Atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine per la chiusura delle indagini preliminari: inutilizzabilità fisiologica, non eccepibile nel giudizio abbreviato (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 5^, sentenza n. 25189/2025, udienza del 27 giugno 2025, deposito del 9 luglio 2025, ha ribadito che l’inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine ordinario o prorogato fissato dalla legge per la chiusura delle indagini preliminari non è assimilabile alla inutilizzabilità delle prove vietate, ex art. 191 cod. proc. pen., e non è, pertanto, rilevabile d’ufficio ma solo su eccezione di parte; ciò significa che essa è sostanzialmente assimilabile ad una nullità a regime intermedio, soggetta, in quanto tale, alle condizioni di deducibilità previste dall’art. 182 cod. proc. pen., con la conseguenza che, quando la parte assiste all’atto che si assume viziato, la relativa nullità deve essere dedotta prima che il già menzionato atto sia compiuto ovvero, ove ciò non sia possibile, immediatamente dopo (Sez. 5, n. 1586 del 22/12/2009, dep. 2010, Rv. 245818 – 01; conf. Sez. 1, n. 11168 del 18/02/2019, Rv. 274996 – 03; Sez. 1, n. 36671 del 14/06/2013, Rv. 256699 – 01; Sez. 1, n. 2383 del 28/04/1998, Rv. 210673 – 01; Sez. 1, n. 1176 del 17/03/1992, Rv. 189856 – 01).

Provvedimento impugnato

Con sentenza del 17 ottobre 2022 il GUP, in esito a giudizio celebrato con il rito abbreviato, così statuiva:

riconosceva responsabile LAC dei delitti di associazione per delinquere, di emissione e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, di omessa dichiarazione (per l’anno 2010) e di bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale, in quanto capo di un sodalizio criminale, strutturato e stabile, finalizzato alla commissione di reati tributari e fallimentari, operante attraverso un sistema di società consorziate, formalmente autonome ma in realtà gestite in modo unitario e centralizzato, nonché amministratore di fatto e di diritto di tutte le società coinvolte, e per l’effetto lo condannava alla pena di anni quattro di reclusione, disponendo nei suoi confronti la confisca per equivalente di beni per un valore pari a € XXX;

riconosceva responsabile AC degli stessi reati, in quanto co-gestore del sodalizio criminale nonché amministratore di diritto di diverse società, e per l’effetto lo condannava alla pena di anni tre e mesi quattro di reclusione, disponendo nei suoi confronti la confisca per equivalente di beni per un valore pari a € XXX;

riconosceva responsabile GC dei delitti di partecipazione ad associazione per delinquere e di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture false, in quanto amministratrice e socia unica della G SRL e A SRL, e per l’effetto la condannava alla pena di anni uno, mesi dieci e giorni venti di reclusione, con sospensione condizionale della pena, disponendo nei suoi confronti la confisca per equivalente di beni per un valore pari a € XXX.

Con sentenza dell’8 ottobre 2024 la Corte di appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava non doversi procedere nei confronti di LAC per taluni reati limitatamente al periodo d’imposta 2012, perché estinti per intervenuta prescrizione, e per l’effetto rideterminava la pena inflittagli per i reati residui reati – posti in continuazione con quelli di cui alla sentenza n. XXX/XX del GUP del 21 dicembre 2020 – in anni due e giorni dieci di reclusione, riducendo la confisca per equivalente applicatagli fino alla concorrenza del valore di € XXX. Confermava nel resto la sentenza appellata.

La Corte territoriale rigettava l’eccezione di inutilizzabilità degli atti di indagine, compiuti in assenza di proroghe dei relativi termini legittimamente concesse, trattandosi di eccezione preclusa per effetto della scelta del rito abbreviato, riguardando inutilizzabilità non patologica; dichiarava manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 6-bis, cod. proc. pen.; confermava ‘affermazione di responsabilità di tutti gli imputati, ritenendo le loro dichiarazioni ammissive corroborate dagli altri elementi di prova raccolti e, in particolare, ritenendo provata la partecipazione di GC all’associazione per delinquere contestata, a dispetto del suo subentro nella fase finale del vita del sodalizio, in ragione del ruolo attivo e consapevole da lei avuto nella gestione del meccanismo fraudolento; stabiliva che il problema del concorso della confisca diretta e della confisca per equivalente, disposte in relazione ai medesimi reati tributari, dovesse essere affrontato in fase esecutiva; riteneva, infine, proporzionate le pene inflitte agli imputati in ragione della gravità dei fatti, della durata del sodalizio e dell’entità delle somme evase o distratte.

