GPS e l’utilizzo ai fini probatori dei dati di positioning (Riccardo Radi)

La Cassazione penale sezione 2 con la sentenza numero 27513 del 25 luglio 2025 in tema di legittimità dell’uso ai fini probatori dei dati di positioning emersi dal rilevamento del sistema GPS installato su una autovettura.

La Suprema Corte ricorda che la localizzazione degli spostamenti tramite sistema di rilevamento satellitare GPS (c.d. pedinamento elettronico) è mezzo di ricerca della prova atipico non implicante un accumulo massivo di dati sensibili da parte del gestore del servizio, sicché le relative risultanze sono utilizzabili senza necessità di autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria, non trovando applicazione per analogia la disciplina di cui all’art. 132, comma 3, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 e successive modifiche, in tema di tabulati, e neppure i principi affermati dalla sentenza della CGUE del 05/04/2022, C. 140/2020, relativa alla compatibilità di “data retention” con le Direttive 2002/58/CE e 2009/136/CE, sul trattamento dei dati personali e la tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni (cfr., in tal senso, da ultimo, Sez. 2, n. 37395 del 18/09/2024, Bianchini, Rv. 286949 – 01; conf. anche Sez. 6, n. 15422 del 09/03/2023, Bonfirraro, Rv. 284582 – 01; Sez. 2, n. 21644 del 13/02/2013, Badagliacca, Rv. 255542 – 01).

A ciò si aggiunge che la cassazione ha, altresì, ulteriormente chiarito che il pedinamento attraverso il sistema di rilevamento satellitare è uno strumento investigativo ricompreso tra i compiti istituzionali di cui la polizia giudiziaria fa legittimo uso e, quindi, pienamente utilizzabile nel processo penale senza necessità di autorizzazione preventiva da parte dell’Autorità Giudiziaria, in quanto non si risolve in una interferenza con il diritto alla riservatezza delle comunicazioni, nè in una lesione dell’inviolabilità del domicilio (ex plurimis: Sez. 4, n. 21856 del 21/04/2022, Bresciani, Rv. 283386-01; Sez. 2, n. 23172 del 04/04/2019, M, Rv, 276966), ciò in quanto il sistema di localizzazione satellitare registra i movimenti dei mezzi allo stesso modo in cui sarebbero registrati dal personale di polizia giudiziaria nel corso del pedinamento e trasferiti in annotazioni di servizio.

Manifestamente infondata risulta, pertanto, la pretesa della difesa del ricorrente di rimettere in discussione detti consolidati principi, tanto da farne discendere l’inutilizzabilità delle risultanze acquisite dalla polizia giudiziaria, in ragione della decisione della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 5 aprile 2022, C.140/2020.

Ma nel caso di specie, al di là dei consolidati principi di diritto sopra richiamati e della eventuale permanente attualità degli stessi alla luce delle sentenze delle Corti europee richiamate nel ricorso, si impongono alcune risolutive osservazioni in forza delle quali risulta preclusa la possibilità di disporre, come invocato da parte ricorrente, un rinvio pregiudiziale della normativa italiana alla CGUE ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) al fine di verificare se, in forza dei principi stabiliti dalla stessa CGUE nelle sentenze richiamate dalla parte ricorrente, sarebbe possibile utilizzare ai fini processuali l’acquisizione dei dati relativi all’ubicazione di un soggetto e alle sue condotte in assenza di provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria e di una espressa previsione normativa sul punto.

Al fine di operare tale valutazione occorre partire da una constatazione preliminare: il ricorso in esame presenta sul punto un profilo di assoluta genericità in quanto dopo avere astrattamente illustrato le ragioni per le quali le emergenze del rilevamento dell’apparato GPS istallato sull’autovettura Golf (in realtà gli apparati furono due in quanto uno di essi fu installato in un borsone ma nel ricorso non se ne fa menzione) sarebbe inutilizzabile a fini probatori, parte ricorrente non ne trae le conseguenze in relazione all’intervenuta affermazione delle penale responsabilità dell’imputato N.

Sul punto deve infatti essere ricordato che la Suprema Corte ha già avuto reiteratamente modo di chiarire che «È inammissibile per aspecificità il ricorso per cassazione con cui si eccepisce l’inutilizzabilità di un elemento probatorio senza dedurne la decisività in forza della cd. “prova di resistenza”, ai fini dell’adozione del provvedimento impugnato» (ex ceteris: Sez. 3, n. 39603 del 03/10/2024, Izzo, Rv. 287024 – 02).

Basterebbe ciò per ritenere concluso l’esame del motivo di ricorso de quo stante l’inammissibilità dello stesso.

Tuttavia, per solo dovere di completezza, si impongono alcune ulteriori osservazioni.

Deve, infatti, evidenziarsi che il primo comma dell’art. 267 del TFUE prevede che il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia può essere fatto solo se si ponga una questione sull’interpretazione dei trattati o sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione.

