Premessa e definizioni
Le cronache giudiziarie portano periodicamente alla ribalta il tema dei reati culturalmente orientati.
Non è certo questa la sede per un approfondimento sistematico ma può comunque giovare richiamare alcune definizioni di base.
Si può intanto affermare che per reato culturalmente orientato si intende una condotta doppiamente caratterizzata:
- la cultura cui appartiene il soggetto agente è minoritaria nel contesto in cui agisce;
- la condotta ha rilievo penale nel contesto territoriale in cui è stata tenuta ma è consentita ed incoraggiata o addirittura imposta dall’orientamento culturale nel quale si riconosce l’autore.
Quanto poi al concetto di cultura, si adotta qui la definizione datane in La cittadinanza culturale da Will Kymlicka, secondo il quale “Cultura è sinonimo di nazione, o di popolo, e designa una continuità intergenerazionale, più o meno compiuta dal punto di vista istituzionale, che occupa un determinato territorio e condivide una lingua e una storia distinte”.
Ben si comprende, date queste coordinate, che l’esistenza dei reati culturalmente orientati è un portato della globalizzazione, espressione con cui si identifica una crescente omogeneità dei comportamenti umani e degli orientamenti che li ispirano, dovuta alla sempre più diffusa mobilità degli individui ed all’affermazione di logiche di mercato che favoriscono o addirittura impongono modelli di produzione, di consumo e, in ultima analisi, di vita assai meno differenziati che in passato.
Il fenomeno appena identificato ha costituito e costituisce tuttora un severo terreno di impegno per gli Stati, soprattutto per quelli che rappresentano le mete di destinazione dei flussi emigratori di massa.
Ognuno di essi ha dovuto infatti confrontarsi con le credenze, gli orientamenti e gli stili di vita delle popolazioni che si sono stanziate stabilmente sul suo territorio e ne ha dovuto gestire l’impatto sulla propria comunità.
In altri termini, gli Stati di destinazione dei movimenti migratori si sono trasformati, volenti o nolenti, consapevoli o disattenti che fossero, in giganteschi laboratori di diversità e quindi di pluralismo culturale.
Come è ovvio, anche le loro legislazioni ed i principi che le ispirano hanno dovuto confrontarsi con il fenomeno di cui si parla ed hanno conseguentemente subito modificazioni profonde.
Non si è trattato di eventi indolori.
Si tratta infatti di passaggi epocali che imprimono tracce profonde nelle comunità e generano inevitabilmente conflitti, come accade tutte le volte in cui la compattezza e l’omogeneità di un corpo sociale sia messa in discussione ed alterata dall’ingresso in campo di nuove componenti.
Credenze e comportamenti sedimentati nei secoli vengono messi a confronto, talvolta in modo così repentino da impedire un progressivo adattamento, con orientamenti culturali e comportamentali radicalmente differenti.
Questi eventi e questi conflitti costituiscono la genesi di nuovi concetti che, pur riferendosi a situazioni differenti, hanno curiosamente un’identica aggettivazione: società multiculturale dunque ma anche cultural defense e reati culturali.
Varie possono essere le risposte ordinamentali alle inevitabili commistioni prodotte dalla globalizzazione e vari sono gli istituti astrattamente utilizzabili a diritto vigente e in una prospettiva riformatrice allorché vengano in rilievo reati frutto della cultura di chi li compie: completa ripulsa da un lato oppure tentativi di vario genere di adattare e rendere flessibile la risposta penale; ove si scelga questa seconda opzione si può agire principalmente sul piano delle cause di giustificazione o sull’elemento psicologico o sulle circostanze.
La risposta giurisprudenziale
Certo è che la complessità del tema e la latitanza del legislatore generano visioni e orientamenti interpretativi piuttosto differenziati.
…La giurisprudenza penale
Esaminiamo qualche esempio, partendo da un caso non infrequente che si verifica allorché in un nucleo familiare di immigrati vi sia un uomo che si arroga ed esercita diritti sostanzialmente proprietari su una donna, soggiogandola ai suoi voleri e riducendola di fatto in uno stato di servitù se non addirittura di schiavitù.
La contestazione più diffusa è ovviamente quella dei maltrattamenti in famiglia, cui secondo le caratteristiche del caso concreto, possono aggiungersi ulteriori contestazioni quali violenza sessuale, sequestro di persona ed altre ancora.
In vicende del genere, la Corte suprema (si veda, tra le altre, la sentenza n. 19674/2014) non ha attribuito alcun rilievo all’appartenenza dell’agente ad una religione, nel caso quella musulmana, che consente l’esercizio di un certo grado di violenza da parte del maschio capofamiglia nei confronti dei familiari.
Ciò perché l’invocazione di tradizioni etiche o sociali o religiose, anche se di indiscusso valore culturale nell’ambito di provenienza, non può elidere l’obbligatorietà della legge penale per tutti coloro che sono soggetti all’ordinamento italiano, soprattutto quando questa tuteli beni di primario rango costituzionale come l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi e la dignità della persona umana.
