Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 21834/2025, 10 aprile/10 giugno 2025, ha ritenuto legittimo il diniego di acquisto di farina ad un detenuto sottoposto al regime disciplinato dall’art. 41-bis, Ord, Pen., a causa delle potenzialità esplosiva di tale materia prima.
Provvedimento impugnato
Con ordinanza emessa in data 29 novembre 2024 il Tribunale di sorveglianza, accogliendo il reclamo proposto dal detenuto AA, sottoposto al regime penitenziario differenziato, contro un’ordinanza emessa dal magistrato di sorveglianza, ha disapplicato il provvedimento con cui il DAP aveva vietato al medesimo l’acquisto, in sopravvitto, di farina e lievito.
Il Tribunale ha affermato che le pronunce della Corte di cassazione che hanno annullato varie ordinanze di analogo contenuto, emesse da quel medesimo Tribunale, non sono convincenti. Premessa la correttezza della qualificazione del reclamo ai sensi dell’art. 35-bis Ord. pen., in quanto attinente al diritto del detenuto ad un’alimentazione sana, ha ritenuto irragionevole il divieto di acquistare farina e lievito, vigente solo in alcuni istituti penitenziari, perché di fatto immotivato.
Ha ritenuto, infatti, che non siano state prospettate delle effettive ragioni di sicurezza, dovute alla asserita potenzialità esplosiva della farina, sia perché non è stato chiarito con quali agevoli modalità i detenuti potrebbero innescare un incendio una volta verificatasi la nube, avendo il Nucleo Artificieri del Comando provinciale dei Carabinieri escluso che sussista un reale rischio esplosivo della farina, stanti i prodotti e le attrezzature necessarie per farla esplodere, sia infine perché tale acquisto è consentito in altri istituti penitenziari ed è consentito, contraddittoriamente, l’acquisto di prodotti alimentari più idonei alla produzione di incendi, come l’olio.
Ricorso per cassazione
Avverso l’ordinanza hanno proposto ricorso la Casa circondariale, il DAP e il Ministero della Giustizia, per mezzo dell’Avvocatura distrettuale dello Stato, articolando tre motivi.
Con il primo motivo il ricorso deduce il vizio di potere del magistrato di sorveglianza, mancando i presupposti per qualificare il ricorso del detenuto come reclamo ai sensi dell’art. 35-bis Ord. pen. Il detenuto non ha fatto valere una lesione grave e attuale ad un diritto soggettivo, non essendo in discussione il suo diritto alla salute o ad una alimentazione sana, ed in realtà egli ha contestato solo un aspetto regolamentare dell’amministrazione carceraria.
Con il secondo motivo, il ricorso deduce la falsa applicazione del principio di non discriminazione. Il divieto in questione è applicato anche ai detenuti comuni, per cui non può essere ritenuto illegittimo, trattandosi dell’espressione della potestà regolatoria dell’amministrazione.
Con il terzo motivo, il ricorso deduce la violazione dell’art. 41-bis, comma 2 quater, lett. a) e c), Ord. pen. Il Tribunale ha erroneamente escluso che il divieto sia motivato da ragioni di sicurezza. Altri Uffici di sorveglianza hanno confermato tale divieto, per la pericolosità della farina, che è in grado di esplodere, oltre a poter essere usata per formare una colla, e che può essere facilmente incendiata, atteso che ai detenuti è stato consentito l’acquisto di accendini. Inoltre, il prodotto che deve essere combinato con la farina, per renderla esplosiva, è la normale acqua ossigenata, ed è errato il paragone con l’olio, il cui acquisto è consentito perché esso, diversamente dalla farina, è indispensabile per cucinare. Lo stesso Ufficio di sorveglianza, in precedenza, ha solitamente rigettato ricorsi analoghi.
