Processo alla Santanché a Milano: probabile stop all’utilizzo della messaggistica per lesione delle guarentigie di cui all’articolo 68, terzo comma, della Costituzione (Redazione)

Oggi al Senato, la Giunta delle elezioni e delle immunita’ parlamentari ha proseguito l’esame della ​documentazione fatta pervenire dalla senatrice Daniela Garnero Santanchè, volta all’attivazione di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano.

Sono intervenuti in discussione generale i senatori Bazoli, Lopreiato e Rastrelli.

La Giunta ha respinto, a maggioranza, la richiesta avanzata dal senatore Bazoli volta al rinvio del seguito dell’esame sulla documentazione in titolo.

Dopo gli interventi in dichiarazione di voto dei senatori Cucchi, Bazoli, Lopreiato, Rastrelli e Stefani, la Giunta, a maggioranza, ha approvato la proposta della senatrice Stefani volta all’attivazione di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato dinanzi alla Corte costituzionale nei confronti della competente autorità giudiziaria e l’ha incaricata di redigere la relazione per l’Assemblea.

Ricordiamo che in data 24 luglio 2025 il Presidente del Senato ha trasmesso alla Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari la lettera di pari data – e la relativa documentazione – con cui la senatrice Daniela Garnero Santanchè, rappresentando la lesione delle guarentigie di cui all’articolo 68, terzo comma, della Costituzione, ha chiesto di sollevare un conflitto di attribuzione nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, per avere l’autorità giudiziaria illegittimamente acquisito – in un procedimento penale in cui è indagata anche la senatrice (n. 32727/23 R.G.N.R.) – alcuni supporti informatici contenenti diverse comunicazioni e-mail inviate all’interessata, ed alcune conversazioni cui era presente la senatrice, registrate a sua insaputa, colloqui che sono stati anche trascritti su disposizione dell’Ufficio del Pubblico Ministero.

La questione è stata esaminata dalla Giunta nella seduta del 5 agosto 2025, all’esito della quale è stato fissato all’interessata il termine del 15 settembre 2025 per la presentazione di eventuali memorie scritte o per chiedere di essere audita.

Il 12 settembre 2025 la senatrice ha fatto pervenire una memoria in cui ribadisce le ragioni già espresse nella nota introduttiva.

Come è noto, il terzo comma dell’articolo 68 della Costituzione stabilisce che “per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza” è necessaria l’autorizzazione da parte della Camera competente.

Nel caso in esame l’autorità giudiziaria ha esaminato e acquisito agli atti di un procedimento penale (in cui la stessa senatrice è co-indagata) alcuni messaggi di posta elettronica e alcune registrazioni – effettuate da privati – di conversazioni cui la senatrice aveva partecipato, anche disponendone la trascrizione.

Tali atti sono stati disposti senza chiedere la preventiva autorizzazione alla Camera di appartenenza, così come previsto dal citato articolo della Costituzione e dall’articolo 4 della legge n. 140 del 2003, il quale stabilisce che “1. Quando occorre eseguire nei confronti di un membro del Parlamento perquisizioni personali o domiciliari, ispezioni personali, intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni, sequestri di corrispondenza, o acquisire tabulati di comunicazioni […] l’autorità competente richiede direttamente l’autorizzazione della Camera alla quale il soggetto appartiene.

2. L’autorizzazione è richiesta dall’autorità che ha emesso il provvedimento da eseguire; in attesa dell’autorizzazione l’esecuzione del provvedimento rimane sospesa“.

La richiesta di autorizzazione alla Camera competente è quindi necessaria e va richiesta prima di eseguire un provvedimento di intercettazione o sequestro di corrispondenza nei confronti di un parlamentare.

Potrebbe obiettarsi che nel caso concreto non fossero state applicate le guarentigie dell’articolo 68 della Costituzione in quanto non si trattava di sequestro di corrispondenza, ma di acquisizione documentale ex articolo 234 del codice di procedura penale e che le registrazioni delle conversazioni erano state effettuate da un privato e non fossero quindi oggetto di intercettazioni disposte dall’autorità giudiziaria.

