Nel cuore del carcere di Opera, struttura di massima sicurezza nel Milanese, si consuma una storia che va oltre le cronache giudiziarie e politiche, per raccontare un’intensa vicenda umana. Protagonisti sono due detenuti: Antonio D’Alì, ex senatore di lungo corso condannato a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa, e Bennardo Bommarito, boss detenuto da oltre trent’anni, oggi cieco e costretto a una vita su sedia a rotelle.
Bennardo Bommarito è un uomo segnato dal tempo e dalla detenzione prolungata. Oggi non vede più: la cecità è diventata per lui una condanna ulteriore, che si aggiunge a una serie di problemi fisici e motori che lo costringono su una sedia a rotelle. Il suo corpo fragile racconta la fatica di chi ha trascorso decenni dietro le sbarre senza mai vedere una prospettiva di redenzione o uscita.
La sua condizione è stata portata alla luce da un’inchiesta giornalistica, che ha acceso i riflettori su una situazione di estrema vulnerabilità e sull’assenza di adeguati strumenti di assistenza sanitaria all’interno delle carceri italiane.
Dall’altra parte, Antonio D’Alì è uno degli ex parlamentari più discussi della politica italiana degli ultimi vent’anni, condannato per aver favorito con il suo ruolo istituzionale gli interessi di Cosa Nostra. Dopo l’esecuzione della sentenza definitiva, si è presentato spontaneamente al carcere di Opera per scontare la pena. Qui ha incontrato Bommarito e ha deciso di farsi carico di lui, diventandone non solo compagno di cella ma anche una sorta di badante.
Nel racconto di chi li ha osservati, D’Alì aiuta Bommarito in ogni necessità: lo lava, lo veste, lo sposta in sedia a rotelle, lo accompagna all’aria aperta per qualche ora al giorno, e gli offre un conforto umano che va oltre ogni condanna penale. In un ambiente segnato da diffidenza e isolamento, questo gesto di cura si traduce in una rara manifestazione di solidarietà autentica.
Nel penitenziario di Opera, dove le spesse mura sembrano inghiottire ogni barlume di libertà, si disvela una verità austera e ineludibile: “in cella uno vale uno”.
Qui, dissolte le vesti del potere e dell’appartenenza sociale, restano soltanto le anime degli uomini, immerse nella loro più nuda e indifesa condizione.
Antonio D’Alì, ex senatore e uomo che ha calcato le scene del potere istituzionale, oggi detentore di una pena irrevocabile, si erge a custode e conforto per Bennardo Bommarito, un boss ridotto a un simulacro di sé, privo della vista e confinato su una sedia a rotelle.
Nella loro comune prigionia, l’arroganza dei trascorsi si dissolve, cedendo il passo a un vincolo di premura, rispetto e solidarietà umana.
D’Alì, più che un compagno di cella, diventa una presenza protettiva, un faro nella desolazione della detenzione. Lo assiste con cura scrupolosa, accompagnandolo nelle necessità quotidiane, infondendo nel grigiore della prigionia un barlume di umana compassione. In quel microcosmo di dolore e rassegnazione, la legge dell’uguaglianza non è un mero postulato, ma una realtà tangibile: l’uomo è misurato non dai titoli che un tempo ha posseduto, bensì dalla nobiltà d’animo che riesce a esprimere.
Questa vicenda, occultata agli occhi del mondo esterno, risuona come un’eloquente testimonianza: la dignità umana non si esaurisce tra le sbarre più spesse e la pietà può germogliare laddove meno ci si aspetterebbe.
Questa storia pone una domanda difficile ma essenziale: cosa significa giustizia? È possibile considerare giusta una pena che non tiene conto della fragilità umana, della sofferenza e del bisogno di assistenza?
Il legame tra D’Alì e Bommarito, due uomini con un passato segnato da scelte controverse e condanne severe, sembra dare una risposta: anche dietro le sbarre può nascere una solidarietà capace di restituire dignità e umanità. Nonostante le ferite inflitte dalla vita e dal sistema, il gesto di cura e compagnia diventa un atto di riscatto personale e sociale.
Il caso Bommarito mette anche in evidenza i limiti del sistema penitenziario, che spesso fatica a garantire adeguate condizioni di detenzione per i malati cronici, gli anziani e i disabili. Le strutture carcerarie, nate per contenere e punire, si trovano impreparate di fronte a una popolazione carceraria sempre più anziana e bisognosa di cure specialistiche.
In questo contesto, figure come Antonio D’Alì assumono un ruolo inatteso, quasi di mediatore umano, colmando vuoti istituzionali e umani. Ma la loro presenza, per quanto significativa, non può sostituire un sistema capace di rispondere con umanità alle esigenze di salute e cura.
Questa vicenda nascosta ci ricorda che, anche dove tutto sembra perduto, la forza dell’umanità può emergere e illuminare le tenebre più fitte.

Mi chiedo perchè ora e non prima sperimentare l’empatia, la vicinanza, la solidarietà. Perchè entrambi condividono la stessa tragedia: privati della libertà e non solo? Le nostre carceri fanno vivere gli essere umani e chi si occup della loro sicurezza in una condizione disumana, il sovrafollamento, la mancanza di spazi, di igiene, di cure adeguate, di operatori preparati dentro e fuori le mura finiscono per rendere la pena carceraria un non senso, fine a se stessa. I detenuti sono Sisifo che giungono alla sera dopo aver portato la pietra alla cima della montagna e vederla ruzzolare l’indomani. Il sentirsi inutili, non avere prospettative, non visti annichilisce e rende ciechi anche chi ancora vede.
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