Le massime di esperienza nel giudizio penale (Vincenzo Giglio e Riccardo Radi)

La giurisprudenza

Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 9702/2022, udienza dell’1° dicembre 2021, ricorda che «Le massime di esperienza sono generalizzazioni empiriche indipendenti dal caso concreto, fondate su ripetute esperienze ma autonome e sono tratte, con procedimento induttivo, dall’esperienza comune, conformemente ad orientamenti diffusi nella cultura e nel contesto spaziotemporale in cui matura la decisione, in quanto non si risolvono in semplici illazioni o in criteri meramente intuitivi o addirittura contrastanti con conoscenze o parametri riconosciuti e non controversi»: così Sez. 6, n. 1775 del 09/10/2012, dep. 2013, Rv. 25419; in termini, Sez. 2, n. 51818 del 06/12/2013, Rv. 258117) e che «Le cosiddette massime di comune esperienza si distinguono dalle mere congetture, in quanto sono regole giuridiche preesistenti al giudizio poiché il dato in esse contenuto è già stato, o viene comunque, sottoposto, a verifica empirica sicché la regola viene formulata sulla scorta dell’id quod plerumque accidit, rivestendo i caratteri della regola d’esperienza tratta dal contesto storico-geografico generalmente riconosciuta ed accettata (fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto che la condotta tenuta da due soggetti rinvenuti nei pressi di un esercizio commerciale, già oggetto di minacce, in possesso di due cartucce per fucile e con un bidone di liquido infiammabile, avesse, in base ad una massima d’esperienza, un carattere inequivocamente estorsivo ai danni del commerciante)» (Sez. 2, n. 39985 del 16/09/2003, , Rv. 227200).

Si è, in conseguenza, affermato che «È affetta dal vizio di illogicità e di carenza della motivazione la decisione del giudice di merito che, in luogo di fondare la sua decisione su massime di esperienza – che sono caratterizzate da generalizzazioni tratte con procedimento induttivo dalla esperienza comune, conformemente agli orientamenti diffusi nella cultura e nel contesto spaziotemporale in cui matura la decisione – utilizzi semplici congetture, cioè ipotesi fondate su mere possibilità, non verificate in base all'”id quod plerumque accidit” ed insuscettibili, quindi, di verifica empirica» (Sez. 6, n. 36430 del 28/05/2014, Rv. 260813; nello stesso senso cfr. Sez. 1, n. 16523 del 04/12/2020, dep. 2021, Rv. 281385; Sez. 1, n. 18118 del 11/02/2014, Rv. 261992; Sez. 6, n. 1686 del 27/11/2013, dep. 2014, Rv. 258135; Sez. 6, n. 6582 del 13/11/2012, dep. 2013, Rv. 254572; Sez. 2, n. 44048 del 13/10/2009, Rv. 245627; Sez. 6, n. 16532 del 13/02/2007, Rv. 237145; Sez. 6, n. 31706 del 07/03/2003, Rv. 228401).

A sua volta, Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 36524/2021, udienza del 20 maggio 2021, afferma che, in materia di prova indiziaria, il controllo del giudice di legittimità sui vizi di motivazione della sentenza impugnata, se non può estendersi al sindacato sulla scelta delle massime di esperienza, costituite da giudizi ipotetici a contenuto generale, indipendenti dal caso concreto, fondati su ripetute esperienze, ma autonomi da queste, può però avere ad oggetto la verifica sul se la decisione abbia fatto ricorso a mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sull’id quod plerumque accidit, ed insuscettibili di verifica empirica, od anche ad una pretesa regola generale che risulta priva di una pur minima plausibilità (Sez. 1, n. 16523 del 04/12/2020, dep. 30/04/2021, Rv. 281385; Sez. 5, n. 25616 del 24/05/2019, rv. 277312; Sez. 6, n. 31/06 del 07/03/2003, Rv. 228401).

Le massime di esperienza sono, dunque, generalizzazioni empiriche, tratte, con procedimento induttivo, dall’esperienza comune, che forniscono al giudice informazioni su ciò che normalmente accade, secondo orientamenti largamente diffusi nella cultura e nel contesto spazio-temporale in cui matura la decisione; dunque, nozioni di senso comune, enucleate da una pluralità di casi particolari, ipotizzati come generali, siccome regolari e ricorrenti, che il giudice in tanto può utilizzare in quanto non si risolvano in semplici illazioni o in criteri meramente intuitivi o addirittura contrastanti con conoscenze e parametri riconosciuti e non controversi (Sez. 6, n. 1775 del 09/10/2012, dep. 2013, Rv. 254196, in applicazione del principio, la Corte ha censurato, per carenza della giustificazione esterna, una decisione del tribunale del riesame che, nel respingere una richiesta in sostituzione ai misura carceraria con quella domiciliare, non aveva indicato in base a quale massima di esperienza un minore di anni sei, in una situazione di grave disagio psicologico, non necessitasse della stabile presenza della madre).

