E’ di questi giorni l’annuncio dell’ANM di avere costituito un comitato a difesa della Costituzione in vista del referendum sulla separazione delle carriere.
I magistrati associati continueranno a dire e spiegare perché la tanto detestata riforma costituzionale li renderà meno autonomi, meno indipendenti, in una parola meno liberi, e perché questa loro nuova condizione sarà dannosa per i cittadini.
Un’iniziativa legittima, ci mancherebbe.
Piacerebbe tuttavia che la campagna d’inverno in fase d’avvio non si limitasse a quello che non deve fare il legislatore e si estendesse piuttosto a quello che la magistratura può e deve fare per avere la fiducia del popolo e per dimostrare concretamente che i suoi componenti agiscono sempre e soltanto nel suo interesse.
Occorrono dei riferimenti e ne proponiamo uno non nostro ma di Luigi Ferrajoli, un maestro del diritto che è stato anche magistrato e conosce a fondo i valori della giurisdizione.
Lo si trova nel quaderno tematico n. 8 della Scuola superiore della magistratura pubblica, incentrato sul procedimento disciplinare dei magistrati e pubblicato l’1° aprile del 2022 (il documento integrale è allegato in calce al post).
Il contributo di Ferrajoli ha come titolo Dieci regole di deontologia giudiziaria, conseguenti alla natura cognitiva della giurisdizione.
Lo riassumiamo qui di seguito ma ne raccomandiamo la lettura integrale.
Al di là della consueta brillantezza espressiva dell’Autore, il suo scritto si fa preferire tra gli altri per due caratteristiche: va oltre l’angusto ambito dei tecnicismi e dei limiti propri della giustizia disciplinare dei magistrati; è totalmente privo di qualsiasi propensione “giustificazionista”.
Come dire che Ferrajoli guarda le cose per ciò che sono.
Lo si comprende fin dalla premessa allorché ricorda che il potere giudiziario, particolarmente quello penale, è un “potere terribile” (Montesquieu) o addirittura “odioso” (de Condorcet) in quanto potere dell’uomo sull’uomo e per il carattere imperfetto della sua legittimazione che risiede nell’altrettanto imperfetta verità processuale.
Scorriamo adesso, sia pure in sintesi, il decalogo proposto da Ferrajoli.
1. Il rispetto delle garanzie
È indispensabile “il rigoroso rispetto delle garanzie del corretto giudizio a causa del loro valore epistemologico, etico e politico, oltre che giuridico. Tutte queste garanzie sono infatti garanzie di verità, oltre che di libertà. Precisamente, nel diritto penale sono garanzie di verificabilità e di falsificabilità in astratto le garanzie sostanziali, cioè il principio di stretta legalità o tassatività delle figure di reato, il principio della materialità dell’azione, quello dell’offensività dell’evento e quello della responsabilità dell’autore; mentre sono garanzie di verificazione e di falsificazione in concreto le garanzie processuali, cioè la pubblicità del giudizio, l’onere della prova e il diritto di difesa“.
2. L’etica del dubbio
Non si deve mai dimenticare che la verità processuale soffre di relativismo sicché le si addice l’etica del dubbio la quale “comporta il rifiuto di ogni arroganza cognitiva, la prudenza del giudizio – da cui il bel nome “giuris-prudenza” – come stile morale e intellettuale della pratica giudiziaria e, in generale, delle discipline giuridiche. Ne consegue un’ulteriore consapevolezza che sempre dovrebbe assistere l’esercizio della giurisdizione: quella di un margine irriducibile di illegittimità del potere giudiziario dovuto alla permanente possibilità dell’errore; una possibilità che il rigoroso rispetto delle garanzie può ridurre, ma non certo eliminare“.
3. L’ascolto delle opposte ragioni
Giudici e pubblici ministeri devono avvertire il dovere dell’ascolto di tutte le diverse ed opposte ragioni ed accettare l’esposizione delle loro ipotesi alla confutazione e alla falsificazione, sia giuridica che fattuale: “Tale disponibilità esprime un atteggiamento di onestà intellettuale e di responsabilità morale, basato sulla consapevolezza della natura non più che probabilistica della verità fattuale. Essa esprime lo spirito stesso del processo accusatorio, in opposizione all’approccio inquisitorio, il cui tratto inconfondibile e fallace è invece la resistenza del pregiudizio colpevolista a qualunque smentita o controprova: cioè la petizione di principio, in forza della quale l’ipotesi accusatoria, che dovrebbe essere suffragata da prove e non smentita da controprove, risulta di fatto infalsificabile perché assunta apoditticamente come vera“.
