I “falsi amici” nel linguaggio del diritto penale (Vincenzo Giglio)

I falsi amici in generale

Tra i problemi che affronta chi prova ad imparare una nuova lingua, ha una certa importanza quello dei “falsi amici”.

Sono chiamate così le parole che assomigliano ad altre usate nella lingua madre dell’apprendista il quale è portato perciò a credere che abbiano lo stesso significato per poi accorgersi a sue spese che ne hanno un altro inaspettato.

Ecco alcuni esempi nel rapporto tra italiano ed inglese: per i britannici “estate” significa proprietà immobiliare, “eventually” vuol dire alla fine, “parents” sono i genitori e “rumour” è una diceria.

Il linguaggio giuridico

Consideriamo adesso che, secondo il vocabolario Treccani, per lingua si intende “la capacità e la facoltà, peculiare degli esseri umani, di comunicare pensieri, esprimere sentimenti, e in genere di informare altri esseri sulla propria realtà interiore o sulla realtà esterna, per mezzo di un sistema di segni vocali o grafici; e lo strumento stesso di tale espressione e comunicazione“.

Esistono poi i linguaggi settoriali i quali, sempre secondo il Treccani, sono “una varietà funzionale della lingua comune utilizzata da determinati gruppi socioprofessionali per esprimere e comunicare contenuti, nozioni, argomenti specialistici. Rispetto alla lingua comune presentano ampliamenti nel lessico e semplificazioni nella morfosintassi; sono inoltre dotati di un’organizzazione testuale e di caratteri pragmatici peculiari […] Gli studiosi distinguono i linguaggi settoriali ”forti” da quelli ”deboli”: i primi sono propri delle scienze altamente formalizzate come la matematica e la fisica; i secondi pertengono alle discipline meno specializzate come, per es., la giurisprudenza e l’economia. Mentre i primi, a causa dell’elevato livello di formalizzazione, non ricorrono in genere a vocaboli diversi da quelli della lingua comune, i secondi abbondano di termini specialistici per poter marcare le distanze dalla lingua di tutti i giorni“.

L’autorevolezza della fonte consente dunque di affermare che il linguaggio giuridico è parte integrante della lingua comune e, in quanto linguaggio settoriale debole, si serve senza risparmio di un proprio lessico specialistico che lo differenzia dalla lingua quotidiana.

… e la sua necessità di distanziarsi dalla lingua comune

Le conclusioni appena abbozzate nei paragrafi precedenti rendono legittimo affermare che il linguaggio giuridico, pur parte integrante della lingua comune, ha bisogno di differenziarsene.

Il distacco, perseguito e senz’altro realizzato, dipende da una serie di ragioni:

  • anzitutto e prioritariamente, la necessità di definire puntualmente principi, istituti e fattispecie e far constare che le parole che li descrivono, pur tratte dalla lingua comune, hanno un significato particolare nel diritto;
  • strettamente correlata alla prima, la necessità di creare un lessico specialistico condiviso, nel quale ad un lemma o ad una singola espressione, corrisponda un solo significato, così da evitare il rischio di una babele semantica che sarebbe di grave ostacolo alla comprensione dei precetti normativi da parte dei consociati, alla loro applicazione da parte del giudice e alla formazione di indirizzi interpretativi costanti e prevedibili;
  • la considerazione del diritto alla stregua di una scienza e quindi la germinazione di un ceto di studiosi, alcuni dei quali anche pratici, che si “pensano” come scienziati e ritengono pertanto indispensabile l’adozione di un lessico alto al servizio di una piramide valoriale, la cui padronanza ed il cui uso sono richiesti per far parte del ceto medesimo;
  • da ultimo, ma non ultimo, la differenziazione linguistica può servire ad attribuire un potere a chi la crea e la usa come strumento della sua funzione: chi possiede il linguaggio specializzato può servirsene per dilatare ed enfatizzare la sua presa sulla funzione esercitata e, quindi, condizionarne a suo piacimento i risultati.

I falsi amici nel linguaggio giuridico penale

Si prova adesso a dar conto della considerazione che ha chiuso il precedente paragrafo.

Servono alcune precisazioni preliminari di ordine metodologico.

La dimostrazione avverrà attraverso un elenco, ristretto ma comunque sufficientemente rappresentativo, di falsi amici.

La loro “falsità” dipenderà non dalla semplice e casuale evoluzione, come avviene nella lingua comune, ma da pratiche deliberate di oscuramento o travisamento semantico.

