziale che ha messo robuste radici nell’ordinamento giuridico, nelle linee normative e nelle prassi applicative del nostro Paese.
Un apparato – sottolinea Sabato e non c’è verso di smentirlo – il quale ha superato pressoché indenne plurimi vagli della stessa Corte che oggi, sia pure su questioni specifiche, lo sconfessa.
È chiaro allora che ad essere sotto accusa non sono più ipotetiche singole violazioni ma tutta una politica in materia criminale e a nessuno Stato piace sottostare a limitazioni della sua sovranità legislativa o comunque sentirsi accerchiato in sede europea.
È quindi prevedibile che aumentino i segnali nazionali di insofferenza o addirittura di aperta contestazione nei confronti di decisioni di Strasburgo che minano la legislazione in tema di contrasto al crimine organizzato.
Stanno poi giungendo a conclusione altri casi, in testa quello attivato dalla famiglia Cavallotti, che imporranno alla Corte dei diritti umani di assumere una posizione ben più chiara di quella espressa finora sull’appartenenza della prevenzione patrimoniale alla “materia penale” e sulla legittimità della cosiddetta confisca senza condanna. I ricorrenti del “caso Cavallotti”, così come il giudice Sabato nel caso Isaia, hanno chiesto anch’essi la rimessione del giudizio alla Grande Camera. Sarebbe quantomai auspicabile che a questo appuntamento, di portata e significato ben più ampi di quello di cui qui si discute, si arrivasse in una condizione di serenità che, già difficile di suo, la decisione Isaia ha probabilmente compromesso ulteriormente e reso irraggiungibile.
Questo è il quadro del momento e non è il migliore che ci si potesse augurare.
