La rivista Sistema Penale ha appena pubblicato Discrezionalità interpretativa del giudice e valore dei precedenti, a firma del Prof. Francesco Viganò, attuale vicepresidente della Corte costituzionale (consultabile a questo link).
Un argomento evergreen, una connessione non così scontata come potrebbe apparire, una sempiterna attualità legata al permanente conflitto, ora latente ora palese, tra legislatore e giudice.
Se ne consiglia convintamente la lettura integrale e intanto si prova a trarne le proposizioni essenziali.
Le tesi dell’Autore
Saranno evidenziate tra virgolette e in corsivo le espressioni riportate letteralmente.
Vi è una quasi unanime concordia sulla funzione non meramente ricognitiva dell’interpretazione giudiziaria e sulla componente di discrezionalità che la caratterizza.
Il profilo problematico non attiene dunque a questo scontato riconoscimento ma ai limiti della discrezionalità e ai loro tre differenti ordini: il testo della disposizione oggetto di interpretazione (limite sostanziale), l’obbligo di motivazione della scelta interpretativa (limite procedurale) e la tendenziale vincolatività dei precedenti (limite sostanziale).
…Il limite del testo
Il limite imposto dal testo ha la sua fonte normativa nell’art. 101, secondo comma, Cost., con l’enunciazione del principio della soggezione del giudice soltanto alla legge che, se da un lato fonda l’indipendenza funzionale del giudice da ogni altro potere, dall’altro lo vincola al dato oggettivo della legge.
A questo riguardo, il potenziale conflitto tra soggezione alla legge e discrezionalità interpretativa deve essere risolto attraverso la “sottolineatura della priorità gerarchica della legge rispetto all’attività ermeneutica: ogni operazione interpretativa compiuta dal giudice, pur se a contenuto (almeno in parte) discrezionale, deve muovere dalla legge, e deve giustificarsi al metro della legge”.
Beninteso, il giudice non può eludere questa gerarchia ricorrendo all’espediente ipocrita di presentare la propria decisione come l’unica compatibile con la legge; è tenuto, al contrario, ad assumersi con chiarezza la responsabilità della scelta compiuta ed a giustificarne la coerenza alla lettera ed allo scopo del testo normativo, alla volontà del legislatore storico ed al sistema del quale fa parte la disposizione analizzata.
È questo l’unico modo per il giudice di rendere omaggio al fondamentale principio democratico della separazione dei poteri e di non sostituire il proprio personale apprezzamento alla chiara volontà del legislatore.
Ove poi “il giudice ritenga che il bilanciamento effettuato dal legislatore sia incompatibile con i principi costituzionali, egli potrà, e anzi dovrà, sollecitare la Corte costituzionale – e dunque un’istituzione estranea al potere giudiziario – a compiere la relativa verifica, ed eventualmente ad annullare la legge illegittima”.
…Il limite dell’obbligo di motivazione
È posto in via generale dall’art. 111, sesto comma, Cost.
Spetta al giudice, differentemente dal legislatore, “il dovere di esplicitare in forma chiara e comprensibile le ragioni della sua decisione: non soltanto in punto di fatto, ma anche in punto di diritto. E dunque ha il dovere di illustrare gli argomenti che lo portano a privilegiare una data interpretazione della legge da applicare nel caso concreto, rispetto ad altre pure possibili in base al testo della legge medesima”.
Non solo: “l’obbligo di motivazione in diritto della decisione impone al giudice di esplicitare la propria opzione interpretativa nella forma di una regula iuris generale e astratta, ancorché più specifica rispetto a quella espressa dalla disposizione di legge interpretata. Una regula iuris ritagliata, certo, sulle caratteristiche del caso concreto da decidere, ma anche idonea a costituire un criterio di giudizio per tutti i casi simili futuri che si dovessero presentare: e cioè a costituire un precedente per future decisioni giudiziarie”.
Solo così è possibile soddisfare l’esigenza che la decisione, anziché frutto di una mera intuizione soggettiva, diventi al contempo razionalmente giustificabile, idonea a regolare un insieme di conflitti di interessi ed espressione di un adeguato bilanciamento degli interessi che vengono in rilievo.
…Il rispetto tendenziale dei precedenti
Il giudice soggetto solo alla legge non equivale ad un giudice solo di fronte alla legge.
Il giudice ha il dovere di sentirsi parte di un sistema e la responsabilità di operare in modo coerente ad esso.
La giurisprudenza è un sistema corale, o sinfonico se si preferisce, alla cui formazione concorrono molte voci ma in cui ciò che conta davvero non sono i solisti ma il risultato finale e la sua armonia.
Solo a queste condizioni, tra le quali si inserisce con grande rilievo la nomofilachia delle giurisdizioni superiori come la Corte di cassazione e il Consiglio di Stato, la giurisprudenza assume il valore dell’indispensabile diaframma tra il singolo giudice e la legge da interpretare.
Solo così è assicurato il rispetto del principio di uguaglianza e del suo essenziale corollario della parità di trattamento tra i consociati e della prevedibilità delle decisioni giudiziarie che è parte altrettanto essenziale del principio di legalità, tanto più nella materia penale.
