Responsabilità dell’ente: il divieto di rappresentarlo nel procedimento penale non si estende al rappresentante legale indagato o imputato in un procedimento già esaurito (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 16932/2025, 14 marzo/6 maggio 2025, ha chiarito che il divieto di rappresentare l’ente nel procedimento penale non va esteso anche al rappresentante legale che sia stato indagato o imputato in un procedimento penale esauritosi prima della nomina del procuratore speciale.

L’art. 39, comma 1, d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, stabilisce che “l’ente partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, salvo che questi sia imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo”.

La più recente giurisprudenza di legittimità, chiamata a pronunciarsi sul tema, ha evidenziato che, in tema di responsabilità da reato degli enti, il legale rappresentante, indagato o imputato del reato presupposto, non può provvedere alla nomina del difensore dell’ente ex art. 39 d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, a causa del conflitto di interessi, da ritenersi presunto “iuris et de iure”, senza che sia necessario, a tal fine, un concreto accertamento del giudice, che, per l’effetto, non ha un onere motivazionale sul punto (Sez. 2, n. 13003 del 31/1/2024, Rv. 286095-01; Sez. 3, n. 35387 del 13/05/2022, Rv. 283551-01).

Le sentenze citate condividono l’identico principio di diritto tracciato da Sez. U, n. 33041 del 28/05/2015, decisione che in un passaggio motivazionale richiamato dalla prima sentenza citata, precisa come “la disposizione vieta esplicitamente al rappresentante legale, che sia indagato/imputato del reato presupposto, di rappresentare l’ente, una proibizione che si giustifica perché il rappresentante legale e la persona giuridica si trovano in una situazione di obiettiva e insanabile conflittualità processuale, dal momento che la persona giuridica potrebbe avere interesse a dimostrare che il suo rappresentante ha agito nel suo esclusivo interesse o nell’interesse di terzi ovvero a provare che il reato è stato posto in essere attraverso una elusione fraudolenta dei modelli organizzativi adottati, in questo modo escludendo la propria responsabilità e facendola così ricadere sul solo rappresentante. Il divieto di rappresentanza stabilito dall’art. 39 è, dunque, assoluto e non ammette deroghe, in quanto funzionale ad assicurare la piena garanzia del diritto di difesa al soggetto collettivo; d’altra parte, tale diritto risulterebbe del tutto compromesso se l’ente partecipasse al procedimento attraverso la rappresentanza di un soggetto portatore di interessi confliggenti da un punto di vista sostanziale e processuale. Per questa ragione l’esistenza del “conflitto” è presunta iuris et de iure e la sua sussistenza non deve essere accertata in concreto, con l’ulteriore conseguenza che non vi è alcun onere motivazionale sul punto da parte del giudice: il divieto scatta in presenza della situazione contemplata dalla norma, cioè quando il rappresentante legale risulta essere imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo, sicché il giudice deve solo accertare che ricorra tale presupposto, senza che sia richiesta una verifica circa un’effettiva situazione di incompatibilità” (pagg.12 e 13, Sez. U, Gabrielloni)”.

La questione giuridica, comune ad entrambe le ricorrenti, che pone l’odierna vicenda processuale è se il divieto di rappresentare l’ente nel procedimento penale possa estendersi anche al rappresentante legale che sia stato indagato o imputato in un procedimento penale esauritosi prima della nomina del procuratore speciale.

Nel caso in esame, non è contestato che entrambi i rappresentanti legali delle società ricorrenti erano stati imputati – nelle loro qualità e come persone fisiche – con riguardo ai medesimi fatti posti a fondamento della responsabilità amministrativa degli enti condannati nel primo grado del giudizio.

Ciò era avvenuto attraverso due distinti procedimenti penali, che si erano entrambi conclusi con sentenze di non doversi procedere per prescrizione, divenute irrevocabili molti anni prima della nomina dei procuratori speciali effettuata nell’odierno procedimento dai medesimi rappresentanti legali delle ricorrenti.

L’assunto della Corte di appello, secondo il quale, tale situazione di conflitto di interessi prescinderebbe dalla attualità della qualità di imputato o indagato del legale rappresentante dell’ente, rispetto, nella specie, al momento della nomina del procuratore speciale, non può condividersi.

Osta, in primo luogo, il tenore letterale dell’art. 39 d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, nella parte in cui, nel formulare il divieto di rappresentanza, utilizza il congiuntivo presente (“sia imputato”) senza aggiungere altro verbo al passato.

È stato, probabilmente, sulla scorta di tale esegesi della norma che la sentenza delle Sezioni unite prima citata, in uno specifico passaggio motivazionale, ha utilizzato l’avverbio “contemporaneamente” a proposito della qualità personale rivestita dal legale rappresentante dell’ente siccome generativa del conflitto di interessi (“E quello della non legittimazione, con riferimento alla imputazione degli effetti di atti posti in essere nell’interesse dell’ente indagato, da parte del rappresentante contemporaneamente indagato del reato presupposto, deve intendersi, appunto, principio di carattere generale che permea di sé l’intero procedimento, anche indipendentemente dalla costituzione dell’ente, soggetto al sindacato del giudice adito, come del resto, per quanto riguarda la materia della impugnazione che qui ricorre, è anche espressamente disposto dal legislatore nell’art. 591, comma 1, lett. a), cod. proc. pen. (pag. 24, sentenza SS.UU. Gabrielloni)”.

D’altra parte, il divieto di rappresentanza di cui si discute, nell’indicare a suo fondamento la qualità di imputato in un procedimento penale assunta dal rappresentante legale dell’ente, non può che fare riferimento alla stessa nozione di imputato in un procedimento penale e alle regole che la sovrintendono, le quali si ricavano dall’art. 60 cod. proc. pen., applicabile, in tema di responsabilità da reato degli enti, in forza del generale rinvio di cui all’art. 34 d.lgs. 231/2001, in quanto all’evidenza compatibile.

Per quel che qui interessa, tale norma, al secondo comma, prevede che “la qualità di imputato si conserva in ogni stato e grado del processo, sino a che non sia più soggetta ad impugnazione la sentenza di non luogo a procedere, sia divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento o di condanna o sia divenuto esecutivo il decreto penale di condanna”.

Per di più, nel caso in esame, come è stato correttamente osservato nei ricorsi, la declaratoria di prescrizione emessa nei confronti dei legali rappresentanti delle società ricorrenti — in difetto di contestuali statuizioni civili – non potrebbe dar luogo neanche alla revisione dei processi in allora avviati contro di loro, stante la mancata assunzione da parte degli interessati della qualità di condannati agli effetti civili, che l’art. 629 cod. proc. pen. presuppone ai fini di consentire l’accesso al mezzo straordinario di impugnazione (in questo senso, anche Sez. U, n. 6141 del 25/10/2018, dep. 2019, Milanesi, in motivazione, foglio 11).

Un altro ulteriore e decisivo rilievo a favore della tesi qui sostenuta, è dato dal fatto che il divieto di rappresentanza indicato dall’art. 39 d.lgs. 231/2001, si pone, ad evidenza, come una eccezione alla regola, fissata dalla prima parte del primo comma della norma, secondo la quale l’ente partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante legale. Come eccezione ad una regola generale, la norma deve trovare applicazione attraverso un criterio di stretta interpretazione secondo l’indicazione contenuta all’art. 14 preleggi.