Tali argomenti non sono però più proponibili alla luce dei recenti sviluppi della giurisprudenza costituzionale.

Per quanto concerne infatti il sequestro dei messaggi di posta elettronica, essi sono stati oramai equiparati alla corrispondenza cartacea dalla Corte costituzionale che, con la sentenza n. 170 del 27 luglio 2023, ha accolto il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Senato della Repubblica nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Firenze (Doc. XVI, n. 9 della XVIII legislatura, approvato dall’Assemblea il 22 febbraio 2022), accogliendo quindi la tesi del Senato in relazione a doglianze analoghe a quelle oggetto del caso in esame, trattandosi, in quella circostanza, di sequestro senza autorizzazione della corrispondenza riguardante un senatore, costituita da messaggi di testo inviati tramite l’applicazione WhatsApp, nonché da messaggi di posta elettronica.

Nella citata significativa sentenza n. 170 del 2023 la Consulta ha quindi respinto la tesi del Tribunale resistente secondo cui si sarebbe stati di fronte a una generica acquisizione di documenti, ai sensi dell’articolo 234 del codice di procedura penale, non rientrante quindi nel novero degli atti per i quali l’articolo 68 della Costituzione esige il placet della Camera di appartenenza del parlamentare. Le argomentazioni del Tribunale, secondo cui la comunicazione è “degradata” a mero documento quando non più in itinere, sono state ritenute dalla Consulta una soluzione che, se confina in ambiti angusti la tutela costituzionale prefigurata dall’articolo 15 della Costituzione nei casi, sempre più ridotti, di corrispondenza cartacea, finisce addirittura per azzerarla rispetto alle comunicazioni operate tramite posta elettronica e altri servizi di messaggistica istantanea, in cui all’invio segue immediatamente – o, comunque sia, senza uno iato temporale apprezzabile – la ricezione. La considerazione dei messaggi scambiati tramite lo smartphone come corrispondenza si impone quindi, secondo la Corte costituzionale, a maggior ragione allorché si tratti di delimitare specificamente l’area della corrispondenza di e con un parlamentare, per il cui sequestro l’articolo 68, terzo comma, della Costituzione richiede l’autorizzazione della Camera di appartenenza. A tale conclusione la Corte addiviene esaminando la propria giurisprudenza intesa a inquadrare l’autorizzazione al sequestro di corrispondenza dei parlamentari come una prerogativa “strumentale […] alla salvaguardia delle funzioni parlamentari“, volendosi impedire che intercettazioni e sequestri di corrispondenza possano essere “indebitamente finalizzat[i] ad incidere sullo svolgimento del mandato elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione dell’attività” (sentenza n. 390 del 2007 e successive). Se tale è la ratio della prerogativa, limitarla alle sole comunicazioni in corso di svolgimento significherebbe darne un’interpretazione così restrittiva da vanificarne la portata: condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione del mandato parlamentare potrebbero derivare, infatti, anche dalla presa di conoscenza dei contenuti di messaggi già pervenuti al destinatario.

Inoltre la Corte, dopo aver ripercorso la propria giurisprudenza in base alla quale ha esteso la tutela costituzionale della corrispondenza, ai sensi dell’articolo 15 e del terzo comma dell’articolo 68, anche ai dati esteriori delle comunicazioni (quelli, cioè, che consentono di accertare il fatto storico che una comunicazione vi è stata e di identificarne autore, tempo e luogo) – problema postosi particolarmente in rapporto ai tabulati telefonici (per l’articolo 68 viene citata la sentenza n. 38 del 2019) – ne fa derivare la conclusione che se, dunque, l’acquisizione dei dati esteriori di comunicazioni già avvenute (quali quelli memorizzati in un tabulato) gode delle tutele accordate dagli articoli 15 e 68, terzo comma, della Costituzione, è impensabile che non ne fruisca, invece, il sequestro di messaggi elettronici, anche se già recapitati al destinatario; tale operazione consente infatti di venire a conoscenza non soltanto dei dati identificativi estrinseci delle comunicazioni, ma anche del loro contenuto, e dunque con attitudine intrusiva tendenzialmente maggiore.