È stato affermato condivisibilmente cheil controllo di legittimità inerente alla giustificazione esterna non può estendersi fino al sindacato sulla scelta delle massime di esperienza delle quali il giudice abbia fatto uso nella ricostruzione del fatto, purché la valutazione delle risultanze processuali sia stata compiuta secondo corretti criteri di metodo e con l’osservanza dei canoni logici che presiedono alle forme del ragionamento e la motivazione fornisca una spiegazione plausibile e logicamente corretta delle scelte operate.

Ne deriva che la doglianza di illogicità può essere proposta allorché il ragionamento non si fondi realmente su massime di esperienza, secondo la nozione poc’anzi precisata, ma valorizzi piuttosto una congettura – e cioè un’ipotesi non fondata sull’id quod plerumque accidit e insuscettibile di verifica empirica – o anche una pretesa regola generale che risulti però priva di qualunque pur minima plausibilità (Sez. 6, n. 31706 del 2003, cit.).

La razionalità dell’apparato motivazionale può anche difettare sul versante della giustificazione interna, relativa all’applicazione delle massime e dei criteri di giudizio e alla coerenza delle conclusioni rispetto alle premesse. Di talché il vizio è, ad esempio, configurabile laddove vengano adottate, come premesse, delle affermazioni scarsamente plausibili; oppure qualora si scelga un’ipotesi ricostruttiva del fatto intrinsecamente incoerente ovvero connotata da un alto coefficiente di opinabilità oppure contrastante con altre ipotesi caratterizzate da un elevato grado di plausibilità logica, sì da relegare l’ipotesi prescelta in un ristretto ambito probabilistico o da collocare l’assunto accusatorio al di sotto del limite del ragionevole dubbio.

Ed ancora, secondo Cassazione civile, Sez. 1^, ordinanza n. 6075/2023, camera di consiglio del 16 febbraio 2023, il giudice è in vero tenuto ad avvalersi delle massime d’esperienza (o nozioni di comune esperienza), da intendere come proposizioni di ordine generale tratte dalla reiterata osservazione dei fenomeni anche socioeconomici.  In questo senso l’utilizzazione delle massime d’esperienza è essa stessa una regola di giudizio, destinata a governare sia la valutazione delle prove, che l’argomentazione di tipo presuntivo (v. Cass. Sez. 3 n. 22022-10, Cass. Sez. 2 n. 20313-11), al punto che il mancato ricorso alle nozioni rientranti nella comune esperienza, di cui all’art. 115 cod. proc. civ., attenendo al giudizio di fatto, deve essere dal giudice specificamente spiegato (v. Cass. Sez. 3 n. 5644-12). Del tutto distinta è la questione del notorio, perché il ricorso al fatto notorio attiene all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito.  Esso è sindacabile, in sede di legittimità, solo se la decisione della controversia si basi su un’inesatta nozione di notorio, da intendersi come fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo (v. Cass. Sez. 1 n. 17906-15, Cass. Sez. 1 n. 5089-16, Cass. Sez. 5 n. 5438-17). 

Definizione

Nella considerazioni giurisprudenziale, dunque, le massime di esperienza sono nient’altro che generalizzazioni di natura empirica, desunte induttivamente da esperienze comuni, che offrono al giudice informazioni su ciò che normalmente accade.

Sono, in altri termini, nozioni di senso comune, enucleate da una pluralità di casi particolari, ipotizzati come generali per la loro regolarità e ricorrenza.

Il senso comune viene quindi assunto come criterio interpretativo e valutativo e diventa per ciò stesso regola di giudizio cui il giudice è tenuto a conformarsi a pena di illogicità dei suoi processi argomentativi e decisionali e dalla quale può discostarsi solo ove offra convincenti giustificazioni che prevalgano sullo specifico senso comune applicabile al caso concreto.

Questioni problematiche

La principale difficoltà che si prospetta, allorché si parla di massime d’esperienza, è generata dall’inafferrabilità della loro stessa materia prima, il senso comune.

Cosa sia davvero, a quali condizioni si formi, che consistenza debba avere la generalizzazione, come si possa constatare il raggiungimento della soglia minima richiesta, quali verifiche sono ipotizzabili e così via.

A nessuna di queste questioni la giurisprudenza è in grado di rispondere in modo adeguato ed effettivo, che vada, cioè, oltre concettualizzazioni tanto iconiche quanto impalpabili.

Lo stesso deficit è dato registrare per il destinatario del senso comune.

Si comprende che il senso comune esiste solo in quanto ritenuto tale quantomeno dalla maggioranza della comunità di riferimento.

Diventa quindi imprescindibile disporre di un destinatario tipo.

Varie sono le formule definitorie coniate al riguardo: l’uomo medio o di media cultura o di media intelligenza o altre similari, in un certo luogo e in un certo periodo.

E chi potrebbe stabilire questa media e in base a quali parametri?