4. L’imparzialità del giudizio
Sia le indagini che il giudizio devono essere condotti all’insegna dell’imparzialità e della terzietà: “Il processo, come scrissero Cesare Beccaria e ancor prima Ludovico Muratori, deve consistere nell’”indifferente ricerca del vero”. È su questa indifferenza, che è propria di ogni attività cognitiva e comporta la costante disponibilità a rinunciare alle proprie ipotesi di fronte alle loro smentite, che si fonda il tipo di processo che Beccaria chiamò “informativo”, in opposizione a quello che chiamò invece “processo offensivo”, nel quale, egli scrisse, “il giudice diviene nemico del reo” e “non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quell’infallibilità che l’uomo s’arroga in tutte le cose”. È chiaro che questa quarta regola deontologica esclude l’idea dell’imputato come nemico ma anche, più in generale, ogni spirito partigiano o settario. Ma essa esclude anche l’idea, frequente nei pubblici ministeri, che il processo sia un’arena nella quale si vince o si perde. Il Pubblico Ministero non è un avvocato. E il processo non è una partita nella quale, per riprendere le parole di Beccaria, l’inquirente perde se non riesce a far prevalere le proprie tesi. Ne consegue il valore della riservatezza del magistrato riguardo ai processi di cui è titolare. Ciò che i magistrati devono aver cura di evitare, nell’odierna società dello spettacolo, è qualunque forma di protagonismo giudiziario e di esibizionismo che ne compromette, inevitabilmente, l’imparzialità. Si capisce la tentazione, per quanti sono titolari di un così terribile potere, di cedere alle lusinghe degli applausi e all’autocelebrazione come potere buono, depositario del vero e del giusto. Ma questa tentazione vanagloriosa va fermamente respinta. La figura del “giudice star” o “giudice estrella”, come viene chiamato in Spagna, è la negazione del modello garantista della giurisdizione“.
5. Il rifiuto del creazionismo giudiziario
“Dal carattere cognitivo del giudizio consegue poi una quinta regola deontologica: il rifiuto del creazionismo giudiziario. Come ben sappiamo, gli spazi della discrezionalità interpretativa nell’esercizio della giurisdizione sono enormi e crescenti, a causa dell’inflazione normativa, del dissesto del linguaggio legale e della struttura multilivello della legalità. L’ultima cosa di cui si avverte il bisogno è perciò che la cultura giuridica, attraverso la teorizzazione e l’avallo di un ruolo apertamente creativo di nuovo diritto affidato alla giurisdizione, contribuisca ad accrescere questi squilibri, assecondando e legittimando un ulteriore ampliamento degli spazi potestativi già amplissimi della discrezionalità e dell’argomentazione giudiziaria, fino alla vanificazione della separazione dei poteri, al declino del principio di legalità e al ribaltamento in sopra-ordinazione della subordinazione dei giudici alla legge“.
6. La comprensione e la valutazione equitativa della singolarità di ciascun caso
Sbaglia chi pensa che l’equità debba essere intesa come deroga alla legge, cioè come eccezione, o correzione, o mitigazione della sua durezza: “Al contrario la dimensione equitativa appartiene, inevitabilmente e fisiologicamente, ad ogni giudizio penale, corrispondendo anch’essa a un’attività conoscitiva: alla comprensione dei connotati specifici e irripetibili che, al di là del giudizio di verità o falsità fattuale e giuridica sulle tesi che accertano la responsabilità, rendono diverso ogni fatto da qualunque altro pur se tutti sussumibili entro la medesima fattispecie legale: il furto di mele è diverso dal furto di un miliardo; la rapina in stato di bisogno è diversa da quella del puro sopraffattore […] Essa riguarda la comprensione e la valutazione delle circostanze singolari e irripetibili che fanno di ciascun fatto, di ciascun caso sottoposto al giudizio un fatto e un caso irriducibilmente diversi da qualunque altro, pur se sussumibile – per esempio il furto di una mela rispetto al furto di un diamante – nella medesima fattispecie legale. Giacché ogni fatto è diverso da qualunque altro, e il giudice, ma ancor prima il Pubblico Ministero non giudica e non indaga i fatti di reato in astratto ma i fatti in concreto, con i loro specifici e irripetibili connotati che vanno perciò sottoposti alla loro comprensione equitativa“.
7. Nolite iudicare: giudizi su fatti e non su persone
“Proprio perché fonda il giudizio sull’accertamento come veri o come falsi dei fatti empirici previsti dalla legge come reati, il modello garantista penalizza azioni e non autori, fatti e non soggetti, comportamenti e non identità. Il giudice non deve perciò inquisire l’anima dell’imputato, ma solo pronunciarsi sulla verità dei fatti a lui contestati. In forza del principio di legalità, si può insomma giudicare e punire per quel che si è fatto e non per quel che si è. Anche perché solo i fatti, e non anche la moralità o il carattere o altri aspetti della personalità del reo sono passibili di prova e di confutazione empirica e, conseguentemente, di giudizio. Sotto questo aspetto il modello garantista condivide con l’etica cristiana la massima nolite iudicare, almeno se per “giudicare” s’intende il giudizio sull’identità immorale o malvagia del soggetto e non l’accertamento probatorio e la qualificazione giuridica del fatto da lui commesso e previsto dalla legge come reato. Con in più una specifica connotazione etica di tipo laico e liberale, che all’insindacabilità giuridica e morale delle coscienze proviene proprio dal principio di stretta legalità: l’uguale dignità di persone riconosciuta ai rei come ai non rei, e perciò il rispetto dovuto alla loro identità per quanto malvagia, nonché il diritto di ciascuno di essere come è“.