Ricorso per cassazione

Avverso la sentenza di appello proponeva ricorso per cassazione nell’interesse di LAC, di AC e GC il loro comune difensore, che affidava l’unitaria impugnativa a plurimi motivi (l’esposizione sarà limitata ai primi tre, NDR).

Il primo motivo eccepisce, sotto l’egida della violazione degli artt. 407, commi 1 e 2, 438, comma 6-bis, e 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., l’inutilizzabilità delle intercettazioni, perché acquisite oltre i termini delle indagini preliminari senza valida proroga: infatti, le richieste di proroga delle indagini preliminari del 6 febbraio 2017 e del 20 marzo 2021, in quanto non notificate agli indagati o in quanto intempestive, avevano dato luogo ad una nullità assoluta della proroga e degli atti successivi o, comunque, ad una inutilizzabilità patologica degli atti compiuti, in nessun modo sanabile.

Il secondo motivo eccepisce, sotto l’egida della violazione degli artt. 192, 494 e 533 cod. proc. pen., l’insufficienza del compendio probatorio posto a sostegno del giudizio di responsabilità degli imputati, in quanto fondata esclusivamente sulle loro dichiarazioni spontanee, prive di valore probatorio autonomo.

Il terzo motivo eccepisce, sotto l’egida della violazione dell’art. 125, comma 3, cod. proc. pen., il vizio di omessa motivazione sull’inutilizzabilità degli atti d’indagine compiuti oltre i termini: questo perché la Corte territoriale, lungi dal limitarsi a ritenere la questione preclusa dalla scelta del rito abbreviato, avrebbe dovuto valutare nel merito la fondatezza dell’eccezione.

Lo stesso motivo rinnova la richiesta di sollevare eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 438, comma 6-bis cod. proc. pen., che prevede che nel rito abbreviato l’imputato non possa eccepire nullità diverse da quelle assolute né l’inutilizzabilità di atti derivante da violazioni di legge, salvo che si tratti di divieti probatori assoluti, perché ritenuta disposizione in contrasto con gli artt. 3, 111, 27, commi 2 e 3, Cost. e 6, comma 2, CEDU.

La disposizione censurata sarebbe, infatti, indeterminata e come tale suscettibile di dar luogo ad incertezze applicative, posto che il divieto di eccepire l’inutilizzabilità non distingue tra inutilizzabilità fisiologica e inutilizzabilità patologica; sarebbe tale da generare disparità di trattamento, potendo subire, quello degli imputati che acconsentano all’utilizzazione di atti illegittimi, una discriminazione processuale rispetto all’imputato che acceda al rito abbreviato senza dovere acconsentire all’utilizzazione di tale tipo di atti; comporterebbe la violazione del principio di legalità e del giusto processo, facendo sì che la colpevolezza sia accertata sulla base di atti acquisiti in violazione di legge, così contraddicendo il principio di “colpevolezza legalmente accertata”.

Né il sacrificio di tali principi sarebbe giustificabile evocando la “logica negoziale” del rito abbreviato – nel senso che l’imputato accetterebbe “contrattualmente” il rischio di atti inutilizzabili in cambio dello sconto di pena – perché lo statuto di tali principi, costituenti garanzie fondamentali dello Stato di Diritto, ne impedirebbe il bilanciamento con esigenze di celerità e di deflazione processuale.

Decisione della Suprema Corte

Il primo e il terzo motivo sono infondati.

L’inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine ordinario o prorogato fissato dalla legge per la chiusura delle indagini preliminari non è assimilabile alla inutilizzabilità delle prove vietate, ex art. 191 cod. proc. pen., e non è, pertanto, rilevabile d’ufficio ma solo su eccezione di parte; ciò significa che essa è sostanzialmente assimilabile ad una nullità a regime intermedio, soggetta, in quanto tale, alle condizioni di deducibilità previste dall’art. 182 cod. proc. pen., con la conseguenza che, quando la parte assiste all’atto che si assume viziato, la relativa nullità deve essere dedotta prima che il già menzionato atto sia compiuto ovvero, ove ciò non sia possibile, immediatamente dopo (Sez. 5, n. 1586 del 22/12/2009, dep. 2010, Rv. 245818 – 01; conf. Sez. 1, n. 11168 del 18/02/2019, Rv. 274996 – 03; Sez. 1, n. 36671 del 14/06/2013, Rv. 256699 – 01; Sez. 1, n. 2383 del 28/04/1998, Rv. 210673 – 01; Sez. 1, n. 1176 del 17/03/1992, Rv. 189856 – 01).