Decisione della Suprema Corte
Il ricorso è fondato, nei limiti sotto precisati, e deve essere accolto.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
Non vi è dubbio che il reclamo giurisdizionale previsto dall’art. 35-bis Ord. pen. sia esperibile solo in caso di violazione di un diritto soggettivo, che il detenuto sostenga essere pregiudicato in modo attuale e grave dal provvedimento dell’amministrazione penitenziaria.
La tutela accordabile tramite lo strumento del reclamo giurisdizionale richiede, pertanto, sia l’accertamento dell’esistenza di un diritto, cioè di un interesse che inerisce a beni essenziali della persona e che rappresentano la proiezione di diritti fondamentali dell’individuo, la cui individuazione, peraltro, rimane affidata alla concretizzazione giurisprudenziale, sia l’esistenza di un pregiudizio concreto, attuale e grave, non essendo tutelabili le imposizioni di restrizioni ragionevoli, giustificate da esigenze di sicurezza o di organizzazione interna, e non gravemente limitative della possibilità di godimento del diritto stesso.
Sotto il profilo dell’accertamento dell’esistenza di un diritto soggettivo, potenzialmente violato dal divieto di acquisto di generi alimentari in sopravvitto, deve darsi seguito all’indirizzo di questa Corte, sia pure non univoco, che ritiene che tale acquisto sia espressione del diritto soggettivo alla salute e ad una sana alimentazione, sicuramente tutelabile mediante il reclamo giurisdizionale previsto dall’art. 35-bis Ord. pen.
La possibilità di acquistare, in sopravvitto, alimenti particolari, specialmente se non forniti dall’amministrazione, può infatti, in astratto, soddisfare le esigenze del detenuto ad un’alimentazione calibrata sulle proprie necessità, ed è quindi riconducibile alla sfera del diritto alla salute.
Deve, pertanto, essere respinta la censura, contenuta in questo primo motivo di ricorso, della carenza di potere del giudice di sorveglianza, essendo stato correttamente azionato l’istituto del reclamo di cui all’art. 35-bis Ord. pen.
Sono fondati, invece, gli altri motivi del ricorso.
Il reclamo giurisdizionale è posto a tutela del detenuto contro la violazione di un diritto soggettivo, che sia però “attuale e grave” (art. 69, comma 6, lett. b, Ord. pen.).
La condizione detentiva, infatti, impone l’applicazione di limitazioni, anche significative, all’esercizio dei diritti del detenuto, qualora necessarie per soddisfare le esigenze di sicurezza, che vengono assicurate anche attraverso l’organizzazione della vita interna dell’istituto penitenziario, da cui dipendono sia la sicurezza dei detenuti e del personale operante, sia la stessa efficacia del trattamento rieducativo.
L’esercizio della potestà limitativa dei diritti del detenuto, da parte dell’amministrazione penitenziaria, deve però sempre rispettare i criteri della ragionevolezza e della finalità di assicurare l’ordine e la sicurezza. I limiti imposti, pertanto, devono sempre essere ragionevoli e proporzionati.
La Suprema Corte ha più volte affermato, infatti, che un limite irragionevole, risolvendosi in un supplemento di ingiustificata afflittività, è in contrasto con il principio del senso di umanità, che deve sempre ispirare il concreto svolgimento dell’esecuzione della pena (vedi, tra le molte, Sez. 1, n. 17489 del 29/03/2024, Rv. 286328).
Ha anche affermato, però, che “In tema di ordinamento penitenziario, l’inerenza ad un diritto soggettivo della situazione oggetto del reclamo presentato dal detenuto ex art. 35-bis legge 26 luglio 1975, n. 354 non viene meno nel caso in cui siano riconosciuti all’amministrazione penitenziaria poteri conformativi delle modalità di esercizio di quel diritto, sicché in casi del genere la valutazione giudiziale deve investire la ragionevolezza dei limiti alla fruizione del diritto imposti dagli atti regolativi dell’amministrazione, e l’idoneità degli stessi ad incidere sugli aspetti essenziali del diritto, svuotandone il contenuto fondamentale” (Sez. 1, n. 32394 del 11/04/2024, Rv. 286716).
