La verticalizzazione
“Chi ghe volta el cü a Milan, ghe volta el cü al pan”: un vecchio modo di dire che, nella sua veracità vernacolare, esprime benissimo l’idea di Milano come città in cui ognuno ha la sua occasione, solo che la sappia sfruttare.
La nostra grande mela, insomma, cuore del sistema industriale e finanziario nazionale, capace di offrire eccellenza nello studio, nella sanità, nella ricerca, nell’innovazione tecnologica, nella moda e molto altro ancora.
Nel corso del tempo questo poderoso insieme di asset ha meritato al capoluogo lombardo vari appellativi iconici: spiccano tra gli altri capitale morale d’Italia (con significato mutevole a seconda del periodo) e Milano da bere (fortunatissimo slogan dell’amaro Ramazzotti, divenuto simbolo dell’edonismo degli anni Ottanta dello scorso secolo).
Ma gli anni passano, la città cambia e nuove definizioni, magari meno universali ma comunque ugualmente espressive, si aggiungono alle vecchie o le sostituiscono.
Si arriva così alla suggestiva Milano verticale che il suo Sindaco, in un’occasione recente, ha spiegato così: “Come possiamo guadagnare più spazio per la socialità, per il verde, per la rivitalizzazione della città se non delegando alla verticalità funzioni dell’abitare?” (a questo link per la consultazione della fonte).
Un problema: la rarefazione dei suoli edificabili.
Un’esigenza: non frenare la tensione milanese ad un’incessante evoluzione cittadina da governare secondo i concetti essenziali di verde, socialità, vitalità, abitabilità.
Una soluzione: Milano deve crescere avendo per tetto il cielo.
L’inchiesta della Procura milanese
Una sequenza causale semplice e chiara ma, spiegato il perché, occorre anche capire il chi e il come.
Conta chi fa cosa, come fa chi è chiamato a fare, chi ci guadagna e chi ci perde.
Sono verosimilmente le stesse domande che si è posta la Procura della Repubblica di Milano aprendo un’indagine le cui attuali proposizioni suonano come gravi censure verso il modello ambrosiano di governo del territorio, sono tradotte in imputazioni provvisorie di notevole gravità e comportano la richiesta di misure cautelari coercitive nei confronti dei soggetti cui è attribuito il ruolo, beninteso interamente da verificare, di protagonisti di quello che, se trovassero conferma le tesi accusatorie, meriterebbe di essere definito come “il sacco di Milano”.
Così ne parla Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera (a questo link per la consultazione dell’articolo, i neretti sono dello stesso giornalista): “Ma il contrasto con la legge dove sta, visto che le carte sono formalmente sempre a posto, tutte le varianti hanno il loro bel timbro, e i progetti ricevono autorizzazioni e pergamene necessarie? Sta – per i pm alla luce anche del Rapporto del governo Monti sulla corruzione del 2013, delle indicazioni dell’Anac, e delle sentenze del Consiglio di Stato – nella sproporzione tra l’interesse pubblico, che pure può ammantare la variante, e il vantaggio economico riconosciuto al privato da accordi con il Comune «spesso non dichiarati» su «varianti, densificazioni, premi di cubatura, compensazioni, diritti edificatori, accordi di programma, demolizioni virtuali», «costruzioni nuove» contrabbandate per «ristrutturazioni», «deroghe alle norme morfologiche», «cortili» ridefiniti «spazi interni residuali», o nozioni di «viale» mutate in quella di «piazza attraversante» in nome del «riscatto urbano […]i pm ricordano «quanto segnalato dalla relazione del governo Monti» sullo «scambio tra conseguimento di rendite finanziarie derivanti dall’utilizzazione del territorio e realizzazione (a carico dei privati) delle opere pubbliche»: e, in questa chiave, indicano che «come opera pubblica la controparte» privata, «in cambio delle volumetrie e del titolo edilizio che consentiva lo sfruttamento del territorio, si impegnava» con il Comune «a realizzare un’opera di risanamento e potenziamento del servizio ferroviario urbano». Obiettivo più che meritevole, e quindi è perfettamente normale che l’opera pubblica, alla quale i privati si impegnano, sia «essa stessa produttiva di rilevanti incrementi di rendita fondiaria privata»: ma questa «dovrebbe essere bilanciata da altrettanto vantaggio per la comunità, anche in termini di salubrità dell’ambiente che passa attraverso il risparmio di suolo e la “rigenerazione urbana” correttamente intesa come risanamento dell’abitato e rigenerazione sociale riferita agli abitanti delle zone» […] è avvenuto che «volumetrie aggiuntive premiali, demolizioni virtuali di volumi trasferiti nei cortili», o demolizioni reali «di un capannone con costruzione di alte torri qualificata come ristrutturazione», abbiano «realizzato un vantaggio economico assolutamente sproporzionato a favore del privato e dei suoi progettisti, un deterioramento ambientale in termini di carichi edilizi non compensati da adeguati spazi e servizi, un consumo di suolo e dei requisiti igienico sanitari di aria, luce e veduta delle abitazioni: e quindi non un interesse pubblico, ma, al contrario, un danno immediato agli abitanti e un danno pubblico indiretto, a causa delle ripercussioni sulla comunità»”.
Questo meccanismo teorizzato dagli inquirenti milanesi avrebbe coinvolto numerosi progetti (a questo link per il reportage di LaPresse/Corriere video) tra i quali spiccano l’intervento nel quartiere di Porta Nuova, il cantiere del Villaggio Olimpico che sta nascendo, in vista di Milano-Cortina 2026, lo Scalo di Porta Romana e il restyling del Pirellino, ex sede degli uffici urbanistici del Comune.