Dal carattere relativo (o, comunque, non assoluto) della patologia di cui si discute si è fatta discendere la sua natura “disponibile”, di modo che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, la scelta del giudizio abbreviato preclude all’imputato la possibilità di eccepire l’inutilizzabilità degli atti d’indagine compiuti fuori dai termini ordinari di inizio e fine delle indagini preliminari in quanto, non essendo equiparabile alla inutilizzabilità delle prove vietate dalla legge (all’art. 191 cod. proc. pen.), la stessa non è rilevabile d’ufficio ma solo su eccezione di parte, sicché essa non opera nel giudizio abbreviato (Sez. 6, n. 4694 del 24/10/2017, dep. 2018, Rv. 272196 – 01, in cui la Corte ha ritenuto infondato il motivo di ricorso relativo all’inutilizzabilità delle intercettazioni attivate prima dell’iscrizione del ricorrente nel registro degli indagati e proseguite dopo la scadenza del termine di durata delle indagini preliminari; in senso conforme: Sez. 6, n. 12085 del 19/12/2011, dep. 2012, Rv. 252580 – 01; Sez. 6, n. 21265 del 15/12/2011, dep. 2012, Rv. 252853 – 01; Sez. 5, n. 38420 del 12/07/2010, Rv. 248506 – 01).

Il riportato principio è stato recepito dal legislatore, che l’ha cristallizzato nella disposizione di cui all’art. 438, comma 6-bis, cod. proc. pen., introdotta dall’art. 1, comma 43, della legge 23 giugno 2017 n. 103, in cui, significativamente, si è fatto riferimento alla “non rilevabilità delle inutilizzabilità, salve quelle derivanti dalla violazione di un divieto probatorio“. Mediante tale espressione si è inteso tracciare, anche sul piano normativo, una precisa distinzione tra le inutilizzabilità riconducibili alla violazione di divieti probatori, cui fa riferimento l’art. 191 cod. proc. pen., suscettibili, come stabilito dal secondo comma di quella disposizione, di essere rilevate anche di ufficio in ogni stato e grado del processo (e, quindi, anche nell’ambito del giudizio abbreviato), e le inutilizzabilità che non sono riconducibili a questa categoria e che, pertanto, sono in qualche misura “disponibili” dalle parti, tanto comportando che siano eccepite immediatamente ovvero non appena possibile.

La natura “fisiologica” dell’inutilizzabilità in parola è stata ribadita nella sentenza Sez. 5, n. 22128 del 14/02/2019, Rv. 276510 – 01, che, in tema di giudizio abbreviato conseguente alla notifica del decreto di giudizio immediato, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità degli artt. 407, 438 e 458 cod. proc., nella parte in cui non consentono all’imputato di eccepire l’inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti oltre il termine delle indagini preliminari, prima di richiedere il rito alternativo o contestualmente alla richiesta, come è invece consentito all’imputato tratto a giudizio nelle forme ordinarie, che può sollevare l’eccezione nel contesto dell’udienza preliminare.

A sostegno la Corte ha richiamato il principio di diritto, enunciato dalle Sez. U, n. 16 del 21/06/2000, Tammaro, Rv. 216246 – 01, secondo cui «Il giudizio abbreviato costituisce un procedimento “a prova contratta”, alla cui base è identificabile un patteggiamento negoziale sul rito, a mezzo del quale le parti accettano che la regiudicanda sia definita all’udienza preliminare alla stregua degli atti di indagine già acquisiti e rinunciano a chiedere ulteriori mezzi di prova, così consentendo di attribuire agli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari quel valore probatorio di cui essi sono normalmente sprovvisti nel giudizio che si svolge invece nelle forme ordinarie del “dibattimento”. Tuttavia, tale negozio processuale di tipo abdicativo può avere ad oggetto esclusivamente i poteri che rientrano nella sfera di disponibilità degli interessati, ma resta privo di negativa incidenza sul potere-dovere del giudice di essere, anche in quel giudizio speciale, garante della legalità del procedimento probatorio. Ne consegue che in esso, mentre non rilevano né l’inutilizzabilità cosiddetta ‘fisiologica’ della prova, cioè quella coessenziale ai peculiari connotati del processo accusatorio, in virtù dei quali il giudice non può utilizzare prove, pure assunte “secundum legem”, ma diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento secondo l’art. 526 cod. proc. pen., con i correlati divieti di lettura di cui all’art. 514 stesso codice (in quanto in tal caso il vizio-sanzione dell’atto probatorio è neutralizzato dalla scelta negoziale delle parti, di tipo abdicativo), ne’ le ipotesi di inutilizzabilità “relativa” stabilite dalla legge in via esclusiva con riferimento alla fase dibattimentale, va attribuita piena rilevanza alla categoria sanzionatoria dell’inutilizzabilità cosiddetta ‘patologica’, inerente, cioè, agli atti probatori assunti “contra legem”, la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto non solo nel dibattimento, ma in tutte le altre fasi del procedimento, comprese quelle delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare, nonché le procedure incidentali cautelari e quelle negoziali di merito».

