Abrogazione dell’abuso d’ufficio: la lectio magistralis della Consulta su possibilità e limiti del controllo di costituzionalità sulla potestà legislativa in materia penale (Vincenzo Giglio)

La pubblicazione della motivazione della sentenza n. 95/2025 della Consulta (ne abbiamo dato notizia ieri, allegando il provvedimento, a questo link per la consultazione) è l’occasione per tornare sui passaggi essenziali dai quali è dipeso il suo giudizio ora di inammissibilità ora di infondatezza delle numerose (ben quattordici) ordinanze di rimessione dei giudici a quibus.

Il punto di partenza

Sia prima che dopo l’abrogazione del delitto d’abuso d’ufficio, dovuta all’art. 1, comma 1, lettera b), della legge 9 agosto 2024, n. 114, vi è stato un intenso dibattito sull’opportunità dell’intervento legislativo e sui suoi effetti.

Indispensabile atto di civiltà giuridica per alcuni, via libera al malaffare per altri.

Per i primi ha significato lo stop alla costante ingerenza dei PM in sfere riservate alla discrezionalità politica, la messa al bando della loro deprecabile prassi di contestare strumentalmente l’abuso per chiedere e ottenere l’autorizzazione ad intercettazioni finalizzate in realtà a passare al setaccio la vita dell’indagato di turno, la liberazione degli amministratori pubblici dalla costante mannaia di un’imputazione in grado di paralizzarli e la fine del terrore della firma.

Per i secondi ha significato invece lasciare prive dell’indispensabile risposta penale condotte che alterano l’attività delle pubbliche amministrazioni e ne impediscono il buon andamento e l’imparzialità (a questo link per un post in cui si commenta proprio questa preoccupazione).

Dati i termini della contrapposizione, non stupisce che essa abbia assunto connotazioni ideologiche e politiche oltre che giuridiche e che sia divenuta oggetto di discussione ben oltre la cerchia dei pratici e degli studiosi.

L’intervento della giurisdizione

Varie voci della giurisdizione, ivi compresa quella della Suprema Corte, non sono rimaste estranee al dibattito e, come si è anticipato, hanno messo in dubbio sotto plurimi aspetti la legittimità costituzionale della norma cui si deve l’abrogazione dell’abuso d’ufficio.

Il che è come dire che, nell’opinione dei giudici a quibus, il rispetto della Costituzione richiede la penalizzazione dell’abuso d’ufficio, la sua violazione consegue all’abrogazione di tale fattispecie.

La risposta della Consulta

Si premette l’ovvio: a fronte di una sentenza dall’incedere argomentativo rigoroso e capillare, la cui ricchezza può essere apprezzata compiutamente solo attraverso la sua lettura integrale, la nostra sintesi sarà limitata ai passaggi che sono parsi immediatamente espressivi della soluzione offerta dalla Consulta alla questione essenziale, vale a dire le possibilità e i limiti del controllo di costituzionalità sulla potestà legislativa nella materia penale.

Li si riporterà integralmente, utilizzando il simbolo […] per evidenziare eventuali interruzioni. L’enfatizzazione tramite neretti è di chi scrive.

…In punto art. 3 Cost.

il legislatore gode di ampia discrezionalità nella delimitazione delle condotte punibili. Tale discrezionalità deve essere invero sottoposta a un controllo particolarmente attento da parte di questa Corte in relazione alle scelte di incriminazione, in quanto necessariamente limitative dei diritti fondamentali della persona (sentenza n. 46 del 2024, punto 3.1. del Considerato in diritto); ma deve essere riconosciuta in termini assai ampi rispetto alle scelte di non punire determinate condotte in precedenza incriminate, pur lesive di interessi costituzionalmente rilevanti o comunque meritevoli di tutela, sempre che il legislatore appresti altri strumenti di tutela di tali interessi, nell’ottica dell’extrema ratio della tutela penale – criterio, quest’ultimo, esso pure di rilevo costituzionale, alla luce del principio del minimo sacrificio necessario della libertà personale […]

Ma anche a prescindere da tale considerazione, la costante giurisprudenza costituzionale poc’anzi richiamata ha sempre escluso che una pronuncia di questa Corte possa intervenire a modificare il confine dei fatti penalmente rilevanti tracciato dal legislatore, con un effetto estensivo della responsabilità penale dei destinatari delle norme penali, soltanto per porre riparo a eventuali disparità di trattamento tra condotte sanzionate aventi, in ipotesi, analogo o minore disvalore. Un simile risultato, sinora, è sempre stato considerato precluso dalla riserva di legge in materia penale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che, invece, non si oppone alla riduzione dell’area di responsabilità penale tracciata dal legislatore a opera di questa stessa Corte, nell’ambito del proprio sindacato ex art. 3 Cost.”.

…In punto art. 97 Cost.

