Reati culturalmente orientati: la visione giurisprudenziale (Vincenzo Giglio)

Le cronache giudiziarie portano periodicamente alla ribalta il tema dei reati culturalmente orientati.

Non è certo questa la sede per un approfondimento sistematico ma può comunque giovare richiamare alcune definizioni di base.

Quanto poi al concetto di cultura, si adotta qui la definizione datane in La cittadinanza culturale da Will Kymlicka, secondo il quale “Cultura è sinonimo di nazione, o di popolo, e designa una continuità intergenerazionale, più o meno compiuta dal punto di vista istituzionale, che occupa un determinato territorio e condivide una lingua e una storia distinte”.

Esaminiamo qualche esempio, partendo da un caso non infrequente che si verifica allorché in un nucleo familiare di immigrati vi sia un uomo che si arroga ed esercita diritti sostanzialmente proprietari su una donna, soggiogandola ai suoi voleri e riducendola di fatto in uno stato di servitù se non addirittura di schiavitù.

La contestazione più diffusa è ovviamente quella dei maltrattamenti in famiglia, cui secondo le caratteristiche del caso concreto, possono aggiungersi ulteriori contestazioni quali violenza sessuale, sequestro di persona ed altre ancora.

In vicende del genere, la Corte suprema (si veda, tra le altre, la sentenza n. 19674/2014) non ha attribuito alcun rilievo all’appartenenza dell’agente ad una religione, nel caso quella musulmana, che consente l’esercizio di un certo grado di violenza da parte del maschio capofamiglia nei confronti dei familiari.

Ciò perché l’invocazione di tradizioni etiche o sociali o religiose, anche se di indiscusso valore culturale nell’ambito di provenienza, non può elidere l’obbligatorietà della legge penale per tutti coloro che sono soggetti all’ordinamento italiano, soprattutto quando questa tuteli beni di primario rango costituzionale come l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi e la dignità della persona umana.

Il fattore culturale è stato quindi ritenuto inidoneo non solo ad escludere l’elemento soggettivo del reato ma anche a giustificare un trattamento sanzionatorio più mite.

Al tempo stesso, non è stata riconosciuta alcuna idoneità scriminante all’eventuale consenso della parte offesa sul presupposto dell’indisponibilità dei diritti essenziali violati da condotte che offendano quei beni primari.

Principi di uguale tenore sono stati affermati nella sentenza n. 14960/2015 emessa dalla prima sezione penale.

Oggetto del sottostante procedimento era l’accusa, rivolta a un cittadino marocchino, di avere sottoposto a maltrattamenti e a violenze sessuali la moglie costringendola a rapporti sessuali nonostante lo stato di gravidanza avanzato.

L’imputato ha provato a far valere la motivazione culturale, sul presupposto che nel suo ambiente di provenienza la moglie, secondo la comune percezione, è un bene di proprietà del marito ed è dunque completamente soggetta ad ogni sua volontà.

Parole chiarissime e, si aggiunge, perfettamente condivisibili.

Merita di essere segnalata anche la sentenza n. 49569 del 18.6.2014 pronunciata in un procedimento in cui una donna di nazionalità marocchina aveva ucciso un uomo che si era rifiutato di sposarla dopo una lunga relazione affettiva.

La questione di maggiore interesse era se il danno irreparabile che la vittima aveva arrecato all’onore dell’imputata (alla quale, secondo i valori culturali di provenienza, era irreversibilmente precluso di sposarsi con altri uomini) potesse essere ricondotto nella sfera della provocazione e giustificare quindi la diminuzione della pena.

La Cassazione ha scartato questa prospettiva, osservando che l’attenuante in esame richiede l’esistenza di un’ingiustizia obiettiva da intendersi come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali valide per l’intera collettività cui si applica un determinato ordinamento in un determinato periodo storico.

Anni addietro un cittadino indiano residente in Italia è stato controllato dalle forze dell’ordine mentre si trovava in un luogo pubblico e trovato in possesso di un coltello lungo quasi 20 centimetri.

Gli è stato quindi contestato il reato di porto ingiustificato fuori della sua abitazione di uno strumento atto ad offendere, previsto dall’art. 4 della legge 110/1975.

Nel conseguente giudizio di merito l’accusato si è difeso sostenendo di essere un seguace della religione sikh e di avere per ciò stesso l’obbligo di portare sempre con sé il pugnale curvo denominato kirpan che costituisce uno dei simboli del sikhismo.

Il tribunale competente non ha attribuito rilievo alla versione difensiva e ha emesso sentenza di condanna.

L’interessato ha fatto ricorso per cassazione.

La prima sezione penale della Corte suprema si è pronunciata con la sentenza n. 24084 del 15.5.2017, rigettando l’impugnazione.

Nell’opinione dei giudici di legittimità la derivazione religiosa del porto del kirpan non può fungere da giustificato motivo che scrimini la condotta incriminata.

Non può neanche essere invocato l’art. 19 Cost. poiché la libertà religiosa, lungi dall’essere assoluta, è sottoposta, come osservato dalla Consulta nella sentenza 63/2016, ai limiti necessari alla salvaguardia dell’ordine pubblico, della sicurezza e della pacifica convivenza.