In linea con il diritto vivente, si ritiene che la questione di legittimità costituzionale della disposizione di cui all’art. 438, comma 6-bis, cod. proc. pen. che si chiede di sollevare è manifestamente infondata.

La Corte costituzionale, invero, nella sentenza n. 127 del 2021, sia pure incidentalmente, ha qualificato la richiesta di giudizio abbreviato incondizionato come espressione di «un vero e proprio diritto potestativo dell’imputato», da ritenersi «compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento», e nella sentenza n. 82 del 2019, del pari incidentalmente, ha affermato che la diversità di trattamento è legittima se giustificata dalla diversa natura del rito prescelto.

Deve, dunque, ritenersi, in coerenza con la natura del rito abbreviato quale rito premiale – che si fonda sulla scelta volontaria dell’imputato di rinunciare al contraddittorio dibattimentale in cambio di uno sconto di pena e che comporta l’accettazione a fini di prova degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, salvo eccezioni tassative – e con la ratio della prevista limitazione delle eccezioni di inutilizzabilità – funzionale alla semplificazione del giudizio ed in linea con la logica di economia processuale – che la disposizione di cui all’art. 438, comma 6-bis, cod. proc. pen. non pregiudica in maniera irragionevole il diritto di difesa, in quanto l’imputato può scegliere se accedere o meno al rito abbreviato, sollevare eccezioni prima della scelta del rito medesimo ed eventualmente optare per il dibattimento, in cui tutte le eccezioni sono ammesse.

La disposizione censurata non viola neppure l’art. 6 CEDU, atteso che la nozione di “colpevolezza legalmente accertata” non implica che ogni vizio procedurale determini automaticamente una violazione della norma convenzionale.

La Corte EDU ha, infatti, riconosciuto la legittimità dei riti alternativi, purché vi sia stato consenso informato e tutela minima delle garanzie fondamentali (Corte EDU, sez. 1, 25 marzo 2021, ricorsi nn. 15931/15 e 16459/15, Di Martino e Molinari c. Italia, in cui il giudice convenzionale ha dato atto che il giudizio abbreviato previsto dal codice di procedura penale italiano «comporta dei vantaggi indiscutibili per l’imputato […]. In compenso, […] prevede un’attenuazione delle garanzie procedurali offerte dal diritto interno …» ed ha rammentato che «né il testo né lo spirito dell’articolo 6 della Convenzione impediscono a una persona di rinunciare spontaneamente, in maniera esplicita o tacita, alle garanzie di un processo equo. Tuttavia, per essere rilevante dal punto di vista della Convenzione, tale rinuncia deve essere accertata in maniera non equivoca, e devono essere previste delle garanzie minime proporzionate alla sua la gravità. Inoltre, tale rinuncia non deve scontrarsi con nessun interesse pubblico importante […]»).

Il secondo motivo è inammissibile.

Premesso che, in tema di giudizio abbreviato, le dichiarazioni spontanee rese, nell’immediatezza dei fatti, alla polizia giudiziaria dalla persona sottoposta ad indagini sono pienamente utilizzabili, purché verbalizzate in un atto sottoscritto dal dichiarante, onde consentire al giudicante di verificarne i contenuti ed evitare possibili abusi, o anche solo involontari malintesi, da parte dell’autorità di polizia (Sez. 2, n. 41705 del 28/06/2023, Rv. 285110 – 01; Sez. 6, n. 10685 del 19/01/2023, Rv. 284466 – 02; Sez. 1, n. 37676 del 03/05/2022, Rv. 283740 – 01), va riconosciuto che l’eccezione difensiva di insufficienza di quelle rese dagli odierni ricorrenti a sostenere l’affermazione di responsabilità per i delitti loro ascritti è generica, perché non tiene conto del loro convergere in un quadro probatorio composto anche dagli ulteriori elementi di prova desunti dagli atti delle indagini preliminari ritenuti pienamente utilizzabili in ragione del rito prescelto.