Il fattore culturale è stato quindi ritenuto inidoneo non solo ad escludere l’elemento soggettivo del reato ma anche a giustificare un trattamento sanzionatorio più mite.
Al tempo stesso, non è stata riconosciuta alcuna idoneità scriminante all’eventuale consenso della parte offesa sul presupposto dell’indisponibilità dei diritti essenziali violati da condotte che offendano quei beni primari.
Principi di uguale tenore sono stati affermati nella sentenza n. 14960/2015 emessa dalla prima sezione penale.
Oggetto del sottostante procedimento era l’accusa, rivolta a un cittadino marocchino, di avere sottoposto a maltrattamenti e a violenze sessuali la moglie costringendola a rapporti sessuali nonostante lo stato di gravidanza avanzato.
L’imputato ha provato a far valere la motivazione culturale, sul presupposto che nel suo ambiente di provenienza la moglie, secondo la comune percezione, è un bene di proprietà del marito ed è dunque completamente soggetta ad ogni sua volontà.
Il collegio di legittimità ha radicalmente respinto questa suggestione osservando che: “in una società multietnica non è concepibile la scomposizione dell’ordinamento in altrettanti statuti individuali quante sono le etnie che la compongono (…) si profila come essenziale per la stessa sopravvivenza della società multietnica l’obbligo giuridico di chiunque vi si inserisce di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina, non essendo di conseguenza riconoscibile una posizione di buona fede in chi (…) presume di avere il diritto – non riconosciuto da alcuna norma di diritto internazionale – di proseguire in condotte che, seppure ritenute culturalmente accettabili e quindi lecite secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, risultano oggettivamente incompatibili con le regole proprie della compagine sociale in cui ha scelto di vivere”.
Parole chiarissime e, si aggiunge, perfettamente condivisibili.
Merita di essere segnalata anche la sentenza n. 49569 del 18.6.2014 pronunciata in un procedimento in cui una donna di nazionalità marocchina aveva ucciso un uomo che si era rifiutato di sposarla dopo una lunga relazione affettiva.
La questione di maggiore interesse era se il danno irreparabile che la vittima aveva arrecato all’onore dell’imputata (alla quale, secondo i valori culturali di provenienza, era irreversibilmente precluso di sposarsi con altri uomini) potesse essere ricondotto nella sfera della provocazione e giustificare quindi la diminuzione della pena.
La Cassazione ha scartato questa prospettiva, osservando che l’attenuante in esame richiede l’esistenza di un’ingiustizia obiettiva da intendersi come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali valide per l’intera collettività cui si applica un determinato ordinamento in un determinato periodo storico.
È degno di interesse anche il cosiddetto caso del kirpan.
Anni addietro un cittadino indiano residente in Italia è stato controllato dalle forze dell’ordine mentre si trovava in un luogo pubblico e trovato in possesso di un coltello lungo quasi 20 centimetri.
Gli è stato quindi contestato il reato di porto ingiustificato fuori della sua abitazione di uno strumento atto ad offendere, previsto dall’art. 4 della legge 110/1975.
Nel conseguente giudizio di merito l’accusato si è difeso sostenendo di essere un seguace della religione sikh e di avere per ciò stesso l’obbligo di portare sempre con sé il pugnale curvo denominato kirpan che costituisce uno dei simboli del sikhismo.
Il tribunale competente non ha attribuito rilievo alla versione difensiva e ha emesso sentenza di condanna.
L’interessato ha fatto ricorso per cassazione.
La prima sezione penale della Corte suprema si è pronunciata con la sentenza n. 24084 del 15.5.2017, rigettando l’impugnazione.
Nell’opinione dei giudici di legittimità la derivazione religiosa del porto del kirpan non può fungere da giustificato motivo che scrimini la condotta incriminata.
Ciò perché l’architettura pluralista della nostra Costituzione incontra un limite ineludibile nel “rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante”.
In altre parole, la doverosa accoglienza dell’immigrato richiede che costui conformi “i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina”.
Difatti, “La decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante. La società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali configgenti, a seconda delle etnie che la compongono, ostandovi l’unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e, a tal fine, pone il divieto del porto di armi e di oggetti atti ad offendere”.
Non può neanche essere invocato l’art. 19 Cost. poiché la libertà religiosa, lungi dall’essere assoluta, è sottoposta, come osservato dalla Consulta nella sentenza 63/2016, ai limiti necessari alla salvaguardia dell’ordine pubblico, della sicurezza e della pacifica convivenza.
Lo stesso vale per l’art. 9 CEDU che consente le restrizioni a tale libertà necessarie in una società democratica per la protezione dell’ordine pubblico e dei diritti e delle libertà altrui.
