Massime d’esperienza: leggere attentamente le avvertenze, possono avere effetti collaterali anche gravi (Vincenzo Giglio)

È destino comune di tutti gli operatori giuridici imbattersi con frequenza tutt’altro che trascurabile in provvedimenti giudiziari che menzionano e valorizzano questa o quella massima d’esperienza.

Si intendono per tali, secondo la giurisprudenza di legittimità, “generalizzazioni empiriche indipendenti dal caso concreto, fondate su ripetute esperienze ma autonome e sono tratte, con procedimento induttivo, dall’esperienza comune, conformemente ad orientamenti diffusi nella cultura e nel contesto spazio-temporale in cui matura la decisione, in quanto non si risolvono in semplici illazioni o in criteri meramente intuitivi o addirittura contrastanti con conoscenze o parametri riconosciuti e non controversi” (così, tra le tante, Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 9702/2022, udienza dell’1° dicembre 2021).

Data questa definizione, che – si può scommettere – non piacerebbe ad Aristotele e neanche a Cartesio, non meraviglia trovare massime d’esperienza in ambiti in cui l’uomo comune non se le aspetterebbe.

Capita così di vederle applicate all’interpretazione delle comunicazioni verbali intercettate, alla valutazione della misura cautelare coercitiva più adatta in relazione al comportamento atteso del destinatario, al criterio distintivo tra chi partecipa ad un’associazione mafiosa e chi è ‘soltanto’ contiguo.

Eppure, i linguisti direbbero che l’interpretazione è l’atto di intendere e spiegare in un certo modo ciò che è ritenuto oscuro, di difficile comprensione, gli antropologi e gli etologi continuano a studiare il comportamento umano da secoli e sono ancora ben lontani dal traguardo, l’incessante analisi storica, accademica e giudiziaria delle condotte tipiche e atipiche degli uomini di mafia non ha ancora prodotto alcuna certezza definitiva.

Non è azzardato, allora, affermare che, a dispetto della sicumera di tante decisioni giudiziarie, la materia prima delle massime d’esperienza, cioè il buon vecchio senso comune, è quanto di più inafferrabile vi sia.

Chi potrebbe spiegare in modo convincente e rifuggendo da vuote tautologie, cosa sia davvero, a quali condizioni si formi, che consistenza debba avere la generalizzazione, come si possa constatare il raggiungimento della soglia minima richiesta, quali verifiche sono ipotizzabili?

Vogliamo poi parlare del destinatario del senso comune?

Tale senso – si dovrebbe convenire – esiste solo in quanto ritenuto tale quantomeno dalla maggioranza della comunità di riferimento.

Diventa quindi imprescindibile disporre di un destinatario tipo.

Varie sono le formule definitorie coniate al riguardo: l’uomo medio o di media cultura o di media intelligenza o altre similari, in un certo luogo e in un certo periodo.

E chi potrebbe stabilire questa media e in base a quali parametri?

E, ammesso che si possa farlo, questa condizione mediana è unica e può essere applicata a qualunque ambito oppure varia da un ambito all’altro?

È per tutte questa ragioni che piace molto e merita di essere diffuso un passaggio non evidenziato quanto meriterebbe di una recente pronuncia delle Sezioni unite, precisamente Cassazione penale, SU, sentenza n. 13783/2025, udienza del 26 settembre 2024, deposito dell’8 aprile 2025, Massini).

Vi si legge che le massime d’esperienza hanno uno statuto epistemico singolare: “uno statuto per definizione incerto, debole, collocato nell’area del verosimile, sicché tale debolezza di base deve essere compensata da una ancora più rigorosa opera giudiziale di investigazione e verifica della sua affidabilità nel caso concreto. Una verifica giudiziale che “passa” dalla funzione accertativa del processo, dal diritto alla prova, dal contraddittorio delle parti”.

Parole oneste, che riconoscono una verità tanto semplice quanto occultata: il senso comune è solo l’inizio della strada per l’accertamento della verità, non certo la sua fine.

Chi teorizza e applica il contrario può produrre effetti collaterali assai gravi.