“Quanto all’allegata violazione dell’art. 97 Cost., vari giudici rimettenti lamentano in sintesi che l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, non accompagnata dall’introduzione di illeciti amministrativi o dal potenziamento di misure di prevenzione di condotte lesive del buon andamento e della imparzialità della pubblica amministrazione, avrebbe creato un vuoto di tutela rispetto a modalità di aggressione di tali beni, di rilievo costituzionale, in precedenza contrastate dal delitto di cui all’art. 323 cod. pen. […]

Censure del tutto analoghe erano state, tuttavia, formulate in relazione alle modifiche legislative riduttive dell’ambito di applicazione del delitto di cui all’art. 323 cod. pen. Come poc’anzi rammentato, tanto la sentenza n. 447 del 1998 quanto la sentenza n. 8 del 2022 hanno ritenuto in radice inammissibili tali censure, sulla base dell’argomento che le esigenze costituzionali di tutela sottese all’art. 97 Cost. non richiedono necessariamente l’attivazione della tutela penale, ben potendo essere soddisfatte attraverso una pluralità di strumenti alternativi preventivi e sanzionatori diversi dal diritto penale: strumenti che debbono, anzi, preferirsi – in omaggio al principio di extrema ratio– sempre che siano in grado di assicurare un’efficace tutela ai beni in parola.

In ogni caso, laddove non sussistano puntuali obblighi di incriminazione discendenti dalla Costituzione o da altre fonti vincolanti per il legislatore, non può che spettare a quest’ultimo la decisione circa l’an dell’eventuale tutela penale da assicurare agli interessi che la stessa Costituzione impone in via generale di proteggere, senza però specificare con quali strumenti tale protezione debba essere assicurata. Un eventuale sindacato di questa Corte sulle scelte compiute in proposito dal legislatore finirebbe, infatti, per non trovare alcuna base di legittimazione né nel testo, né nella stessa ratio, dell’art. 97 Cost.

…In punto artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione a un nutrito gruppo di obblighi discendenti dalla Convenzione di Mérida

“I rimettenti, nel loro complesso, riconoscono che l’unica disposizione della Convenzione specificamente dedicata all’abuso d’ufficio («Abuse of functions», nella versione ufficiale inglese) è l’art. 19; e giustamente osservano che tale disposizione si limita a statuire che gli Stati parte hanno l’obbligo di considerare («shall consider adopting») la criminalizzazione di condotte in larga misura corrispondenti a quelle coperte dall’abrogata disposizione di cui all’art. 323 cod. pen.

A differenza, dunque, di altre disposizioni della Convenzione che impongono agli Stati parte un preciso obbligo di criminalizzazione (in particolare, gli artt. 15 e 16 in materia di corruzione, l’art. 17 in materia di peculato, l’art. 23 in materia di riciclaggio, l’art. 25 in materia di intralcio alla giustizia), l’art. 19 configura semplicemente – nel linguaggio della Legislative guide alla Convenzione, elaborata dall’United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC) – una «non-mandatory offence»: e cioè una condotta la cui possibile criminalizzazione gli Stati hanno il mero obbligo (procedurale) di «considerare».

Secondo le ordinanze di rimessione iscritte ai numeri 201 e 233 reg. ord. del 2024, tuttavia, tale obbligo di «considerare» alluderebbe soltanto all’obbligo di verificare che l’introduzione del reato in questione sia compatibile con il sistema giuridico nazionale; di talché, in caso di riscontrata compatibilità, il legislatore dovrebbe senz’altro ritenersi obbligato a introdurre il reato nel proprio ordinamento, o se del caso a mantenerlo.

A parere invece delle altre undici ordinanze di rimessione provenienti dai giudici di merito, l’obbligo statuito dall’art. 19 dovrebbe leggersi in combinato disposto con altre disposizioni della Convenzione e con la ratio complessiva di quest’ultima, sì da comportare – se non l’obbligo di introdurre ex novo il reato, per gli ordinamenti che non lo contemplavano al momento della ratifica della Convenzione – quanto meno un obbligo di “non regressione” nella tutela penale, e dunque un divieto di abrogare la corrispondente incriminazione, ove già esistente […]

Questa Corte, tuttavia, non è persuasa da alcuno di tali argomenti.

Anzitutto, nessun elemento evincibile dal testo o dalla ratio dell’art. 19 della Convenzione autorizza a concludere che lo Stato sarebbe obbligato a introdurre (o a mantenere) nel proprio ordinamento l’incriminazione delle condotte di abuso di ufficio, alla sola condizione che tale incriminazione risulti compatibile con i principi generali dell’ordinamento nazionale.

L’inequivoco testo della disposizione enuncia un mero obbligo di “considerare” tale introduzione: e dunque non solo di assicurarsi della compatibilità dell’incriminazione con i principi generali dell’ordinamento penale nazionale (il che non è in discussione rispetto all’abuso d’ufficio, a differenza di quanto accade per altre più problematiche fattispecie penali, come quella di arricchimento illecito di cui al successivo art. 20); ma anche di valutare attentamente i pro e i contra di tale opzione.