La loro scelta sarà fatta all’interno dei cosiddetti latinetti giuridici i quali, ignoti ai più, si prestano alla mistificazione assai meglio delle parole di uso comune.

Aliunde

Letteralmente vuol dire altrove o da altrove.

Dovrebbe essere già chiara la sua notevole potenzialità mistificatoria: disporre di uno spazio che nessuno sa dove sia di preciso consente infatti rimandi incontrollabili e sempre a disposizione.

Un esempio, tratto da Cass. pen., Sez. 2^, sentenza n. 25974/2024, udienza del 25 giugno 2024:la prova del requisito dell’univocità dell’atto (da considerare quale parametro probatorio può essere raggiunta non solo sulla base dell’atto in sé considerato, ma anche aliunde e, quindi, anche sulla base di semplici atti “preparatori” che rivelino la finalità dell’agente e addirittura l’imminente passaggio alla fase esecutiva del delitto, ma non ne postulino necessariamente l’avvio“.

Cosa sia quell’aliunde possiamo solo immaginarlo vagamente, spostando la nostra attenzione, perché così ci chiede la Suprema Corte, sui “semplici atti preparatori“.

Ma, se vogliamo continuare a riflettere su questa categoria che dovrebbe essere così semplice da risultare addirittura scontata, ci accorgiamo che è per gente di bocca buona che si accontenta di poco.

Nulla di male, se non fosse che si sta parlando del confine tra il tentativo punibile e il nulla.

De plano

Quest’espressione, che letteralmente significa facilmente, senza difficoltà, è prevalentemente adoperata a proposito di procedure che vengono svolte con formalità ridotte al minimo ed a cognizione elementare.

Il suo uso – così, almeno, sembra – può dar vita ad una mistificazione per contrasto tra la sbrigatività della procedura e la dannosità del suo esito.

Ecco un esempio, tratto da Cassazione penale, Sez. 7^, ordinanza n. 26768/2024, udienza del 21 giugno 2024: “Ritenuto che, pertanto, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili, de plano“.

Questo periodo – dovrebbe convenirsi – trasmette l’idea di un’inammissibilità così clamorosa ed auto-evidente da potere essere sbandierata senza darsi la pena di pensare.

Sta esattamente in questo, come si diceva, la natura di falso amico di “de plano“: nel propagandare l’idea che il destino di un ricorrente possa essere deciso senza pensiero e nel contribuire a costruire l’immagine di una giustizia che tira dritto perché così è scritto.

Ex post

Queste due paroline significano letteralmente “in base al dopo” ma un buon sinonimo è “col senno di poi”.

Ecco un primo esempio, tratto da Cassazione penale, Sez. 7^, ordinanza n. 24512/2024, udienza del 12 giugno 2024: “è stato ritenuto inammissibile il motivo di impugnazione con cui venga dedotta una violazione di legge che non sia stata eccepita nemmeno con l’atto di appello, non avendo l’intervenuta trattazione della questione da parte del giudice di secondo grado efficacia sanante “ex post […] Ciò in quanto si deve evitare il rischio che in sede di legittimità sia annullato il provvedimento impugnato con riferimento ad un punto della decisione rispetto al quale si configura “a priori” un inevitabile difetto di motivazione per essere stato intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello“.

Traduciamolo in lingua comune: c’è un tempo e uno solo per contestare una decisione che non piace; se non lo si fa al momento giusto, non si può pretendere di avere una seconda chance dopo che il giudice ha parlato perché, se così fosse, sarebbe come barare.

In questa prima accezione, dunque, “ex post” assume una valenza furbesca, venendo assimilato ad un agguato a sorpresa volto a sorprendere ed ingannare il giudice (il quale, naturalmente, non ci casca).

E adesso un secondo esempio, tratto da Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 28796/2023, udienza del 6 giugno 2023: “Dalla sentenza non risulta in che modo si verificò l’investimento e in quale punto della carreggiata avvenne. La motivazione del provvedimento impugnato allude a possibili difficoltà nell’avvistamento del pedone, ma non spiega se dipendessero dalla eccessiva velocità del veicolo o da altre cause. La motivazione è così laconica da far ritenere che la sussistenza della colpa sia stata desunta ex post dal fatto che l’evento si è verificato“.