E, ammesso che si possa farlo, questa condizione mediana è unica e può essere applicata a qualunque ambito oppure varia da un ambito all’altro?

È necessario, per provare a rispondere a queste domande, un piccolo viaggio tra i mille sentieri della giurisprudenza di legittimità.

Le applicazioni casistiche

Per Cassazione penale, Sez. 3^, sentenza n. 33284/2024, udienza del 9 luglio 2024, rientra tra le nozioni e massime di comune esperienza la necessità di emettere una nota di credito quando una fattura regolarmente emessa e registrata venga, per qualsiasi ragione, stornata, e anche quella relativa alle ordinarie modalità di gestione di controversie tra imprenditori in ordine ai corrispettivi rispettivamente richiesti e dovuti, che in genere non si concludono con la rinuncia tout court a un credito del rilievo di quello portato dalla fattura oggetto della contestazione.

Per Cassazione penale, Sez. 3^, sentenza n. 33278/2024, udienza del 9 luglio 2024, in tema di ricettazione la consapevolezza della provenienza illecita può desumersi anche dalla qualità delle cose, purché i sospetti sulla res siano così gravi e univoci da generare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale, e secondo la comune esperienza, la certezza che non possa trattarsi di cose legittimamente detenute da chi le offre.

Nel caso in esame tale consapevolezza aveva ad oggetto CD e DVD contraffatti ed era stata desunta dal fatto che il soggetto agente li aveva esposti al pubblico su una bancarella e che quei supporti avevano copertine trasparenti di cellophane e locandine palesemente contraffatte.

Per Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 30007/2024, udienza del 19 luglio 2024, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità (Sez. U, n. 22471 del 26/2/2015, Rv. 263715).

Per Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 32993/2024, udienza dell’11 luglio 2024, l’adeguatezza della misura in concreto applicata, pertanto, va valutata anche con riferimento alla prognosi di spontaneo adempimento da parte dell’indagato (Sez. 6, n. 53026 del 06/11/2017, Rv. 271686; Sez. 3, n. 5121 del 04/12/2013, dep. 2014, Rv. 258832) ed assume particolare rilievo il dato della sua pericolosità (Sez. 6, n. 2852 del 02/10/1998, Rv. 211755). Tale valutazione va eseguita soppesando, nella loro globalità, sia gli elementi inerenti alla gravità ed alle circostanze del fatto e sia quelli inerenti alla personalità del prevenuto nel senso che la concessione degli arresti domiciliari è preclusa nella misura in cui – sulla base di dati fattuali concreti, anche desumibili da massime di esperienza, e dunque non meramente astratti o congetturali – sia possibile ritenere che l’imputato si sottragga all’osservanza delle prescrizioni, attraverso il mancato assolvimento degli obblighi connessi all’esecuzione della misura cautelare domestica.

Infine, per Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 25431/2024, udienza del 6 giugno 2024, la distinzione della condotta di “partecipazione” da quella che esprime solo “contiguità” non può che essere effettuata valorizzando le massime di esperienza, tratte dalla decennale analisi giudiziaria dei comportamenti tipici degli associati alle “mafie storiche”, che ha consentito di identificare comportamenti ed azioni tipici delle dinamiche relazionali dei consorzi mafiosi. Si riafferma, infatti, che per valutare le condotte agite nei contesti criminali mafiosi, il giudice deve tener conto anche delle indagini storico sociologiche, sebbene con prudente apprezzamento e rigida osservanza del dovere di motivazione; tali dati sono infatti utili strumenti di interpretazione dei risultati probatori, ogni volta che ne sia stata valutata l’effettiva idoneità ad essere assunti ad attendibili “massime di esperienza”, senza che ciò, peraltro, lo esima dal dovere di ricerca delle prove indispensabili per l’accertamento della fattispecie concreta oggetto del giudizio.

Note conclusive

Il piccolo campione esaminato permette di affermare che, per la Suprema Corte, sono massime d’esperienza non solo conoscenze settoriali, come la necessità di emettere una nota di credito dopo lo storno di una fattura ma, anche e soprattutto, criteri valutativi ai quali conformare tra l’altro l’interpretazione delle comunicazioni intercettate, la valutazione della pericolosità di un individuo, la distinzione tra il partecipe di un’associazione mafiosa e il mero “contiguo”.

Si dovrebbe quindi tenere per vero che:

  • date certe parole, per di più espresse cripticamente, la maggioranza degli individui gli attribuirebbero lo stesso significato scelto dal giudice;
  • dati un certo individuo e una certa storia umana, la stessa maggioranza non esiterebbe a ritenerlo pericoloso o non pericoloso;
  • data una certa condotta, la maggioranza di cui sopra saprebbe, sempre senza esitazione, qualificarla in termini di vera e propria partecipazione associativa o di semplice e non punibile contiguità.

In conclusione, ancora una domanda perché altro non è dato: di che stiamo parlando, di quello che pensa la gente comune o di quello che la giurisdizione pensa che pensi la gente comune?