Tanto ciò è vero – sottolinea l’estensore – che nella causa Eweida e altri c/o Regno Unito del 15 gennaio 2013 la Corte di Strasburgo ha sottolineato che nell’ambiente di lavoro dei ricorrenti taluni dipendenti di religione sikh avevano accettato di non indossare turbanti e kirpan.
Nessun credo religioso, in conclusione, può essere assunto come base legittimante per il porto in luogo pubblico di armi o oggetti atti a offendere.
…La giurisprudenza civile
Anche la giurisprudenza civile di legittimità è chiamata sempre più intensamente a fronteggiare il fenomeno del multiculturalismo.
Il laboratorio civile è di sicuro interesse per comprendere i trend giurisprudenziali, forse anche più di quello penale, per la maggiore duttilità del suo oggetto e per una più spiccata propensione al confronto con i nuovi fermenti sociali.
Merita di essere citata a tal fine la sentenza n. 26204/2013 della Cassazione civile che ha annullato la dichiarazione di adottabilità di una minore figlia di una donna di nazionalità keniota.
L’adottabilità era stata disposta in conseguenza della volontà materna di rimpatriare la minore nel Paese d’origine per affidarla alle cure di uno zio in applicazione del concetto di famiglia allargata ivi largamente praticato.
Il giudice di merito aveva considerato svantaggioso per la minore un simile destino, sul presupposto che uno stile occidentale di vita le assicurasse maggiore chances rispetto a quello keniota.
La Suprema Corte ha osservato per contro che quel criterio si traduceva in un indebito favore per un’opzione culturale rispetto ad un’altra, per di più a discapito dell’identità culturale della minore e del suo nucleo familiare di appartenenza.
Uguale apertura è stata manifestata, con più decisioni anche a Sezioni unite, a favore del riconoscimento dell’istituto islamico della kafalah, una sorta di affido familiare congegnato per superare la proibizione coranica dell’adozione.
È stato in sostanza consentito il nulla osta all’ingresso nel territorio nazionale per ricongiunzione familiare di minori extracomunitari affidati a cittadini italiani mediante kafalah sia pubblicistica che convenzionale.
…La giurisprudenza amministrativa
Anche i giudici amministrativi hanno avuto l’occasione di concorrere al formante giurisprudenziale nella materia del culturalismo.
Si riporta, una tra tutte, la pronuncia n. 2224/2013 con cui il Consiglio di Stato ha espresso il suo parere a seguito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica promosso dal legale rappresentante dell’Associazione Sikhismo Religione Italia avverso un provvedimento della Direzione centrale degli Affari dei Culti – articolazione del Ministero dell’Interno – che negava a tale associazione il riconoscimento della personalità giuridica di ente di culto.
Il giudice amministrativo si è espresso nel senso dell’infondatezza del ricorso.
Ha infatti riconosciuto la correttezza delle ragioni del rigetto, fondate sull’insanabile conflitto tra taluni precetti essenziali del sikhismo – tra questi in particolare l’obbligo del porto del kirpan e il divieto del divorzio limitato alle donne – e taluni principi fondamentali dell’ordinamento nazionale tra i quali spiccano il principio costituzionale di uguaglianza formale e la tutela della sicurezza pubblica e dell’incolumità dei consociati.
Conclusioni
Il tema del multiculturalismo è di rilievo centrale nelle dinamiche delle società contemporanee.
Mette alla prova la tenuta del modello sociale disegnato dalla nostra Carta fondamentale che ha immaginato una comunità aperta e ospitale ma, al tempo stesso, esige che nessun modello si imponga come esclusivo o attenti al cosiddetto nucleo duro di valori nei quali l’Italia si riconosce.
Il legislatore e il giudice hanno un ruolo primario nel governo dei fenomeni originati dagli incessanti flussi migratori la cui prima ondata si scarica inevitabilmente sulle nostre sponde.
Sono movimenti epocali e nient’affatto episodici che hanno già prodotto lo stanziamento e il radicamento in molte parti del territorio nazionale di importanti comunità che portano con sé i loro valori di riferimento e chiedono di poterli professare.
Non esistono al riguardo né ricette valide universalmente né parole d’ordine obbligate.
Le soluzioni più corrette e concilianti vanno cercate caso per caso e richiedono comunque una conoscenza profonda dell’altro da sé.
Chi fa le leggi, chi le applica, chi vive accanto a esseri umani provenienti da altri mondi e culture ha il dovere di diventare antropologo e dunque di predisporsi ed appassionarsi alla conoscenza di ciò che gli è ignoto per potervi trovare ragioni di incontro più che di scontro e regole comuni che possano essere più agevolmente condivise.
È l’unica strada, altre non ce ne sono o sono solo illusorie.
Nel frattempo, comunque, i nostri giudici mostrano – e questo rassicura – di avere avvertito l’importanza del tema e la necessità di affrontarlo con una consapevolezza che deve essere estesa fino ai valori più essenziali del nostro sistema giuridico e alle ulteriori prospettive ricavabili dagli ordinamenti sovranazionali.