A sostegno delle proprie conclusioni la Corte di legittimità delle leggi richiama la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che non ha esitato a ricondurre nell’alveo della “corrispondenza“, tutelata dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, i messaggi informatico-telematici nella loro dimensione “statica“, ed anche gli SMS e messaggi di posta elettronica contenuti in uno smartphone (Corte EDU, sentenza Saber, paragrafo 48).

Sulla base delle esposte considerazioni la Corte costituzionale conclude quindi che l’articolo 68, terzo comma, della Costituzione tutela la corrispondenza dei membri del Parlamento – ivi compresa quella elettronica – anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo, essa non abbia perso ogni carattere di attualità, in rapporto all’interesse alla sua riservatezza, trasformandosi in un mero documento “storico“.

Appare quindi pacifico che le comunicazioni consistenti in messaggi di posta elettronica inviati e ricevuti da un parlamentare siano ricompresi nella guarentigia di cui all’articolo 68, terzo comma, della Costituzione, trattandosi di “corrispondenza” a pieno titolo, e che pertanto per il loro sequestro ed utilizzo nel procedimento penale sia necessaria la previa richiesta di autorizzazione alla Camera di appartenenza.

Occorre quindi esaminare l’altro elemento di criticità segnalato dalla senatrice Garnero Santanchè, consistente nell’acquisizione e trascrizione, da parte dell’autorità giudiziaria, di conversazioni registrate da un privato cittadino all’insaputa della parlamentare.

Per quanto concerne tale profilo occorre chiarire che nel concetto di “intercettazioni” di cui all’articolo 68 della Costituzione non possono non rientrare le registrazioni e le captazioni effettuate nascostamente o fraudolentemente dai privati, anche alla luce della circostanza che l’inciso “in qualsiasi forma” contenuto nella norma citata rende ancora più pregnante la valenza “ampia” e per così dire “omnicomprensiva” della fattispecie di “intercettazione di conversazioni“.

Se infatti in quest’ultima rientrano certamente le intercettazioni intese “in senso stretto” (ossia disposte dall’autorità giudiziaria e dalla stessa utilizzate nei confronti di un parlamentare) ed i tabulati (non citati espressamente dall’articolo 68, terzo comma, della Costituzione, ma riconducibili a tale ambito, come precisato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 38 del 2019), sono certamente da ricomprendersi nella medesima nozione anche le intercettazioni “in senso ampio“, ossia le registrazioni e le captazioni – specialmente quelle effettuate in maniera occulta – acquisite da privati, se poi utilizzate dall’autorità giudiziaria nei confronti di un parlamentare.

Le intercettazioni “in qualsiasi forma” richiamate dalla predetta norma costituzionale non possono essere infatti limitate alla sola fattispecie delle intercettazioni in senso stretto, atteso che tale indebita interpretazione restrittiva non solo contrasta col testo costituzionale (e in particolare con l’inciso “in qualsiasi forma“), ma sarebbe foriera di effetti pratici del tutto irragionevoli ed illogici.

Un primo effetto di palese irragionevolezza della predetta tesi interpretativa restrittiva emerge dalla circostanza che la Corte costituzionale, nella richiamata sentenza n. 38 del 2019 relativa all’acquisizione dei tabulati telefonici, precisa testualmente che «non è possibile muovere […]dal presupposto che tra il contenuto di una conversazione o di una comunicazione, da un lato, e il documento che rivela i dati estrinseci di queste, dall’altro, sussista una differenza “ontologica”» (vedi punto 2.3 della parte in diritto della citata sentenza). La Consulta sottolinea inoltre che «il duplice riferimento, nell’art. 68, terzo comma, Cost., a “conversazioni o comunicazioni”, induce a ritenere che al contenuto di una conversazione o di una comunicazione, siano accostabili, e risultino perciò protetti dalla garanzia costituzionale, anche i dati puramente storici ed esteriori, in quanto essi stessi “fatti comunicativi”».