Lo stesso vale per l’art. 9 CEDU che consente le restrizioni a tale libertà necessarie in una società democratica per la protezione dell’ordine pubblico e dei diritti e delle libertà altrui.

Tanto ciò è vero – sottolinea l’estensore – che nella causa Eweida e altri c/o Regno Unito del 15 gennaio 2013 la Corte di Strasburgo ha sottolineato che nell’ambiente di lavoro dei ricorrenti taluni dipendenti di religione sikh avevano accettato di non indossare turbanti e kirpan.

Nessun credo religioso, in conclusione, può essere assunto come base legittimante per il porto in luogo pubblico di armi o oggetti atti a offendere.

Anche la giurisprudenza civile di legittimità è chiamata sempre più intensamente a fronteggiare il fenomeno del multiculturalismo.

Il laboratorio civile è di sicuro interesse per comprendere i trend giurisprudenziali, forse anche più di quello penale, per la maggiore duttilità del suo oggetto e per una più spiccata propensione al confronto con i nuovi fermenti sociali.

Merita di essere citata a tal fine la sentenza n. 26204/2013 della Cassazione civile che ha annullato la dichiarazione di adottabilità di una minore figlia di una donna di nazionalità keniota.

L’adottabilità era stata disposta in conseguenza della volontà materna di rimpatriare la minore nel Paese d’origine per affidarla alle cure di uno zio in applicazione del concetto di famiglia allargata ivi largamente praticato.

Il giudice di merito aveva considerato svantaggioso per la minore un simile destino, sul presupposto che uno stile occidentale di vita le assicurasse maggiore chances rispetto a quello keniota.

La Suprema Corte ha osservato per contro che quel criterio si traduceva in un indebito favore per un’opzione culturale rispetto ad un’altra, per di più a discapito dell’identità culturale della minore e del suo nucleo familiare di appartenenza.

Uguale apertura è stata manifestata, con più decisioni anche a Sezioni unite, a favore del riconoscimento dell’istituto islamico della kafalah, una sorta di affido familiare congegnato per superare la proibizione coranica dell’adozione.

È stato in sostanza consentito il nulla osta all’ingresso nel territorio nazionale per ricongiunzione familiare di minori extracomunitari affidati a cittadini italiani mediante kafalah sia pubblicistica che convenzionale.

Anche i giudici amministrativi hanno avuto l’occasione di concorrere al formante giurisprudenziale nella materia del culturalismo.

Si riporta, una tra tutte, la pronuncia n. 2224/2013 con cui il Consiglio di Stato ha espresso il suo parere a seguito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica promosso dal legale rappresentante dell’Associazione Sikhismo Religione Italia avverso un provvedimento della Direzione centrale degli Affari dei Culti – articolazione del Ministero dell’Interno – che negava a tale associazione il riconoscimento della personalità giuridica di ente di culto.

Il giudice amministrativo si è espresso nel senso dell’infondatezza del ricorso.

Ha infatti riconosciuto la correttezza delle ragioni del rigetto, fondate sull’insanabile conflitto tra taluni precetti essenziali del sikhismo – tra questi in particolare l’obbligo del porto del kirpan e il divieto del divorzio limitato alle donne – e taluni principi fondamentali dell’ordinamento nazionale tra i quali spiccano il principio costituzionale di uguaglianza formale e la tutela della sicurezza pubblica e dell’incolumità dei consociati.

Il tema del multiculturalismo è di rilievo centrale nelle dinamiche delle società contemporanee.

Mette alla prova la tenuta del modello sociale disegnato dalla nostra Carta fondamentale che ha immaginato una comunità aperta e ospitale ma, al tempo stesso, esige che nessun modello si imponga come esclusivo o attenti al cosiddetto nucleo duro di valori nei quali l’Italia si riconosce.

Il legislatore e il giudice hanno un ruolo primario nel governo dei fenomeni originati dagli incessanti flussi migratori la cui prima ondata si scarica inevitabilmente sulle nostre sponde.

Sono movimenti epocali e nient’affatto episodici che hanno già prodotto lo stanziamento e il radicamento in molte parti del territorio nazionale di importanti comunità che portano con sé i loro valori di riferimento e chiedono di poterli professare.

Non esistono al riguardo né ricette valide universalmente né parole d’ordine obbligate.

Le soluzioni più corrette e concilianti vanno cercate caso per caso e richiedono comunque una conoscenza profonda dell’altro da sé.

Chi fa le leggi, chi le applica, chi vive accanto a esseri umani provenienti da altri mondi e culture ha il dovere di diventare antropologo e dunque di predisporsi ed appassionarsi alla conoscenza di ciò che gli è ignoto per potervi trovare ragioni di incontro più che di scontro e regole comuni che possano essere più agevolmente condivise.

È l’unica strada, altre non ce ne sono o sono solo illusorie.

Nel frattempo, comunque, i nostri giudici mostrano – e questo rassicura – di avere avvertito l’importanza del tema e la necessità di affrontarlo con una consapevolezza che deve essere estesa fino ai valori più essenziali del nostro sistema giuridico e alle ulteriori prospettive ricavabili dagli ordinamenti sovranazionali.