Crisi della medicina penitenziaria e responsabilità sistemiche (Antonio Di Santo)

La condanna di un medico penitenziario sorpreso a introdurre droga e telefoni nella casa circondariale di Bellizzi Irpino interroga non solo sul piano individuale, ma sull’organizzazione del sistema penitenziario. Questo contributo intende spostare l’attenzione dalla responsabilità soggettiva alla crisi strutturale della medicina penitenziaria e, più in generale, dell’esecuzione penale.

Il fatto

Nel 2023 un medico penitenziario in servizio presso la casa circondariale “Antimo Graziano” di Bellizzi Irpino è stato arrestato all’ingresso dell’istituto con hashish e microtelefoni nascosti tra gli effetti personali. La vicenda si è conclusa, all’esito del giudizio abbreviato, con una condanna a tre anni e quattro mesi di reclusione. L’imputato ha riferito di aver agito per timore, sotto pressione di alcuni detenuti. Le dichiarazioni non hanno trovato accoglimento sul piano giudiziario, ma aprono interrogativi sul contesto lavorativo in cui la condotta è maturata.

Il contesto

Secondo il racconto fornito dallo stesso sanitario nel corso dell’indagine, il lavoro si svolgeva in condizioni di particolare isolamento: assenza di colleghi, turni estenuanti anche nei fine settimana, mancata presenza della polizia penitenziaria nei locali dell’infermeria. La medicina penitenziaria, nonostante la formale integrazione nel Servizio Sanitario Nazionale, continua ad essere un comparto fragile, privo di risorse strutturali e umane. La carenza cronica di personale sanitario, la discontinuità dei servizi e l’assenza di presidi di protezione mettono a rischio tanto i diritti dei detenuti quanto la sicurezza degli operatori.

Il nodo culturale

Nel dibattito pubblico, vicende come questa vengono spesso derubricate a episodi di devianza individuale. Tuttavia, una lettura sistemica impone di interrogarsi su ciò che ha reso possibile – o addirittura probabile – il verificarsi di tali comportamenti. Il carcere, per sua natura, è luogo di vulnerabilità. Ma in assenza di presidi minimi di tutela e formazione, anche chi è chiamato a garantire i diritti fondamentali può diventare parte della crisi. Come è stato recentemente sottolineato da R. Radi, “il nostro dovere è affermare un’idea del carcere come un luogo del rispetto di un diritto costituzionale altrettanto fondamentale” (V. Giglio e R. Radi, Il diritto delle piccole cose, in Terzultima Fermata, 4 dicembre 2023).

Una proposta

Occorre rafforzare gli organici della sanità penitenziaria, integrare concretamente l’assistenza sanitaria negli istituti con il sistema sanitario territoriale, garantire formazione continua e tutela operativa per il personale, e riconoscere la centralità del lavoro sanitario nella logica rieducativa della pena. La medicina penitenziaria non può restare un servizio di frontiera: deve tornare ad essere presidio di legalità, strumento di inclusione e tutela per tutti, in primo luogo per chi si trova in stato di restrizione.