Solo così la polizia e i magistrati del pubblico ministero possono “essere guidati da interpretazioni chiare e prevedibili delle leggi penali vigenti, per evitare l’instaurazione di indagini e poi di processi che fomentino aspettative di giustizia nelle persone offese e presso l’opinione pubblica, destinate poi a essere frustrate – per ragioni che attengono alla ritenuta insostenibilità della stessa prospettazione in diritto della pubblica accusa, come purtroppo spesso accade – nel lungo percorso che conduce alla decisione finale della Corte di cassazione”.
Ed ancora, solo una giurisprudenza così conformata è in grado di salvaguardare l’interesse di chi, investendo denaro, ha la necessità e il diritto di “conoscere il quadro regolatorio nel quale il proprio investimento si inserirà, e di calcolare i rischi legati alle responsabilità giuridiche connessi alle attività in cui il denaro sarà investito. Per converso, non solo l’assenza di regole legislative chiare, ma anche e soprattutto la scarsa prevedibilità delle decisioni giudiziarie relative a tali responsabilità costituirà un ovvio fattore disincentivante degli investimenti, che tenderanno a essere convogliati verso ordinamenti in grado di garantire una maggiore prevedibilità di tali decisioni”.
In conclusione, seppure il rilievo del vincolo ai precedenti non possa essere fondato sull’art. 101, secondo comma, Cost., posto che il giudice non può essere assoggettato a qualcosa di diverso dalla legge, la sua giustificazione ben può essere rinvenuta in altri principi costituzionali “che ruotano attorno a valori come la parità di trattamento tra i consociati, la tutela dell’affidamento, la prevedibilità delle conseguenze della condotta – impongano, quanto meno, un suo tendenziale dovere di coerenza rispetto alle decisioni degli altri giudici, soprattutto se pronunciate dalle giurisdizioni superiori”.
Non può ovviamente essere negata la possibilità di discostamento dai precedenti ma deve essere limitata da condizioni stringenti che rendano di palmare evidenza la necessità di nuovi orientamenti interpretativi da adattare all’evoluzione del quadro di sistema.
…Gli effetti dell’overruling in malam partem ed il rimedio possibile
Nell’incessante lavorio di adeguamento giurisprudenziale può capitare che un indirizzo successivo introduca condizioni peggiorative rispetto a quello precedente, ad esempio estendendo la latitudine applicativa di una norma incriminatrice o riducendo quella di una causa di non punibilità.
Si pone in tal modo il problema di chi, avendo tenuto una condotta in un periodo in cui la giurisprudenza la considerava lecita o non punibile, si trovi ad essere giudicato in un periodo successivo in cui la stessa condotta, secondo un orientamento sopravvenuto, sia considerata illecita o punibile.
Il rimedio più plausibile ed efficace è “l’art. 5 cod. pen., nella versione risultante dalla sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale – in grado di assicurare la non punibilità di chi abbia senza colpa confidato nella liceità della propria condotta, anche per effetto dell’affidamento ingenerato da un consolidato orientamento giurisprudenziale in tal senso.
La sua condotta ben potrà, allora, essere considerata oggettivamente illecita in forza della nuova interpretazione della normativa penale, che per forza di cose – trattandosi per l’appunto di interpretazione di una legge preesistente, e non di un novum normativo – esplicherà effetti retroattivi, riqualificando ex post come illeciti fatti che, al momento della loro commissione, non venivano considerati come reato dall’interpretazione allora dominante. Ma nessun effetto negativo potrà discendere da tale nuova qualificazione in capo all’interessato, il quale dovrà comunque essere assolto per difetto di colpevolezza, come limpidamente riconosciuto da quella storica, ma troppo spesso dimenticata, sentenza.
Brevi note di commento
Le considerazioni del Prof. Viganò meritano una particolare attenzione, non solo per la qualità delle argomentazioni di cui sono il frutto ma anche per l’assenza di qualsiasi compiacenza nella sua analisi.
Non si legge tutti i giorni di inviti ai giudici di fare a meno di espedienti ipocriti, di non agire come solisti ispirati che possono fare a meno del confronto ed ignorarlo, di motivare con rigore cartesiano le loro decisioni dando conto di ognuno dei passaggi che hanno determinato l’esito finale, di innalzare il testo normativo al di sopra di se stessi.
Fa piacere leggere inviti del genere e conforta che vengano da uno studioso che sta contribuendo con autorevolezza alla giurisprudenza costituzionale nella materia penale e scrivendo sentenze di grande pregio e di elevato valore civile.

Per quanto sembra un testo interessante con spunti plausibili di riconoscimento e’ l’incipit che ritengo il male di tutti i mali di qualsiasi societa’
“Vi è una QUASI unanime concordia sulla funzione non meramente ricognitiva dell’interpretazione giudiziaria e sulla componente di discrezionalità che la caratterizza.”
Ecco io faccio parte di quel QUASI. Il giudice, per essere un bravo giudice, deve limitare il piu’ umanamente possibile la componente di discrezionalita’ dell’interpretazione e, in caso contrario, attenersi a quella che presumibilmente aveva il legislatore.
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