La valutazione della gravità della lesione di un diritto soggettivo del detenuto, quindi, deve essere effettuata tenendo conto sia della ragionevolezza del limite posto alla fruizione del diritto stesso, sia della concreta capacità di tale limite di incidere sul suo godimento.
Deve perciò essere ritenuto ragionevole un limite che, oltre ad essere necessario o almeno opportuno per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza interni, impedisca solo modalità non essenziali dell’esercizio del diritto stesso, il quale deve rimanere esercitabile nel suo contenuto fondamentale, affinché possa valutarsi come non grave il pregiudizio ad esso arrecato.
Nel presente caso, il divieto di acquisto di farina e lievito è stato imposto, dall’amministrazione del carcere, per motivi di sicurezza, stante l’esplosività della farina.
L’affermazione dell’ordinanza impugnata, che tale motivazione sia infondata stante il diverso parere espresso dal Nucleo artificieri dei Carabinieri sulla esplosività di tale prodotto, non è corretta.
L’esplosività della farina, sia pure in presenza di specifiche condizioni, è scientificamente accertata, ed il fatto che tali condizioni siano difficilmente riproducibili all’interno di un carcere è irrilevante, essendo nella potestà dell’amministrazione penitenziaria evitare pericoli anche solo potenziali, rispetto ai quali è corretto applicare una tutela anche molto anticipata. Il divieto imposto, pertanto, non è in sé irragionevole, e soddisfa effettivamente esigenze di sicurezza interna.
Il fatto che tale divieto non sia applicato in altri istituti penitenziari è irrilevante, e non è sufficiente per ritenere irragionevole quello stabilito nell’istituto in questione.
In primo luogo, non è irragionevole una diversa valutazione delle esigenze di sicurezza, che sono oggettivamente diverse tra i vari istituti penitenziari, in ragione della loro collocazione geografica, della loro struttura, delle caratteristiche dei detenuti ospitati.
In secondo luogo, non può ritenersi irragionevole un diverso accesso agli alimenti acquistabili in sopravvitto, stabilito nei diversi istituti penitenziari, non avendo l’amministrazione centrale ritenuto di prevedere una uniformità sul piano nazionale, ed essendo plausibile, in generale, una diversa accessibilità ai prodotti esterni, potendo questi avere caratteristiche che li rendono difficilmente reperibili al di fuori di singole zone.
Il divieto imposto, inoltre, non costituisce un limite significativo al godimento del diritto alla salute e ad una sana alimentazione, e non ha un carattere afflittivo. L’assunzione dei cibi a base di farina e farinacei tipici dell’alimentazione italiana, come il pane e la pasta, è assicurata dalla fornitura prevista dal vitto distribuito dall’amministrazione, conforme alle tabelle nutrizionali ministeriali e tale da garantire una dieta completa ed equilibrata. Il divieto di acquisto di farina e lievito, pertanto, non incide sul diritto alla salute del detenuto, essendogli comunque assicurata l’assunzione di tali alimenti, ed in particolare dei farinacei, mediante prodotti realizzati con un rispetto dell’igiene sicuramente superiore a quanto presumibilmente ottenibile all’interno di una cella. L’assenza di un divieto per l’acquisto di olio alimentare, benché anch’esso idoneo alla produzione di incendi, dimostra la correttezza della valutazione circa la mancanza di gravità del divieto imposto all’acquisto di farina e lievito, risultando evidente come il divieto di acquisto di olio inciderebbe fortemente sulla possibilità di cucinare molti alimenti, diversamente dal divieto di acquisto degli altri prodotti indicati.
L’ordinanza impugnata non ha valutato la gravità della lesione asseritamente apportata al diritto alla salute e ad una sana alimentazione, mentre l’art. 69, comma 6, lett. b), Ord. pen., come già ricordato, consente l’accoglimento del reclamo solo in presenza di un pregiudizio “grave”.