La Corte costituzionale nella stessa pronuncia evidenzia inoltre che la garanzia dell’articolo 68, terzo comma, della Costituzione «può estendersi ad un atto investigativo idoneo a incidere sulla libertà di comunicazione del parlamentare», affermando altresì che «tale capacità intrusiva assume significati ulteriori laddove siano in questione le comunicazioni di un parlamentare. Non già perché la riservatezza del cittadino che è altresì parlamentare abbia un maggior valore, ma perché la pervasività del mezzo d’indagine in questione può tradursi in fonte di condizionamenti sul libero esercizio della funzione».

Tali affermazioni chiare e precise della Corte costituzionale, inerenti alla materia dei tabulati, trovano un rilievo ancora più pregnante per quel che concerne le registrazioni di conversazioni effettuate da privati, atteso che, se il tabulato telefonico consente solo la localizzazione del parlamentare e l’individuazione dei destinatari delle telefonate, senza in alcun modo svelare contenuti della sua sfera comunicativa, al contrario le registrazioni effettuate nascostamente dai privati nei confronti del parlamentare espletano un effetto marcatamente più intrusivo rispetto alla sua sfera comunicativa, rivelando i contenuti delle sue conversazioni.

In altri termini, se i tabulati telefonici sono qualificabili come “intercettazioni di conversazioni o comunicazioni” ai sensi del terzo comma dell’articolo 68 della Costituzione – come precisato a chiare lettere dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 38 del 2019 e ribadito anche nella recente sentenza n. 170 del 2023 – a maggior ragione non può non intendersi configurabile come intercettazione di conversazioni, nell’accezione posta dalla norma costituzionale, una registrazione effettuata in modo occulto da un privato che carpisca brani di conversazione di un parlamentare.

Va poi evidenziato che se la richiesta di autorizzazione all’utilizzo deve essere avanzata per le intercettazioni assunte dalla polizia giudiziaria – su ordinanza del Giudice per le indagini preliminari – su un’utenza telefonica di un terzo, come ha chiarito più volte la Corte costituzionale, a maggior ragione essa dovrebbe essere presentata per le registrazioni effettuate di nascosto da soggetti privati col proprio cellulare, ovviamente ove l’autorità giudiziaria procedente voglia utilizzarle nei confronti di un soggetto avente la qualifica di parlamentare all’epoca dei fatti. Diversamente opinando si arriverebbe al paradosso per cui l’autorità giudiziaria dovrebbe preventivamente richiedere l’autorizzazione, qualora le intercettazioni fossero disposte nell’ambito delle proprie attività di indagine, mentre potrebbe lecitamente acquisire nel procedimento penale le registrazioni delle conversazioni private di un membro del Parlamento effettuate da qualsiasi cittadino col proprio cellulare all’insaputa dell’interessato, con conseguente sostanziale elusione dell’articolo 68, terzo comma, della Costituzione.

Come infatti a nessuno verrebbe mai in mente di pensare che la polizia giudiziaria possa registrare nascostamente le conversazioni di un parlamentare e poi impiegare quelle conversazioni in sede penale senza autorizzazione della Camera di appartenenza, a maggior ragione non possono certo essere acquisite – senza autorizzazione – le stesse registrazioni se effettuate in segreto da un privato.

Non si vede per quale motivo, in caso di acquisizione delle medesime conversazioni da parte dell’autorità giudiziaria mediante una registrazione effettuata in maniera occulta da parte di un privato cittadino, tale autorizzazione non si renderebbe invece più necessaria.