La stessa norma poi prevede ai commi 2 e 3 due diversi scenari: quello in cui le questioni pregiudiziali vengono sollevate da organi giurisdizionali le cui decisioni siano appellabili e quelle sollevate da organi giurisdizionali di ultima istanza.

Mentre nel primo caso il giudice ha la facoltà di sollevare la questione presso la CGUE nel secondo caso ne avrebbe l’obbligo e la ratio è chiara: essendo un organo giudicante di ultima istanza c’è la massima preoccupazione che il diritto europeo venga applicato correttamente e ne venga chiarita la validità, non essendo più possibile impugnare la decisone dinnanzi altri organi.

E’, tuttavia, pacifico che il rinvio pregiudiziale può essere sollevato solo qualora la questione sia indispensabile per la risoluzione della controversia pendente avanti gli organi interni, non invece nei casi in cui nulla aggiungerebbe alla questione interna l’interpretazione o la validità della norma europea.

La stessa Corte di Giustizia (v. Grande Sezione, 6 ottobre 2021, causa C-561/19) ha chiarito che «[…] L’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno deve adempiere il proprio obbligo di sottoporre alla Corte una questione relativa all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad esso, a meno che constati che tale questione non è rilevante o che la disposizione di diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte o che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione s’impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi.

La configurabilità di siffatta eventualità deve essere valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione».

Il tema è stato altresì affrontato in altra decisione della Corte di giustizia che, con la sentenza del 6 ottobre 1982, Srl CILFIT e Lanificio di Gavardo SpA contro Ministero della sanità, si è pronunciata sull’obbligo del rinvio, all’epoca previsto dall’art. 177 del Trattato CEE, il cui contenuto è stato trasfuso nell’art. 267 TFUE, sicché deve considerarsi tuttora valida l’affermata esclusione dell’obbligatorietà del rinvio, in presenza di questioni manifestamente infondate o non rilevanti.

La giurisprudenza interna, sia pur in sede civile, ha recepito tale principio, ritenendo che non sussiste alcun diritto della parte all’automatico rinvio pregiudiziale alla CGUE ai sensi dell’art. 267 TFUE, ogni qualvolta la Corte di cassazione non ne condivida le tesi difensive, bastando che le ragioni del diniego siano espresse, ovvero implicite laddove la questione pregiudiziale sia manifestamente inammissibile o manifestamente infondata (Sez. L, n. 14828 del 7/6/2018, Rv. 648997).

In tal senso, peraltro, si sono espresse anche le Sezioni Unite civili, affermando che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea non costituisce un rimedio giuridico esperibile automaticamente a sola richiesta delle parti, spettando solo al giudice stabilirne la necessità (Sez. U. civ., n.20701 del 10/9/2013, Rv. 627458). Tali precedenti consentono di affermare che, pure in sede penale, la Corte di cassazione non è obbligata a disporre il rinvio pregiudiziale alla CGUE sulla base della mera richiesta di parte, dovendo preliminarmente verificare se la questione dedotta attiene o meno all’interpretazione del diritto comunitario e se è rilevante nel giudizio de quo, nonché se la disposizione comunitaria ha già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte, ovvero se la corretta applicazione del diritto comunitario si imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi.

Nel caso in esame, la questione deve essere valutata sotto il profilo della “rilevanza” ai fini della decisione del processo de quo.

Non sfugge, infatti, la circostanza che la difesa del ricorrente dedica la parte principale del proprio ricorso a contestare l’utilizzabilità dei rilevamenti dei tracciati GPS trascurando il fatto che la decisione della Corte di appello è stata adottata prescindendo dalla utilizzazione ai fini probatori dei dati de quibus.

Ne consegue, pertanto, che nel caso in esame il nucleo probatorio centrale del processo non è di certo costituito dagli spostamenti dell’autovettura (o del borsone) quanto, piuttosto, con quanto verificato degli inquirenti per constatazione visiva diretta: si pensi al caso del controllo operato dal personale di P.G. in ordine ai passeggeri dell’autovettura Golf, o ancora – e soprattutto – agli esiti delle perquisizioni compiute in data 16 dicembre 2016 e dei beni in tali occasioni rinvenuti che hanno consentito di ricollegare gli imputati ai luoghi ove erano collocati i beni di provenienza illecita nonché ai veicoli.

Da ciò ne consegue la sostanziale irrilevanza dei dati estrapolati dai sistemi GPS ai fini probatori, in quanto l’eliminazione degli stessi dal compendio probatorio non ha finito per intaccare l’impalcatura accusatoria che consiste in ben altri elementi.

La corte di appello ha, quindi, fatto corretta applicazione del principio di diritto secondo il quale «Il giudice dell’impugnazione non è tenuto a dichiarare preventivamente l’inutilizzabilità della prova contestata qualora ritenga di poterne prescindere per la decisione, ricorrendo al cosiddetto “criterio di resistenza”, applicabile anche nel giudizio di legittimità» (Sez. 2, n. 30271 del 11/05/2017, De Matteis, Rv. 270303 – 01)