A Strasburgo
La fonte è l’art. 7 della Convenzione europea dei diritti umani (d’ora in avanti CEDU), rubricato “Nulla poena sine lege”, la cui essenza è il divieto di applicazione retroattiva del reato e della pena.
L’accenno ivi contenuto alla qualificazione del fatto in termini di reato “secondo il diritto interno o internazionale” ha reso palese la sua applicabilità non solo al diritto di origine legislativa ma anche a quello di origine giurisprudenziale il che non sorprende se si considera che le garanzie apprestate dalla CEDU sono state concepite indistintamente per ordinamenti nazionali sia di civil law che di common law.
La centralità del divieto di retroattività sfavorevole è a sua volta spiegabile con la stretta correlazione convenzionale tra le garanzie e gli individui con i loro diritti umani ed è sicuramente un diritto umano quello di poter “pesare” gli effetti dei comportamenti nel momento in cui sono tenuti, senza dover temere che mutamenti successivi rendano illecito ciò che prima era lecito.
La ragionevole prevedibilità diventa così ben presto un corollario essenziale del divieto di irretroattività sfavorevole, ancorché germinata prevalentemente in controversie in cui sono state denunciate violazioni degli artt. 9 e 10 CEDU (rispettivamente libertà di pensiero, di coscienza e di religione e libertà di espressione).
Si pone particolare attenzione alla base legale che, sola, consente limitazioni di tali libertà e alla sua interpretazione che si esige tanto più costante e coerente quanto più lasca e vaga sia la legge.
Si riconosce per ciò stesso l’inesigibilità di un testo legislativo così preciso da escludere qualsivoglia incertezza sul suo significato e, coerentemente, si attribuisce al giudice il ruolo di compartecipe nella definizione di quel significato e alla giurisprudenza il rango di fonte del diritto, con lo specifico compito di applicarlo in modo ragionevolmente prevedibile.
Va da sé che l’equiparazione del legislatore e del giudice quali concorrenti nella produzione del diritto “applicato” ed entrambi custodi e garanti della legalità rende indispensabile che il divieto di retroattività in malam partem e l’obbligo di retroattività in bonam partem conseguano tanto a mutamenti normativi quanto a overruling giurisprudenziali.
In questa complessiva cornice si inseriscono poi ulteriori sentieri il cui effetto è stato di allargare il perimetro della ragionevole prevedibilità.
È senz’altro tale quello che va in direzione della tipicità ed è agevole riconoscere il suo manifestarsi nel caso Contrada c. Italia, così noto e commentato da rendere inutile la sua riassunzione.
Basti qui dire che nell’occasione la Corte EDU precisò che il proprio compito era di stabilire se la normativa vigente all’epoca dei fatti contestati al Contrada definisse con chiarezza il reato di concorso esterno in associazione mafiosa e se quindi il ricorrente potesse conoscere le conseguenze penali della sua condotta.
La Corte constatò di seguito, confutando sul punto la tesi contraria degli agenti del Governo italiano, che solo a partire dal 5 ottobre 1994, in conseguenza della sentenza Demitry delle Sezioni unite penali della Corte di cassazione, era stata ammessa esplicitamente l’esistenza del reato per il quale il Contrada era stato condannato.
Rilevò di conseguenza che nel periodo in cui il ricorrente aveva tenuto la condotta incriminata (1979/1988) la giurisprudenza nazionale, pur avendo in più occasioni avallato la legittimità di quella fattispecie incriminatrice, non era ancora giunta al riguardo a un indirizzo interpretativo che soddisfacesse gli indispensabili requisiti di chiarezza e prevedibilità del precetto e dei suoi effetti.
La Corte affermò conclusivamente che lo Stato italiano aveva violato in danno di Bruno Contrada l’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
È conseguente ritenere che i giudici europei dei diritti umani affermarono il diritto degli individui a sapere preventivamente ed esattamente la qualificazione giuridica del fatto e la pena ad esso conseguente: la tipicità, e insieme ad essa la legalità formale, entrarono quindi a far parte della prevedibilità.
Merita ugualmente di essere sottolineata, per la sua prossimità a quella appena discussa, la decisione della Corte EDU del 17 settembre 2009 nel caso Scoppola c. Italia.
L’interessato, accusato di reati astrattamente punibili con la pena dell’ergastolo, aveva chiesto e ottenuto di essere giudicato secondo le forme del rito abbreviato in un periodo in cui, ai sensi dell’art. 442, comma 2, c.p.p., questa scelta comportava un’importante premialità: l’ergastolo era sostituito dalla pena di trent’anni di reclusione.
Fu questo in effetti l’esito del primo giudizio che fu definito dal GUP di Roma il 24 novembre 2000.
Tuttavia, il giorno stesso della sentenza di primo grado entrò in vigore il d.l. 341/2000 (successivamente convertito con l. 4/2001) il quale modificò l’art. 442 prevedendo che la pena dell’ergastolo con isolamento diurno fosse sostituita dall’ergastolo semplice nelle ipotesi di concorso di reati o di reato continuato.
La decisione fu pertanto impugnata ad iniziativa della pubblica accusa e il giudice di secondo grado la riformò condannando l’interessato all’ergastolo, pena poi divenuta definitiva in seguito al rigetto del suo ricorso per cassazione.
Lo Scoppola adì la Corte di Strasburgo la quale, con la sentenza citata, attribuì natura di norma penale sostanziale alla disposizione dell’art. 442 con la conseguente applicazione della garanzia prevista dall’ultimo periodo dell’art. 7, comma 1, CEDU, secondo il quale nessuno può essere punito con una pena più grave di quella applicabile al momento della commissione del fatto (o di quella più favorevole introdotta successivamente).
La Corte di cassazione, successivamente adita dall’interessato, accolse il ricorso e rideterminò la pena, ripristinando quella detentiva temporanea.
A conclusione di questa sinteticissima rassegna è senz’altro possibile affermare che il principio di prevedibilità delle decisioni giudiziarie in materia penale implica che siano prevedibili l’illiceità della condotta e degli specifici atti o omissioni richiesti per integrarla, la tipologia di pena applicabile e la sua consistenza quantitativa (e quindi le relative norme e la loro interpretazione, ivi comprese quelle che regolano l’esecuzione penale).
A Roma
Qualche giorno fa abbiamo annotato una decisione della Suprema Corte (a questo link per la consultazione), precisamente Cassazione penale, Sez. 3^, sentenza n. 23110/2025, udienza del 29 aprile 2025, deposito del 20 giugno 2025.
Si rinvia al post per la sua lettura integrale.
Qui basta menzionare un suo specifico passaggio testuale: “Affinché possa invocarsi il principio della irretroattività dell’orientamento del giudice della nomofilachia, in deroga alla natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali, devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto “overruling” comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte”.
La Suprema Corte, che pure si proclama cattedra nomofilattica ed artefice primaria del cosiddetto diritto vivente, in questo caso e in altri simili si auto-degrada, minimizza se stessa e i suoi prodotti riducendoli al rango di enunciati puramente dichiarativi.
In conclusione
A Strasburgo il giudice è visto come comprimario della produzione del diritto, al Palazzaccio si ama presentarlo come semplice megafono della legge e nel frattempo si crea diritto a tutto spiano.
Grande è la confusione sotto il cielo.
