Il tema del doppio, inteso come sdoppiamento dell’Io e quindi connesso al labilissimo confine tra identità e differenza, è stato esplorato non solo dalla psichiatria e dalla psicologia ma anche dalle arti espressive.
Se ne trovano tracce nella pittura, nella scultura, nel cinema e, ovviamente, nella letteratura.
Nel 2004 Einaudi pubblicò Io e l’altro, Racconti fantastici sul Doppio, a cura di Guido Davico Bonino.
Tra i racconti prescelti c’era La signora nello specchio (The Lady in the Mirror) di Virginia Woolf.
Così lo presentò il curatore:
“Segnata da un refrain memorabile, in apertura e chiusura («Non si dovrebbero lasciare specchi appesi nelle proprie stanze»), questa novella di perfezione quasi assoluta contiene un trattamento del doppio di insuperabile raffinatezza. Ci sono due Isabella Tyson nel racconto. L’una è l’elegante signora dalla scarpe «sottili, lunghe e alla moda», […] una donna ricca, raffinata, dai molti amici, che tuttavia avrebbero voluto saperne di più di lei, «cogliere e tradurre in parole … l’aspetto più profondo del suo essere, … quello che per la mente è come il respiro per il corpo» […] L’altra è quella che «il lungo specchio appeso fuori nell’anticamera» rivela”.
Isabella Tyson era dunque un mistero: «aveva conosciuto molte persone, aveva avuto molti amici; e perciò, ad aver l’audacia di aprire un cassetto e leggere le sue lettere, si sarebbero trovate tracce di molti affanni di appuntamenti, di rimostranze per avervi mancato, lunghe lettere di intimità ed affetto, violente lettere di gelosia e rimprovero, le terribili parole finali della rottura – perché tutti quei convegni e appuntamenti non avevano condotto a nulla – vale a dire non si era mai sposata, e tuttavia, a giudicare dalla sua faccia indifferente come una maschera, aveva vissuto venti volte più passioni ed esperienze di coloro i cui amori vengono strombazzati perché tutto il mondo li conosca».
Un mistero che la Woolf svela nelle battute finali: «Eccola, alla fine, nell’anticamera. Si fermò immobile. Stette accanto al tavolo. Rimase perfettamente ferma. Subito lo specchio cominciò a versare su di lei una luce che parve fissarla; parve un acido destinato a corrodere ciò che non era essenziale, ciò che era superficiale, per lasciare solo la verità. Tutto le cadde di dosso […] Questa era la donna vera. Era nuda in quella luce spietata e non c’era niente. Isabella era perfettamente vuota. Non aveva pensieri. Non aveva amici. Non teneva a nessuno. E quanto alle lettere, erano conti […] non si prende neppure la pena di aprirle. Non si dovrebbero lasciare specchi appesi nelle proprie stanze».
Il mistero era un finto mistero, Isabella Tyson era solo un guscio vuoto.
La novella della Woolf e il suo impeccabile meccanismo narrativo stimolano assonanze che potrebbero risultare azzardate ma forse non poi così tanto.
La giustizia assomiglia spesso a quel guscio vuoto: apparentemente pensata e pensosa ma totalmente insulsa quando la si spogli delle sovrastrutture; sovrabbondante di lettere e carte di apparente utilità che però nessuno ha interesse a leggere.
Un non raro caso in cui per comprendere qualcosa bisogna allontanarsene.
