Le pene nascoste e l’indispensabile “revisione critica delle etichette legislative” (Vincenzo Giglio)

Nel 2017 Francesco Mazzacuva pubblicò un brillante saggio per Giappichelli Editore, dandogli un titolo quantomai significativo: Le pene nascoste. Topografia delle sanzioni punitive e modulazione dello statuto garantistico (scaricabile liberamente da DisCrimen a questo link).

La traccia è chiara: il nostro ordinamento contiene pene non dichiarate ed anzi occultate; sono così tante e così sparse da richiedere un lavoro topografico per la loro individuazione.

È un viaggio davvero interessante quello che Mazzacuva propone ai lettori e vale la pena farlo fino in fondo: si seguiranno itinerari imprevedibili, bisognerà fermarsi a molti incroci per poi scoprire che la direzione indicata dall’Autore, pur apparentemente eterodossa, porta alla scoperta di connessioni impensabili ma comunque plausibili o addirittura obbligate.

Giunti alla fine, si comprenderà l’esigenza che Mazzacuva indica fin dall’introduzione con queste parole (i neretti sono miei):

«Il tema della qualificazione penale – sia essa riferita all’illecito, alla sanzione, al processo o, più in generale, alla “materia” – si iscrive nel più ampio problema della corrispondenza tra nomi e realtà, il quale ricorre nel pensiero filosofico e giuridico sino all’epoca contemporanea, in cui il lento tramonto del giuspositivismo ha riportato l’attenzione sulle esigenze di revisione critica delle etichette legislative, specialmente laddove concernano l’esercizio della potestà punitiva».

L’Autore richiama esplicitamente a sostegno «soprattutto le considerazioni di E.R. ZAFFARONI, En busca de las penas perdidas, Buenos Aires, 1989, trad., Alla ricerca delle pene perdute, Napoli, 1994, 213 s., secondo cui non può esistere un sapere che aspiri ad una dignità accademica il cui spazio dipenda da un puro atto politico e, in particolare, la definizione di pena non può rientrare nella disponibilità del legislatore».

Viene naturale il riferimento alla notissima frase di Ludwig Wittgenstein nel suo Tractatus logico-philosoficus: «I limiti del mio linguaggio costituiscono i limiti del mio mondo» alla quale si può associare come chiave di lettura ciò che lo stesso filosofo austriaco scrisse nell’introduzione della sua opera: «Questo libro, forse, lo comprenderà solo colui che già a sua volta abbia pensato i pensieri ivi espressi – o, almeno, pensieri simili -. Esso non è, dunque, un manuale. Conseguirebbe il suo fine se piacesse ad almeno uno che lo legga comprendendolo. Il libro tratta i problemi filosofici e mostra – credo – che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere».

L’insieme di queste proposizioni assegna dunque al linguaggio l’altissima funzione di dare un nome ed uno solo a tutto quanto compone la realtà così che nessun fraintendimento sia possibile.

La finalizzazione alla chiarezza implica, come conseguenza necessaria, che il linguaggio non appartiene al potere costituito che non può servirsene per scopi manipolatori.

Se tutto questo è vero, dobbiamo constatare, in accordo a Mazzacuva, che le attuali etichette legislative hanno bisogno eccome di una revisione critica.

Sarebbero necessari e possibili vari esempi a sostegno di questa tesi e Le pene nascoste ne sciorina un campionario sconfinato e documentato.

Mi limito quindi a un minuscolo contributo, parlando del cosiddetto danno punitivo.

Il relativo dibattito giurisprudenziale ebbe una tappa significativa con la sentenza n. 16601/2017 delle Sezioni unite civili.

L’occasione fu offerta da una vicenda in cui era in discussione la possibilità di dichiarare efficaci ed esecutive nell’ordinamento italiano tre decisioni, tutte attinenti alla medesima controversia civilistica, emessa da un’autorità giudiziaria statunitense.

Si assumeva tra l’altro nel ricorso che l’esecutività dovesse essere negata poiché le decisioni estere avevano liquidato anche danni di tipo punitivo.

Le Sezioni unite, pur escludendo che ricorresse tale evenienza, intesero comunque prendere posizione sull’istituto e sulla sua compatibilità col nostro ordinamento.

Questi furono i passaggi salienti (i neretti sono miei):

«già da qualche anno le Sezioni Unite (cfr. SU 9100/2015 in tema di responsabilità degli amministratori) hanno messo in luce che la funzione sanzionatoria del risarcimento del danno non è più incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento, come una volta si riteneva, negli ultimi decenni sono state qua e là introdotte disposizioni volte a dare un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento […] In sintesi estrema può dirsi che accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria dell’istituto (che immancabilmente lambisce la deterrenza) è emersa una natura polifunzionale (un autore ha contato più di una decina di funzioni), che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva […] Corte Cost. n.152 del 2016, investita di questione relativa all’art. 96 c.p.c. ha sancito la natura «non risarcitoria (o, comunque, non esclusivamente tale) e, più propriamente, sanzionatoria, con finalità deflattive» di questa disposizione e dell’abrogato art. 385 c.p.c. Vi è dunque un riscontro a livello costituzionale della cittadinanza nell’ordinamento di una concezione polifunzionale della responsabilità civile, la quale risponde soprattutto a un’esigenza di effettività (cfr. Corte Cost. 238/2014 e Cass. n. 21255/13) della tutela che in molti casi, della cui analisi la dottrina si è fatta carico, resterebbe sacrificata nell’angustia monofunzionale. Infine, va segnalato che della possibilità per il legislatore nazionale di configurare “danni punitivi” come misura di contrasto della violazione del diritto eurounitario parla Cass., sez. un., 15 marzo 2016, n. 5072».

Seguì la formulazione del principio di diritto:

«nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è quindi ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico».

Nell’opinione del nostro massimo organo nomofilattico, era dunque sufficiente per una delibazione positiva che la sentenza straniera avesse una base normativa nell’ordinamento dello Stato di provenienza, la quale ne garantisse la corrispondenza a un tipo legale e che la condanna che conteneva fosse prevedibile e contenuta entro limiti accettabili.

Si potrebbe e forse dovrebbe discutere sull’accettabilità di questi striminziti requisiti ed anche sull’opportunità di formulare un principio di diritto così impegnativo senza che ve ne fosse la necessità processuale.

Non è questo che conta tuttavia.

Ciò che interessa in questa sede è che il giudice di legittimità abbia ritenuto legittimo sbarazzarsi dell’“angustia monofunzionale” della responsabilità civile e assegnarle aggiuntivamente funzioni esplicitamente preventive e punitive.

È questo, nella mia opinione, uno dei tanti casi che dimostrano la necessità di una vasta operazione di pulizia – o, igiene, se si preferisce – del linguaggio cui segua un nuovo e finalmente chiaro paradigma di ciò che è penale e di ciò che non lo è.

Perché altrimenti la definizione di pena, a dispetto dell’auspicio di Zaffaroni, continuerà ad essere nelle mani non solo del legislatore ma pure (e forse è anche peggio) del giudice e l’uno e l’altro continueranno ad essere arbitri assoluti nella scelta di chi deve essere garantito e di chi invece può essere abbandonato al suo destino.