È lungo l’elenco degli indagati e ne fanno parte, insieme agli altri, personaggi i quali rivestono ruoli e funzioni che sono fisiologicamente il bersaglio primario di ogni indagine che ipotizzi condotte penalmente rilevanti nel comparto urbanistico-edilizio: il sindaco, l’assessore all’urbanistica, il responsabile amministrativo (in questo caso ex) del settore urbanistica, l’immobiliarista, il progettista (a questo link per la descrizione in dettaglio delle imputazioni e degli indagati).
Alcune osservazioni a caldo
Un’inchiesta come quella appena descritta è una preziosa occasione di riflessione per il giurista.
La guida una delle Procure più importanti e potenti d’Italia, tra i suoi destinatari vi sono personaggi di primo rango nei settori di appartenenza, il suo oggetto – il governo del territorio – è tra quelli che più si prestano a potenziali straripamenti del potere giudiziario in sfere di competenza politico-amministrativa, la sua discovery e i suoi primi effetti si manifestano in un periodo in cui politica e giustizia sono più lontane che mai, la reattività della prima alle iniziative giudiziarie che ne mettono in discussione l’operato è ben più elevata, rapida e condivisa di quanto sia mai stato dato osservare nei tre decenni che sono seguiti alla stagione di Mani Pulite.
A complicare le cose, paradossalmente per certi versi, è l’applicabilità dell’interrogatorio preventivo, il nuovo strumento garantistico introdotto dalla Legge 114/2024 per i casi in cui a fondamento di richieste cautelari si indichi esclusivamente il pericolo di reiterazione del reato.
Complice l’onnipresente fuga di notizie, le proposizioni e le richieste dell’accusa pubblica sono state diffuse nei minimi dettagli così come l’elenco degli indagati, alcuni dei quali hanno appreso di essere tali dalla stampa.
Il rafforzamento dello statuto garantistico di chi si difende finisce così per tramutarsi, per eterogenesi dei fini, in un dibattito pubblico che, come d’abitudine, trascende i contorni delle imputazioni in senso stretto e si allarga alla sua moralità ed alla sua intera vita.
Fatta questa indispensabile premessa, si notano fin d’ora alcune caratteristiche, in buona parte già accennate.
La speranza che l’abolizione del reato di abuso d’ufficio determinasse limiti netti e invalicabili al controllo giudiziario dell’agire politico si è rivelata mal riposta. Esistono ancora ed esisteranno sempre fattispecie alternative che consentono agli inquirenti di sottoporre a scrutini penetranti ogni comparto delle attività e delle funzioni tipiche della pubblica amministrazione e di avvalersi a tal fine degli strumenti di ricerca della prova più invasivi ed efficaci.
Non funge da barriera a possibili straripamenti la classica distinzione tra atti politici ed atti amministrativi, troppo labile per essere effettiva, troppo concettuale e troppo poco concreta per dissuadere i pratici da visioni che la privino di valore.
Non accenna ad affievolirsi la tendenza ad inserire nel corpo di atti giudiziari espressioni e giudizi moraleggianti, del tutto irrilevanti sul piano tecnico, utilissimi allorchè fuoriescano da quel piano e “parlino” direttamente all’opinione pubblica.
Non è più un’opzione per gli indagati, se mai lo è stata, l’attesa silente del proprio destino condita dalle consuete espressioni di formale fiducia nella giustizia.
Lo stillicidio di dettagli investigativi giustifica – per certi versi costringe – l’accusato ad esporsi pubblicamente, ad anticipare la propria linea difensiva nella flebile speranza di contrapporre quantomeno la propria voce al massiccio apparato comunicativo di cui dispone l’accusa.
Ad una prima alterazione, quella di cui gode non necessariamente per sua colpa la Procura che procede, segue così una seconda alterazione, quella dell’indagato che esterna, alla quale seguirà l’ultima e più rilevante alterazione, quella del giudice che dovrà decidere quanto gli compete già bombardato da un’intollerabile quantità di “rumore”. Tutto questo con buona pace dell’ordinaria fisiologia procedimentale e sub-procedimentale cautelare, alla quale non credono più neanche gli studenti di giurisprudenza.
Fin qui quello che accade “dentro” la giustizia ma poi c’è il fuori.
Nel caso milanese la politica resiste. Il sindaco ha dichiarato di essere intenzionato a proseguire il suo mandato se potrà continuare a contare sull’appoggio della sua maggioranza. Ne ha diritto, sia chiaro, è un presunto innocente e come tale va considerato ad ogni effetto.
La novità è che, fatta eccezione per sparuti distinguo, la sua scelta è stata condivisa trasversalmente, addirittura auspicata prima ancora che si manifestasse, da larghi strati della politica di livello sia regionale che nazionale.
Potrebbe essere il segno di una nuova stagione, si vedrà.
Restano infine due ultime considerazioni.
Milano è pane, lo ricorda il vecchio proverbio citato in apertura, è un pezzo imprescindibile del sistema Italia: metterla alle corde, creare una condizione che frantumi la legittimazione di chi la governa, portare lo scompiglio nell’impresa e nella finanza, è, come si sente spesso nei film e nelle serie a sfondo politico, una questione di interesse nazionale. In passato operazioni simili sono riuscite, oggi non si può esserne altrettanto sicuri.
Ma che succederebbe se, piuttosto che di Milano, si trattasse di realtà territoriali che di pane non ne hanno? Si manifesterebbe la stessa sensibilità, si procederebbe con la stessa cautela, ci sarebbe tutta questa solidarietà, gli indagati sarebbero ancora liberi? Non è dato rispondere, si può solo aspettare, ma qualche dubbio c’è.
