“Non poteva non sapere”: una frase che, in questa formulazione letterale o nei suoi equivalenti più “fair” ma non meno conflittuali col ragionevole dubbio, si è sentita e si sente una quantità di volte nelle aule giudiziarie o nei loro simulacri da remoto, e si è letta e si legge altrettante volte nelle decisioni di merito e di legittimità.
Nella vicenda di cui si parla in questo post si legge invece, ed è una notizia nella notizia, che un indagato può non sapere (non sono esattamente le parole utilizzate ma il senso è questo), anche quando, ed è la suprema notizia, rivesta una posizione apicale che implichi funzionalmente la conoscenza integrale dei dossier di importanza nazionale.
L’archiviazione
L’Onorevole Giorgia Meloni, nella qualità di Presidente del Consiglio dei Ministri, è stata indagata per i reati di peculato e favoreggiamento sulla base di una denuncia presentata dall’Avvocato Luigi Li Gotti presso la Procura della Repubblica di Roma.
Come è noto, il capo di tale Procura ha trasmesso tempestivamente gli atti al Collegio dei reati ministeriali (meglio noto come Tribunale dei Ministri) del Tribunale di Roma (a questo link per un nostro resoconto).
È seguito un dibattito infinito su tale trasmissione e sulla sua qualificazione come atto dovuto o non dovuto (a questo link per un approfondimento).
A distanza di mesi, ed essendo stato abbondantemente superato il termine ordinario di novanta giorni concesso al collegio per la conclusione delle indagini, che può comunque essere raddoppiato allorché il Procuratore della Repubblica chieda il compimento di ulteriori atti istruttori, si apprende che la posizione della Presidente del Consiglio è stata archiviata.
Così ne parla l’agenzia AdnKronos (a questo link):
“Il Tribunale dei ministri ha quindi disposto l’archiviazione per Meloni ritenendo “che gli elementi indiziari non siano dotati di gravità, precisione e concordanza tali da consentire di affermare in che termini e quando la presidente del Consiglio sia stata preventivamente informata e abbia condiviso la decisione assunta in seno alle riunioni, rafforzando con tale adesione il programma criminoso” e “che gli elementi acquisiti nel corso delle indagini non consentano di formulare una ragionevole previsione di condanna, limitatamente alla posizione della sola presidente del consiglio Giorgia Meloni”, tanto per il reato di favoreggiamento che per quello di peculato”.
E questa è la ricostruzione di SkyTg24 (a questo link):
“Gli elementi acquisiti nel corso delle indagini non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna, limitatamente alla posizione della sola Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, tanto per il reato” di peculato quanto per quello di favoreggiamento. Dunque la premier era informata, ma non esistono prove di una sua “reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato (…) con le attività poste in essere dagli altri concorrenti”.
In sintesi: la premier poteva non sapere o, forse meglio, poteva non sapere tutto quello che era necessario sapesse per trasformarsi in una concorrente.
Le dichiarazioni della Presidente del Consiglio
Nella tarda serata di ieri, 4 agosto 2025, l’Onorevole Meloni ha diffuso un comunicato sulla sua pagina Facebook.
Questo è il contenuto integrale:
“Oggi mi è stato notificato il provvedimento dal Tribunale dei ministri per il caso Almasri: dopo oltre sei mesi dal suo avvio, rispetto ai tre mesi previsti dalla legge, e dopo ingiustificabili fughe di notizie.
I giudici hanno archiviato la mia sola posizione, mentre dal decreto desumo che verrà chiesta l’autorizzazione a procedere nei confronti dei Ministri Piantedosi e Nordio e del Sottosegretario Mantovano. Nel decreto si sostiene che io “non sia stata preventivamente informata e (non) abbia condiviso la decisione assunta”: e in tal modo non avrei rafforzato “il programma criminoso”.
Si sostiene pertanto che due autorevoli Ministri e il sottosegretario da me delegato all’intelligence abbiano agito su una vicenda così seria senza aver condiviso con me le decisioni assunte. È una tesi palesemente assurda.
A differenza di qualche mio predecessore, che ha preso le distanze da un suo ministro in situazioni similari, rivendico che questo Governo agisce in modo coeso sotto la mia guida: ogni scelta, soprattutto così importante, è concordata. È quindi assurdo chiedere che vadano a giudizio Piantedosi, Nordio e Mantovano, e non anche io, prima di loro.