In effetti, ogni scelta di criminalizzazione presenta ovvi vantaggi, in termini di più energica tutela degli interessi lesi dalla condotta che si voglia sottoporre a sanzione penale, ma anche una nutrita serie di svantaggi, quanto alla sua sicura incidenza sui diritti fondamentali dei destinatari del precetto, nonché ai suoi effetti collaterali a danno di altri interessi collettivi – come il possibile chilling effect rispetto a condotte lecite e anzi utili dal punto di vista sociale (in particolare, con riferimento ai rischi di “burocrazia difensiva” connessi all’incriminazione dell’abuso d’ufficio, sentenza n. 8 del 2022, punto 2.4. del Considerato in diritto).

La Convenzione ha scelto di affidare la valutazione comparativa dei benefici attesi e delle conseguenze negative dell’incriminazione delle condotte di abuso d’ufficio alla prudente discrezionalità del legislatore di ogni Stato; e ciò anche a fronte della varietà di soluzioni sul punto presenti negli ordinamenti penali degli Stati firmatari. Circostanza, quest’ultima, che – come risulta dai lavori preparatori della Convenzione – ha indotto gli Stati firmatari a trasformare le originarie proposte di introdurre un vero e proprio obbligo di incriminazione di questa specifica condotta, formulate da Messico, Colombia e Turchia, in un mero obbligo di “considerare” tale soluzione, recependo così una proposta formulata dalla Croazia in coordinamento con il Canada e con la stessa delegazione italiana […]

A questo punto, ciò che unicamente rileva, dal punto di vista della Convenzione, è che lo Stato adempia l’obbligazione (concepita come di mezzi, non già di risultato) di valutare attentamente la possibilità di dotarsi dell’incriminazione in parola, a fronte della complessità dei fattori in gioco e della rilevanza di tutti gli interessi coinvolti.

D’altra parte, non vi è alcuna ragione per ritenere che, una volta compiuta – prima o dopo la ratifica della Convenzione – la scelta di incriminare le condotte di abuso d’ufficio, lo stesso art. 19 precluda allo Stato di ritornare sui propri passi, e di (ri)considerare i pro e i contra dell’incriminazione, eventualmente pervenendo alla conclusione di abolirla […]

In definitiva, questa Corte ritiene di non potere, sulla base dei parametri evocati, sindacare la complessiva efficacia del sistema di prevenzione e contrasto alle condotte abusive dei pubblici agenti risultante dall’abolizione del delitto di abuso d’ufficio, sovrapponendo la propria valutazione a quella del legislatore.

Se gli indubbi vuoti di tutela penale che derivano dall’abolizione del reato – emblematicamente illustrati dalle vicende oggetto dei quattordici giudizi a quibus – possano ritenersi o meno compensati dai benefici che il legislatore si è ripromesso di ottenere, secondo quanto puntualmente illustrato nei lavori preparatori della riforma, è questione che investe esclusivamente la responsabilità politica del legislatore, non giustiziabile innanzi a questa Corte al metro dei parametri costituzionali e internazionali esaminati.

Un’ultima precisazione appare opportuna.

Come si è chiarito, né il tenore letterale delle disposizioni della Convenzione di Mérida evocate dai rimettenti, né la loro ratio e collocazione sistematica, né – ancora – i relativi travaux préparatoires supportano in alcun modo la tesi secondo cui dalla Convenzione stessa deriverebbe un obbligo di introdurre il reato di abuso di ufficio o un divieto di abrogare la disposizione incriminatrice eventualmente già prevista nell’ordinamento interno. L’inesistenza, a giudizio di questa Corte, di un dubbio interpretativo in proposito dispensa dal valutare la possibilità […] di formulare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea avente a oggetto l’interpretazione di dette disposizioni, che peraltro vincolano l’Unione nei soli limiti delle sue competenze”.

Brevi note conclusive

La sentenza qui annotata è una vera e propria lectio magistralis.

Delinea con rigore, e senza cedere minimamente agli inviti espansionistici formulati in alcune delle ordinanze di rimessione, i confini invalicabili oltre i quali non può spingersi il controllo di costituzionalità a pena di invadere la sfera riservata in via esclusiva al legislatore.

Mette a nudo la fragilità delle argomentazioni di chi ha preteso di trarre dalla Convenzione di Merida un inesistente obbligo di criminalizzazione o di mantenimento della criminalizzazione delle condotte astrattamente classificabili come abusive.

Soprattutto, formula essa stessa un invito a tutti gli smemorati: si liberino dal riflesso pavloviano dell’immediato e spesso irriflessivo ricorso allo strumento penale e ricordino che esso è l’ultima ratio, non la prima.

Una gran bella pagina della giurisprudenza costituzionale nella materia penale.