Le considerazioni che precedono sono alla base di un altro giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Senato nei confronti dell’autorità giudiziaria, concernente un caso analogo di utilizzazione di videoriprese delle conversazioni dell’ex senatore Giovanardi effettuate segretamente da un privato (Doc. XVI, n. 3 della XIX legislatura, approvato dall’Assemblea del Senato il 4 dicembre 2024).

Nel caso di specie l’acquisizione del materiale probatorio, avvenuta contra legem, è anche aggravata dall’avvenuta loro effettiva utilizzazione nell’ambito del procedimento penale, in quanto gli elementi di prova sono confluiti negli atti del fascicolo e sono rientrati tra gli elementi posti a conoscenza del Giudice per l’udienza preliminare.

Al contrario, nella più volte richiamata sentenza n. 170 del 2003, la Corte costituzionale ha anche fornito indicazioni dettagliate circa le modalità operative concrete dell’articolo 4 della legge n. 140 del 2003: quando si è di fronte al sequestro di “contenitori” di dati informatici appartenenti a terzi – telefoni cellulari, computer o altri dispositivi – nella cui memoria sono conservati, tra l’altro, messaggi inviati in via telematica a un parlamentare, o da lui provenienti, gli organi inquirenti debbono ritenersi abilitati a disporre – nei confronti del terzo non parlamentare – il sequestro del “contenitore” (nella specie, del dispositivo di telefonia mobile); nel momento, però, in cui riscontrano la presenza in esso di messaggi intercorsi con un parlamentare, debbono sospendere l’estrazione di tali messaggi dalla memoria del dispositivo (o dalla relativa copia) e chiedere l’autorizzazione della Camera di appartenenza del parlamentare, a norma del richiamato articolo 4 della legge n. 140 del 2003.

Nel caso in esame, invece, si è addirittura proceduto alla trascrizione ed utilizzazione delle conversazioni, così come dei messaggi di posta elettronica, senza preventivamente interpellare la Camera di appartenenza della senatrice.

Inoltre la Corte costituzionale ha statuito che l’autorizzazione al sequestro va chiesta, nei termini dinanzi delineati, a prescindere da ogni valutazione circa la natura “mirata” o “occasionale” dell’acquisizione dei messaggi del parlamentare (distinzione elaborata dalla stessa Corte in rapporto alle intercettazioni di conversazioni di membri del Parlamento, con conseguente limitazione alla prima categoria dell’obbligo di richiedere l’autorizzazione preventiva all’esecuzione dell’atto): tale distinzione non è, infatti, riferibile alla fattispecie di sequestro di corrispondenza che qui viene in esame. Invero, diversamente dalle intercettazioni – le quali consistono in un’attività prolungata nel tempo di captazione occulta di comunicazioni o conversazioni che debbono ancora svolgersi nel momento in cui l’atto investigativo è disposto – in tal caso si discute dell’acquisizione di messaggi comunicativi uno actu e già avvenuti.

Come ricordato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 170 del 2023, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che per “intercettazione” – fattispecie che il codice di procedura penale non definisce – deve intendersi l’«apprensione occulta, in tempo reale, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione in corso tra due o più persone da parte di altri soggetti, estranei al colloquio» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 36747 del 2003).

Affinché si abbia intercettazione deve quindi ricorrere in primo luogo una condizione temporale, vale a dire che la comunicazione deve essere in corso nel momento della sua captazione da parte dell’extraneus; questa deve cogliere, cioè, la comunicazione nel suo momento “dinamico“, con conseguente estraneità al concetto dell’acquisizione del supporto fisico che reca memoria di una comunicazione già avvenuta (dunque, nel suo momento “statico“). La seconda condizione attiene alle modalità di esecuzione: l’apprensione del messaggio comunicativo da parte del terzo deve avvenire in modo occulto, ossia all’insaputa dei soggetti tra i quali la comunicazione intercorre.

Nel caso del sequestro di supporti informatici contenenti messaggi di posta elettronica ricevuti dalla senatrice Garnero Santanchè non ricorre alcuna di queste condizioni e pertanto si tratta di sequestro di “corrispondenza” nel senso poc’anzi delineato, con la conseguenza che un eventuale provvedimento di sequestro non potrà che essere assistito dalla garanzia della richiesta di autorizzazione, avanzata ex ante, alla Camera competente.

