La Cassazione penale sezione 1 con la sentenza numero 17164/2025 ha stabilito che in virtù del principio di conservazione degli atti e della regola, ad esso connessa, del “tempus regit actum”, sono legittimamente utilizzabili le dichiarazioni del soggetto che, al momento della deposizione, rivestiva ancora e soltanto lo “status” di persona informata sui fatti, non rilevando, in contrario, la circostanza che abbia successivamente assunto la condizione di indagato o di imputato.
Fattispecie relativa a testimone, già sentito a sommarie informazioni, denunciato successivamente per calunnia in relazione ai medesimi fatti.
La Suprema Corte ricorda le Sezioni Unite con la sentenza n. 33583 del 26/03/2015, Lo, Rv. 264479 – 01 hanno puntualizzato che «l’assunto si caratterizza per due aspetti. Un primo rilievo è che, già da un punto di vista concettuale, l’incompatibilità a svolgere una determinata funzione è caratteristica o qualità normativamente predefinita, che deve necessariamente precedere gli atti che caratterizzano quella funzione: non si può “divenire” incompatibili proprio a causa della funzione che si è legittimati a svolgere in quanto con essa compatibili.
Affermare il contrario suonerebbe come una vera e propria petizione di principio.
Il soggetto che ha assunto la veste formale e sostanziale della persona informata sui fatti o del testimone, può, infatti, sicuramente andare incontro a cause di incompatibilità a svolgere quest’ultimo ruolo processuale, ove l’esercizio della relativa funzione perduri: ma ciò, sempre in dipendenza di cause esterne ai fatti o alle condotte che integrano i momenti in cui l’esercizio della funzione si esprime. Se il testimone diviene indagato quale concorrente nel reato cui la testimonianza si riferisce, o per altro reato ad esso connesso o collegato e ciò non sia una diretta conseguenza della sua testimonianza, è ovvio che si “incrini” la relativa investitura soggettiva e che debba conseguentemente mutare lo status di dichiarante.
Ma ove il testimone non sia chiamato a rispondere di fatti diversi da quelli che integrano il tessuto delle sue stesse dichiarazioni, allora scompare il profilo di una ipotetica incompatibilità, per venire ad emersione soltanto il ben diverso aspetto della attendibilità: resta ferma, infatti, la capacità a testimoniare, con tutti i doveri corrispondenti, mentre si apre la valutazione giurisdizionale del narrato, senza alcuna limitazione legale dei relativi criteri di apprezzamento, posto che la regola della corroboration, evocata come necessaria per le varie figure indicate dall’art. 192, commi 3 e 4, e dall’art. 197-bis cod. proc. pen., non ha ragion d’essere nei confronti del testimone “terzo” rispetto al fatto su cui è chiamato a rispondere secondo verità, a prescindere da qualsiasi fattore che ne possa affievolire la credibilità.
Un secondo profilo che può desumersi dall’orientamento giurisprudenziale di cui si è detto è che l’accertamento relativo alla veridicità di una fonte di pro ad esempio, per stare alla vicenda oggetto dell’odierno scrutinio, la verifica se un teste abbia o meno mentito o sottaciuto una determinata circostanza – non differisce dalla valutazione della relativa congruenza probatoria, nel senso che la dichiarazione ritenuta falsa non diverge, concettualmente, dalla prova ritenuta inconferente agli effetti dimostrativi del factum probandum: e ciò, dunque, anche nelle ipotesi in cui possa essere addirittura ipotizzabile uno specifico reato di “falso” dedotto da quelle dichiarazioni»).