In questo caso, “ex post” assume un significato diverso ed è quello dell’arbitrio valutativo di chi pretende di attribuire rilievo penale ad una condotta, accollando al soggetto agente doveri di prudenza legati ad eventi che sono diventati noti solo dopo che è stata tenuta.

Il concetto di “dopo” viene così trasformato in una materia plasmabile che potremmo immaginare come un grande contenitore dal quale si possono trarre vari effetti e conseguenze, secondo ciò che piace e conviene.

Nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali

Nessun reato può essere contestato e nessuna pena può essere inflitta in assenza di una norma positiva entrata in vigore prima della condotta da cui sono derivati: è questo il significato del “nullum crimen“.

Passiamo la parola a Sezioni unite penali, sentenza n. 877/2023, udienza del 14 luglio 2022: “l’art. 25, secondo comma, della Costituzione (…) affermando che nessuno può essere punito se non in forza di legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, non soltanto proclama il principio della irretroattività della norma penale, ma dà fondamento legale alla potestà punitiva del giudice. E poiché questa potestà si esplica mediante l’applicazione di una pena adeguata al fatto ritenuto antigiuridico, non si può contestare che pure la individuazione della sanzione da comminare risulta legata al comando della legge», senza che rilevi la soppressione, in sede di formulazione definitiva della norma, della frase «e con le pene da essa stabilite» compiuta, per altri fini, dal Costituente (Corte cost., sent. n. 15 del 1962). D’altro canto, «è la previsione legale della pena, secondo la Costituzione, a fondare la stessa potestà punitiva del giudice. Si tratta di una valorizzazione centrale, perché dimostra l’esistenza di limiti all’esercizio del potere pubblico il cui superamento non può essere tollerato dall’ordinamento per la centralità che la Carta costituzionale assicura ai diritti fondamentali della persona, tra i quali si colloca il fondamentale diritto di libertà personale garantito dall’art. 13 Cost., in condizioni di uguaglianza per tutti i consociati (art. 3 Cost.)» (Sez. U, n. 38809 del 31/03/2022, Miraglia, non mass. sul punto). Il principio di legalità della pena informa di sé tutto il sistema penale, vale sia per le pene detentive che per le pene pecuniarie, e comporta che pena legale sia soltanto quella prevista dall’ordinamento giuridico“.

Parole e concetti che più solenni non si potrebbe e non è certo sorprendente visto che a parlare è il massimo organo della Suprema Corte.

Ma sentiamo adesso cosa dice Giorgio Fidelbo, uno dei suoi più autorevoli componenti, nel suo scritto Il diritto penale giurisprudenziale, la sua formazione, le sue caratteristiche, pubblicato in Sistema Penale, (consultabile a questo link): “il diritto giurisprudenziale è stato accusato di avere, in diverse occasioni, forzato il testo della disposizione penale, e spesso lo ha fatto nella consapevolezza dell’inadeguatezza delle norme vigenti a “fronteggiare” fenomeni criminali oppure nuove realtà sociali. Non vi è solo la nota vicenda del concorso esterno nell’associazione mafiosa […] ma penso al tema della c.d. corruzione funzionale, cioè del funzionario a libro paga (prima della modifica dell’art. 318 c.p. dovuto alla legge Severino), creazione della giurisprudenza, la quale si rende conto che l’atto amministrativo richiamato dall’art. 319 c.p. nella corruzione propria rendeva più complicato il perseguimento di certe corruzioni sistemiche che si realizzavano e che prescindevano da uno specifico atto, riguardando l’intera funzione amministrativa; a certe applicazioni dell’abuso d’uffici; alla lettura che la Corte di cassazione, per anni, ha fatto del reato di maltrattamenti in famiglia, estendo la tutela anche al convivente, soluzione che, da ultimo, è stata fortemente censurata dalla Corte costituzionale (sent. n. 98 del 2021); si pensi anche alla giurisprudenza sul disastro innominato oppure all’applicazione del reato di getto pericoloso di cose esteso alle emissioni di onde elettro magnetiche o, ancora, alle malattie professionali o all’estensione della lottizzazione abusiva“.

E, cogliendo lo spunto di Fidelbo allorché si è riferito al concorso esterno in associazione mafiosa, può servire ricordare una notissima decisione della Corte di Strasburgo, precisamente Corte EDU, Sez. IV, Contrada c. Italia (n. 3), (Ricorso n. 66655/13), 14 aprile 2015, nel cui § 66, non a caso fortemente criticato dalle nostre parti, è testualmente affermato che “non è oggetto di contestazione tra le parti il fatto che il concorso esterno in associazione di tipo mafioso costituisca un reato di origine giurisprudenziale“.

