Due facce della stessa medaglia, due luoghi dove l’assenza dello Stato si traduce in abbandono, degrado e negazione dei diritti fondamentali.
Nel cuore dell’Italia contemporanea, tra proclami retorici e slogan elettorali, si ergono due monumenti all’inadeguatezza statale: i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) e le carceri.
Sono luoghi che incarnano perfettamente la filosofia operativa di un certo modo di fare politica e amministrazione pubblica: far finta di esserci, senza esserci davvero. Ed è così che, tra muri sgretolati e stanze soffocanti, lo Stato riesce a giocare il doppio ruolo di burattinaio e spettatore distratto del proprio fallimento.
I CPR, istituti di “detenzione amministrativa”, si presentano come la quintessenza della contraddizione italiana: strutture che dovrebbero gestire situazioni delicate con umanità e rispetto, ma che finiscono per assomigliare a prigioni a tutti gli effetti.
Non ci sono processi, non ci sono accuse formali, eppure la libertà viene revocata con la stessa leggerezza con cui si strappa un foglio di carta.
In questi centri, il migrante non è nemmeno riconosciuto come persona con diritti, ma come un problema da confinare e, possibilmente, dimenticare.
La dignità umana? Un optional.
I racconti di chi ha attraversato quei corridoi parlano di stanze malsane, bagni fatiscenti, alimentazione scadente e assenza di assistenza sanitaria adeguata.
Senza contare l’isolamento psicologico, aggravato dalla totale mancanza di trasparenza sulle procedure e dall’assenza di un sostegno legale efficace. È quasi commovente, in senso negativo, come il sistema riesca a degradare un individuo senza colpa in pochi giorni, facendolo sprofondare in un limbo di desolazione. E tutto ciò con il placet di uno Stato che preferisce non vedere, non sentire, e soprattutto non intervenire.
Se i CPR sono l’emblema di un’amministrazione cieca e sorda, le carceri sono il palcoscenico di una tragicommedia durata decenni.
Tra sovraffollamento cronico, infrastrutture fatiscenti e personale insufficiente, le carceri italiane sembrano uscire da un romanzo d’orrore dimenticato, dove i diritti fondamentali si dissolvono come nebbia al sole.
Il sistema penitenziario non solo fallisce nel compito rieducativo, ma spesso si trasforma in un generatore di disperazione, violenza e ulteriori disagi sociali.
Le rivolte, i suicidi, le denunce di maltrattamenti non sono incidenti isolati, ma segnali inequivocabili di un’emergenza sistemica. Eppure, lo Stato continua a maneggiare la questione con la delicatezza di un elefante in una cristalleria, garantendo la solita dose di parole vuote e promesse mai mantenute.
Le riforme languono nelle aule parlamentari, mentre le carceri restano luoghi di sofferenza che nessuno vuole davvero vedere.
Il paradosso è che, pur con tutta questa “attenzione” istituzionale, lo Stato riesce a celare dietro un velo di ipocrisia e silenzi imbarazzati la propria totale incapacità di affrontare con serietà la questione. Non è forse ironico che proprio coloro che dovrebbero garantire sicurezza e giustizia si rendano complici di un sistema che produce ingiustizie e insicurezze?
La sicurezza non può essere solo la costruzione di muri più alti o la detenzione indiscriminata di esseri umani; deve essere una politica fondata sulla tutela dei diritti e sull’inclusione.
Il risultato è un sistema a doppio binario che, sotto l’apparente ordine e legalità, nasconde una realtà fatta di abbandono e sopraffazione.
Lo Stato, in queste circostanze, non è più il garante della legge, ma l’artefice di una disumanità che si manifesta nel silenzio e nella latitanza. È la più crudele delle beffe: chi è detenuto o trattenuto in questi luoghi si trova non solo privato della libertà, ma anche della speranza, dell’ascolto e del rispetto che dovrebbe essere la base di ogni società civile.
Eppure, la reazione della società civile e delle istituzioni è spesso tiepida, quando non complice.
La politica si limita a parlare di emergenze da gestire, di numeri da ridurre, come se le persone fossero statistiche su un foglio di calcolo.
I media mainstream, quando si occupano della questione, lo fanno con superficialità o relegano il tema a cronache di “ordinaria follia”, dimenticando che dietro ogni notizia ci sono vite umane.
In definitiva, i CPR e le carceri sono lo specchio di un’Italia che preferisce voltarsi dall’altra parte, che delega a procedure automatiche il compito di affrontare problemi che richiederebbero invece coraggio e umanità.
Fino a quando questa latitanza statale continuerà, ogni tentativo di riforma resterà sterile, e la disumanità sarà la cifra dominante di due istituzioni che dovrebbero essere al servizio della giustizia e della dignità.
Se vogliamo una società che si possa definire tale, è indispensabile che lo Stato esca dal suo nascondiglio, riconosca le proprie responsabilità e si impegni concretamente a restituire umanità a luoghi che ne sono drammaticamente privi.
Altrimenti, rischiamo di essere complici di un sistema che, invece di proteggere, distrugge, e di un’idea di Stato che più che garante dei diritti è diventato l’artefice del loro smantellamento.
