Il sovraffollamento carcerario e le disumane condizioni nelle quali sono costrette a vivere le persone ristrette e consegnate in custodia allo Stato, con il sempre più allarmante e crescente dato dei suicidi carcerari, è diventato uno dei problemi principali all’attenzione non più dei soli avvocati e delle associazioni che si occupano dei luoghi di detenzione, ma della politica interna ai massimi livelli istituzionali, della Corte Costituzionale e dell’Europa.
Basti pensare all’attenzione posta dallo stesso Presidente della Repubblica e dal Presidente del Senato sulla questione, alla recente sentenza della Consulta in tema di CPR e al rifiuto da parte dell’autorità giudiziaria Olandese di consegnare allo Stato italiano un indagato di omicidio a causa delle disumane condizioni carcerarie.
In tale contesto, una politica carcerocentrica e giustizialista risponde alle grida di allarme con un affermazione apparentemente stringente: si costruiscano nuove carceri. Senza voler entrare nel tema dello sperpero di denaro pubblico che da 20 anni viene perpetrato da governi di qualsiasi colore sui “piani carcere”, come ben evidenziato dalla Relazione della Corte dei Conti dell’aprile del 2025, costruire nuove carceri non è compatibile con le tempistiche della drammatica situazione di oggi.
In questi giorni sta riprendendo forza una proposta di qualche mese fa dell’onorevole Giachetti su la liberazione anticipata speciale, che permetta di far fronte al sovraffollamento. Altre voci invocano un indulto. Anche la ANM si dichiara favorevole, con qualche distinguo.
Certo, un provvedimento che consentisse di “svuotare” le carceri consentirebbe per un po’ di risolvere il problema dl sovraffollamento, e magari a cascata qualche problema collaterale, come quello dell’assistenza sanitaria. Ma siamo sicuri che risolverà veramente i problemi, siamo sicuri che sia solo questa la strada da percorrere? Oppure sarà solo una momentanea valvola di sfogo?
Innanzitutto, con meno soldi e più velocemente, si potrebbero aumentare gli organici a tutti i livelli, non solo quelli della Polizia Penitenziaria.
Aumentare gli assistenti sociali, il personale medico, gli psicologi, quello amministrativo, il personale delle aree trattamentali, i Giudici di Sorveglianza, i cancellieri, i funzionari ecc.. ecc.. Ma siamo sicuri che sia questo, o meglio, sia solo questo il problema?
Il problema è un altro. Ed è forse ancora più impervia e difficoltosa la strada da percorrere, ma abbiamo il dovere di farlo.
Il problema è affermare un’idea di pena e di carcere completamente diversa da quella imperante nella nostra società.
Innanzitutto un’idea di un luogo dove ci sia il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo.
Quale coerenza ci può essere fra le voci di indignazione sulle condizioni carcerarie e i messaggi che una certa politica quotidianamente propina all’opinione pubblica sulla sempre più ineluttabile idea dell’ergastolo come unica pena per alcuni reati, sulla criminalizzazione del dissenso pacifico all’interno dei luoghi di detenzione, sulla quasi sadica volontà di togliere il respiro ai detenuti, sulle immagini di una polizia penitenziaria armata e dedita alla violenza? E quale coerenza ci può essere fra le grida di allarme delle più alte cariche dello Stato con il silenzio e l’assenza di quelle istituzioni chiamate specificamente a tutelare i diritti dei detenuti?
Quale coerenza ci può essere quando chi è chiamato a garantire i diritti delle persone private della libertà abdica al proprio ruolo per trasformarsi in un vuoto organismo capace solo di dare bella mostra di sé?
Siamo sicuri che un pur necessario e sacrosanto provvedimento di clemenza, o di deflazione, risolverà il problema se rimarranno queste atroci contraddizioni?
Oppure il carcere rimarrà un luogo della negazione dei più elementari diritti, solo per meno persone, fintanto che un legislatore panpenalista e carcerocentrico e una magistratura di sorveglianza timida non provvederanno a ripristinare il sovraffollamento?
Ma non solo il rispetto dei diritti umani e della dignità della persona. Il nostro dovere è affermare un’idea del carcere come un luogo del rispetto di un diritto costituzionale altrettanto fondamentale.
Quello stabilito dall’art. 27 della Costituzione. Quello della funzione rieducativa e risocializzante della pena.
Potrà mai un luogo di espiazione della pena essere un luogo di recupero dalla criminalità?
Certamente, ce lo impone la Costituzione e ce lo impone una legge che, ossequiosa di quel principio, 50 anni fa esatti cercò di darne concretezza. Ma che oggi con le contraddizioni di cui abbiamo parlato sembra quasi essere solo un ostacolo alla pulizia sociale di chi vorrebbe vedere i criminali “marcire” in galera. Forse, come ha detto qualcuno, dovremmo sostituire la parola marcire con la parola “rinascere” in galera.
E se tutti, e principalmente i nostri governanti e le istituzione preposte, pensassero che il carcere sia un luogo dove poter rinascere, allora ogni idea, ogni parola, ogni legge, ogni iniziativa, ogni spesa avrà come unico scopo quello che in un luogo di detenzione non si marcisce, ma si rinasce.
Quello di cui abbiamo bisogno non sono nuove carceri, ma una nuova idea di pena.
Lunedì 21 luglio si terrà presso la sede dell’UCPI un importante incontro per discutere di questi temi che dovrà costituire, con la massima partecipazione di tutti, un momento in cui queste idee vengono affermate in maniera decisa anche di fronte a chi è chiamato istituzionalmente a farsene carico, e contribuire in maniera decisiva a questo percorso per affermare una nuova idea di pena.