Nel merito ribadisco la correttezza dell’operato dell’intero Esecutivo, che ha avuto come sola bussola la tutela della sicurezza degli italiani. L’ho detto pubblicamente subito dopo aver avuto notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati, e lo ribadirò in Parlamento, sedendomi accanto a Piantedosi, Nordio e Mantovano al momento del voto sull’autorizzazione a procedere.”
Note di commento
Una premessa è d’obbligo: in via astratta, un’archiviazione fondata sul convincimento che l’indagato “può non sapere” deve essere considerata con favore, in quanto applicazione apprezzabilmente anticipata del principio della necessità dell’oltre ogni ragionevole dubbio quale presupposto ineludibile di un’affermazione di responsabilità penale.
E tuttavia, ciò che la motiva nel caso di specie è piuttosto opinabile in punto di fatto.
Si è visto che la premier ha bollato di assurdità la narrazione che la vedrebbe all’oscuro delle attività dei Ministri ai vertici dei dicasteri dell’Interno (Matteo Piantedosi) e della Giustizia (Carlo Nordio) e del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio con delega all’intelligence (Alfredo Mantovano).
Ha fatto anche di più: ha rivendicato di avere avuto piena conoscenza di quelle attività, ognuna delle quali è stata preventivamente concordata e da lei condivisa.
Ed ha aggiunto una notazione ovvia: la vicenda Almasri aveva delicatissimi riflessi nella materia della sicurezza nazionale.
Una novità post archiviazione? Niente affatto.
Dichiarazioni simili e di analoga chiarezza la Presidente Meloni aveva reso già all’inizio dell’anno, in una conferenza stampa del 25 gennaio 2025, pochi giorni dopo la liberazione di Almasri, nel corso di una visita a Gedda (Arabia Saudita).
Nell’occasione (qui il link al video su Youtube, dal minuto 4.15 circa) la premier ha affermato con chiarezza che il rimpatrio del cittadino libico, dopo la sua liberazione ad opera della Corte di appello di Roma, è stato eseguito con un volo di Stato per ragioni di sicurezza, conformemente ad una prassi sempre seguita per vicende analoghe.
Giorgia Meloni rivendica dunque, oggi come sei mesi fa, di essere stata al centro della decisione di rimpatriare Almasri.
Si potrebbe, e forse dovrebbe, tentare di comprendere se le puntigliose rivendicazioni della premier comprendano implicitamente ulteriori motivazioni di interesse nazionale cui dare il nome di ragion di Stato ma come ognuno sa questo è un concetto sdrucciolevole che ricorda l’Araba Fenice e i versi di Metastasio: “che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”.
Se questa è, complessivamente, la situazione di fatto, non è dato comprendere come sia stato possibile differenziare la posizione della premier rispetto a quella dei suoi coindagati.
Resta da chiedersi quali riflessi potrebbe generare l’archiviazione sull’ulteriore corso del procedimento ed in attesa che le Camere parlamentari si pronuncino sull’autorizzazione a procedere, peraltro quantomai improbabile.
Interessano in particolare le conseguenze – solo ipotetiche – sul piano della linea difensiva.
Come dovrebbero difendersi Ministri accusati di condotte di reato in relazione a vicende di palese centralità per la politica estera del Paese e chiaramente ascrivibili alla sicurezza nazionale, una volta che sia stato escluso il concorso del Capo del Governo?
Dovrebbero ugualmente chiamarlo in causa per dimostrare la collegialità delle decisioni e, ciò che più conta, rafforzare l’idea della loro politicità o dovrebbero invece rinunciare a questa opzione e puntare su una difesa nel merito delle singole questioni?
E cosa succederebbe se la Presidente del Consiglio, convocata in giudizio, confermasse, come prevedibile, quello che ha già detto? Si interromperebbe l’esame e le si darebbero gli avvisi di legge?
E quante opposizioni di segreto di Stato potrebbero spuntare in corso d’opera?
Ed ancora, ma come considerazione finale extra ordinem e pur sottolineando che la giustizia è uguale per tutti, quanto male farebbe un processo del genere al nostro Paese e alla sua reputazione internazionale?