Pare a questo punto che la collocazione del “nullum crimen” tra i falsi amici del linguaggio giuridico penale sia sufficientemente legittima.

Ope legis

Questa espressione è usata per indicare un effetto che si verifica in conseguenza della diretta applicazione di una norma di legge, senza che sia necessaria alcun’altra attività.

Se questo è il concetto, è il caso di verificare cosa succede in Cassazione e per farlo si sceglie un tema specifico: le conseguenze prodotte dalla mancata revoca della sospensione condizionale della pena da parte del giudice dell’impugnazione che sia in possesso di certificato penale aggiornato e la sussistenza o meno – in tal caso – del potere di revoca in sede esecutiva.

Leggiamo la ricognizione fatta a tal proposito da Cassazione penale, Sez. 1^, ordinanza n. 10390/2024, udienza del 22 febbraio 2024: “La tematica […] attiene al profilo della possibilità di reputare non più emendabile, in sede esecutiva, tale errore, per esser stato vanamente «consumato» il potere di revoca riservato al Giudice di appello, a seguito dell’acquisita conoscenza, da parte di quest’ultimo, della errata concessione del beneficio – in presenza di causa ostativa – ad opera del giudice di primo grado. Un primo orientamento, formatosi già in epoca risalente nella giurisprudenza di legittimità, muove dalla lettura del dictum delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 37345 del 23/04/2015, Longo, Rv. 264381), per ricavarne alcuni decisivi ancoraggi teorici; pare dunque opportuno soffermarsi attentamente, in via preliminare, proprio sulla interpretazione che, della succitata sentenza Longo, effettuano coloro che ritengono condivisibile il primo degli orientamenti in esame. Secondo tale prospettiva ermeneutica, il giudice della cognizione in grado di appello – in assenza di impugnazione proposta dal pubblico ministero, atta a rendere giuridicamente possibile la riforma peggiorativa del trattamento sanzionatorio riservato al condannato in primo grado, anche sotto il profilo inerente alla concessione dei benefici – può procedere alla revoca di ufficio, ai sensi dell’art. 168, comma terzo, cod. pen., della sospensione condizionale confermata dalla sentenza appellata, rilevando la presenza della causa ostativa indicata dall’art. 164, comma 4, cod. pen. Si tratterebbe, infatti, di «effetti di diritto sostanziale che si produconoope legis” e possono essere rilevati in ogni momento sia dal giudice della cognizione sia, in applicazione del comma primo bis dell’art. 674 cod. proc. pen., dal giudice dell’esecuzione e dunque anche dal giudice di appello in mancanza di impugnazione del pubblico ministero» […]  Il secondo e contrapposto orientamento, parimenti radicatosi nella giurisprudenza di legittimità, ritiene illegittima la revoca disposta, in sede esecutiva, del beneficio della sospensione condizionale della pena, che sia stata accordata in contrasto con il disposto dell’art. 164, quarto comma, cod. pen., per il sussistere di una causa ostativa nota al giudice d’appello; illegittimità che si concretizzerebbe anche nel caso di mancata proposizione di impugnazione, ad opera del pubblico ministero – o, almeno, di sua formale sollecitazione – circa la natura illegittima del beneficio, non essendovi comunque preclusioni — per il giudice dell’impugnazione – rispetto all’esercizio in via officiosa del potere di revoca“.

Apprendiamo così che perfino il concetto di “ope legis” diventa materia disponibile e disputabile nelle mani dei giudici di legittimità.

Conclusioni

Si potrebbe continuare a lungo, facendo spazio ad altri falsi amici non meno intriganti e mistificatori di quelli utilizzati.

Si pensi a “iura novit curia” “iudex peritus peritorum“, “cogitationis poena nemo patitur” e i tanti altri usati (e, come si è visto, anche abusati) dagli scienziati del diritto.

Sarebbe interessante fare un sondaggio tra un campione significativo di pratici e chiedergli se sia sempre vero e credibile che il giudice conosca la legge, che sappia destreggiarsi senza errori ed esitazioni tra le opinioni dei periti, che nessuno subisca un processo alle intenzioni: chissà che risposte si avrebbero, soprattutto se fosse garantito l’anonimato.

Per intanto, ci si ferma qui.