8. Il rispetto per tutte le parti del processo
“È questo rispetto per tutte le parti del processo – a cominciare dall’imputato, chiunque egli sia, soggetto debole o forte, perfino se è un mafioso o un terrorista o un politico corrotto – l’ottava regola del decalogo qui proposto della deontologia giudiziaria. Il diritto penale, nel suo modello garantista, equivale alla legge del più debole, che se nel momento del reato è la parte offesa, nel momento del processo è sempre l’imputato, i cui diritti e le cui garanzie sono altrettante leggi del più debole. Questa regola del rispetto delle parti in causa, e in particolare dell’imputato, è un corollario del principio di uguaglianza, dato che equivale al postulato della “pari dignità sociale” di tutte le persone, inclusi quindi i rei, enunciato dalla nostra Costituzione. Ma essa è anche un corollario del principio di legalità, in forza del quale, ripeto, si è puniti per quel che si è fatto, e non per quel che si è, e si giudica il fatto e non la persona, il reato e non il suo autore la cui identità e interiorità sono sottratte al giudizio penale. Aggiungo che nel processo penale questo rispetto per l’imputato vale a fondare quell’asimmetria che sempre deve sussistere tra la civiltà del diritto e l’inciviltà del delitto e che è la principale forza della prima quale fattore di delegittimazione morale e di isolamento sociale della seconda“.
9. I giudici non devono ricercare il consenso della pubblica opinione, ma solo la fiducia delle parti del processo
“Il magistrato non deve cercare il consenso della pubblica opinione: un giudice deve anzi essere capace, sulla base della corretta cognizione degli atti del processo, di assolvere quando tutti chiedono la condanna e di condannare quando tutti chiedono l’assoluzione. Proprio perché la fonte di legittimazione della giurisdizione consiste nell’accertamento dei fatti sottoposti al giudizio, il potere giudiziario è un potere contro-maggioritario, non meno dei diritti da essi garantiti i quali, come ha scritto Ronald Dworkin, sono diritti della persona quale singolo individuo e sono sempre, perciò, virtualmente contro la maggioranza. “Quando sento la mano del potere che mi preme sul collo”, scrisse Tocqueville, “poco m’importa di sapere chi è che mi opprime; e non sono maggiormente disposto a chinare la testa sotto il giogo per il solo fatto che questo mi viene presentato da milioni di braccia”. Veritas, non auctoritas facit judicium, possiamo dire a proposito della giurisdizione, grazie all’opposto principio hobbesiano auctoritas, non veritas facit legem che vale invece per la legislazione. Non si può punire un cittadino solo perché la sua punizione risponde alla volontà o all’interesse della maggioranza. Nessuna maggioranza, per quanto schiacciante, può rendere legittima la condanna di un innocente. E nessun consenso politico – del governo, o della stampa, o dei partiti o della pubblica opinione – può surrogare la prova mancante o screditare la prova acquisita di un’ipotesi accusatoria. In un sistema penale garantista il consenso maggioritario o l’investitura rappresentativa del giudice non aggiungono nulla alla legittimità della giurisdizione, dato che non possono rendere vero ciò che è falso o falso ciò che è vero“.
10. Il rifiuto del carrierismo quale regola di stile
L’indipendenza, necessaria perché la giurisdizione possa svolgere il suo ruolo di garanzia dei diritti, va a sua volta garantita non soltanto da poteri esterni, ma anche da poteri interni all’ordine giudiziario, quali sono quelli che attualmente governano le carriere dei magistrati: “Di qui la decima regola della deontologia giudiziaria: il rifiuto del carrierismo e di tutte le norme e le prassi che in questi ultimi anni lo hanno alimentato, a cominciare dalle valutazioni di professionalità al momento degli avanzamenti nello status dei magistrati; le quali, oltre ad essere di solito poco credibili e talora arbitrarie, finiscono per condizionare la funzione giudiziaria, per deformare la mentalità dei giudici e per minarne l’indipendenza interna. Dobbiamo essere consapevoli del fatto che qualunque forma di carriera dei magistrati è in contrasto con il principio della loro uguaglianza stabilito dall’art. 107, comma 3 della nostra Costituzione secondo cui “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”. Si tratta di un principio basilare, la cui lesione ad opera delle carriere e del carrierismo mina da una lato l’indipendenza interna dei magistrati, che l’articolo 101, comma 2 della Costituzione vuole che siano “soggetti soltanto alla legge”, e, dall’altro, la credibilità dell’intera istituzione giudiziaria“.
Non si aggiunge nulla, Ferrajoli ha detto tutto quello che conta.
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