L’assenza di una gravità del pregiudizio, conseguente all’imposizione del divieto in questione, rendeva non accoglibile il reclamo proposto dal detenuto avverso la decisione del magistrato di sorveglianza, che aveva ritenuto legittimo il provvedimento dell’amministrazione penitenziaria, perché manca uno dei presupposti richiesti per l’accoglimento del reclamo giurisdizionale di cui all’art. 35-bis Ord. pen.
In assenza dei presupposti legittimanti l’accoglimento di tale reclamo, infatti, la disapplicazione della disposizione del carcere, da parte del Tribunale di sorveglianza, si traduce nell’imposizione di una diversa scelta organizzativa, benché quella disapplicata non sia irragionevole né gravemente riduttiva dei diritti del detenuto, mentre le scelte organizzative sono riservate alla direzione del singolo istituto penitenziario.
Per le ragioni esposte, il ricorso deve perciò essere accolto, ed il provvedimento impugnato deve essere annullato, senza rinvio.
Brevi note di commento
Giungendomi nuova e sorprendente la capacità esplosiva della farina, mi sono documentato e l’ho fatto consultando il sito Barreantistatiche.it (a questo link).
Mi limito a riportare il paragrafo iniziale dell’articolo:
“Sapevi che la farina è altamente esplosiva? Sì, la polvere che usiamo in cucina, quando viene lavorata, può innescare incendi ed esplosioni. Gli incendi e le esplosioni nella lavorazione delle polveri, infatti, sono eventi che non riguardano solo chi utilizza i prodotti chimici, ma anche le aziende che producono alimenti, in particolare quelle che lavorano prodotti in polvere, come farine, cereali e zucchero”.
Chi volesse altri dettagli può proseguire la lettura e troverà tutto quello che gli serve.
Dice il vero, allora, il Nucleo Artificieri dei Carabinieri quando attesta questa inaspettata caratteristica dell’apparentemente innocua farina.
Restano però alcune considerazioni.
La prima è che tra i materiali consentiti in carcere rientrano altre sostanze alimentari capaci di innescare eventi pericolosi, in quanto possiedono le caratteristiche per rientrare nel pentagono dell’esplosione (vedi articolo), e tra queste anche l’innocente zucchero.
Lo stesso, in termini di pericolosità, vale per l’olio (cui accenna la decisione annotata), che può sicuramente innescare un incendio.
Ancora più rischio si può collegare al fornelletto a gas che è consentito detenere ai carcerati perché possano cuocere o riscaldare cibi.
E allora che si fa? Gli si toglie tutto “essendo nella potestà dell’amministrazione penitenziaria evitare pericoli anche solo potenziali, rispetto ai quali è corretto applicare una tutela anche molto anticipata”?
La seconda: anche il Nucleo Artificieri sembra avere attestato che in una cella carceraria il pericolo di confezionare ordigni esplosivi è quantomai remoto, occorrendo il concorso di condizioni difficilmente riproducibili in quel tipo di ambiente.
La terza: il divieto di acquisto della farina non è frutto di una disposizione universale, essendo lasciato alla discrezione delle direzioni degli istituti penitenziari. Suona già male in sé questa possibilità di disparità di trattamento ma suona anche peggio se la decisione è assunta in nome di specifiche esigenze di sicurezza di cui si ignora tutto.
La quarta: come siamo messi dal punto di vista della statistica? E’ mai successo che un detenuto abbia fatto esplodere la farina? Non ho trovato alcun precedente ma se qualcuno ne fosse a conoscenza, lo faccia sapere e, almeno per questo aspetto, rettificherò la mia opinione.
Di che parliamo allora? Di corretto ed equilibrato governo delle carceri e della disciplina necessaria per mantenere l’ordine senza privare i detenuti al 41-bis anche dei conforti minimi perché la loro si possa ancora chiamare vita o di volontà di potenza dell’apparato carcerario che appaghi l’intima gioia che qualcuno prova ogni volta che si toglie il respiro ai carcerati?