Una volta riscontrato che si tratta di messaggi di un parlamentare, o a lui diretti, diviene, quindi, in ogni caso operante la guarentigia di cui all’articolo 68, terzo comma, della Costituzione, in quanto tali comunicazioni sono state ritenute dalla Consulta riconducibili alla nozione di “corrispondenza” costituzionalmente rilevante e la cui tutela non si esaurisce con la ricezione del messaggio da parte del destinatario, ma perdura fin tanto che esso conservi carattere di attualità e interesse per gli interlocutori.

Pertanto – ha precisato la Corte – gli organi investigativi sono abilitati a disporre il sequestro di “contenitori” di dati informatici appartenenti a terzi, quali smartphonecomputer o tablet, ma quando riscontrino la presenza in essi di messaggi intercorsi con un parlamentare, debbono sospendere l’estrazione di tali messaggi dalla memoria del dispositivo e chiedere l’autorizzazione della Camera di appartenenza per poterli coinvolgere nel sequestro.

Riportando le parole testuali della Consulta, «l’autorizzazione resta pur sempre preventiva rispetto al sequestro di corrispondenza, senza trasformarsi […] in una autorizzazione ex post ai fini dell’utilizzazione processuale delle risultanze di un atto investigativo già eseguito»; tale autorizzazione è invero prevista dall’articolo 6 della legge n. 140 del 2003 solo in rapporto alle intercettazioni e non pure al sequestro di corrispondenza (e comunque, precisa la Corte, l’autorizzazione “successiva” deve intendersi riferita alle sole intercettazioni “occasionali“, cosi come delineato nella sentenza n. 390 del 2007).

La ragione del diverso regime autorizzatorio da parte della Camera di appartenenza del parlamentare si spiega, secondo la Consulta, con la circostanza che rispetto al sequestro di corrispondenza la natura “occasionale” o “mirata” dell’atto non viene in considerazione, risultando per esso in ogni caso necessaria l’autorizzazione preventiva, ai sensi dell’articolo 4 della legge n. 140 del 2003.

Anche sotto tali aspetti emerge quindi con evidenza l’illegittimità del modus agendi dell’autorità giudiziaria nel caso de quo.

La rilevata mancanza di conformità alla Costituzione e alla legge ordinaria nell’agire della magistratura inquirente è resa più evidente dal comportamento contraddittorio assunto dalla medesima Procura in un procedimento parallelo (n. 32064/22 R.G.N.R.), riguardante la stessa senatrice, allorché – secondo quanto indicato ed allegato dall’interessata – è stata disposta, “alla luce delle motivazioni della sentenza della Corte costituzionale nr. 170/2023“, la separazione dei messaggi di posta elettronica di cui la senatrice Garnero Santanchè fosse destinataria o mittente, successivamente ordinando la conservazione in cassaforte della copia forense dell’intera acquisizione informatica relativa alle caselle di posta elettronica in uso alla società Visibilia Editore S.p.A., di cui ella era membro direttivo, per “eventuali successive richieste di autorizzazione al Parlamento della Repubblica“. In seguito però i medesimi magistrati avrebbero disposto l’acquisizione allo stesso procedimento penale di alcuni elementi probatori riguardanti la senatrice già assunti (in modo illegittimo) nell’altro procedimento n. 32727/23 R.G.N.R.

Tali circostanze indicano che l’autorità giudiziaria avesse tenuto in conto le conclusioni della Consulta nella sentenza n. 170 del 2003, seppur in un diverso procedimento, salvo poi immotivatamente discostarsene.

Sulla base delle considerazioni svolte e dei precedenti analoghi, la relatrice propone l’attivazione di un conflitto di attribuzione di fronte alla Corte costituzionale, secondo quanto previsto dall’articolo 134 della Costituzione.