La questione
Non si spengono ed anzi si intensificano le polemiche attorno alla relazione n. 33/2025 del 23 giugno 2025 (allegata alla fine del post) dell’Ufficio del Massimario della Suprema Corte sul d.l. n. 48/2025, convertito dalla L. 80/2025 (cosiddetto “decreto Sicurezza”).
Si è arrivati a mettere in dubbio e perfino negare la legittimazione del predetto Ufficio ad emettere tale atto.
Eppure, basterebbe leggere l’art. 68 dell’Ordinamento giudiziario per sapere che “Presso la corte suprema di cassazione è costituito un ufficio del massimario e del ruolo, diretto da un magistrato della corte medesima designato dal primo presidente” e che le sue attribuzioni “sono stabilite dal primo presidente della corte suprema di cassazione, sentito il procuratore generale della Repubblica”.
I più diligenti potrebbero poi darsi la pena di entrare nel sito web istituzionale della Suprema Corte e, arrivando di clic in clic al riquadro che descrive le funzioni del Massimario (a questo link), leggere che vi è compresa la stesura di “relazioni, anche di ufficio, su novità legislative, specie se di immediata incidenza sul giudizio di legittimità”.
E quindi in sintesi: l’esistenza del Massimario dipende da un atto legislativo; le sue funzioni sono stabilite dal primo presidente della Suprema Corte in virtù di una delega impartitagli dallo stesso atto; la predisposizione di relazioni su novità normative, tanto più se di così rilevante, e presumibilmente imminente, impatto sulla legislazione penale e di prossimità penale è stata inserita tra le attività che il Massimario può e deve compiere.
Le critiche volte a mettere in discussione la legittimità della relazione sembrano dunque infondate ed unicamente dettate dallo scopo di rafforzare le censure contenutistiche.
Se le cose stanno così, e sembrerebbe proprio così, meglio allora concentrarsi sul contenuto della relazione.
Lo si fa anche qui, scegliendo tra i tantissimi temi, uno di certo non centrale ma, a parere di chi scrive, assai utile per comprendere se i redattori del Massimario abbiano davvero agito animati dal furore ideologico che da più parti gli viene attribuito.
La relazione e la sua parte riguardante la sospensione condizionale della pena
A questa parte del decreto Sicurezza è dedicato il paragrafo 8 della relazione, alle pagine 42 e ss.
L’articolo pertinente del d.l. è il 13 di cui si riporta l’intero testo:
“Art. 13. (Modifiche all’articolo 10 del decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 aprile 2017, n. 48, in materia di divieto di accesso alle aree delle infrastrutture di trasporto e alle loro pertinenze nonché in materia di flagranza differita, e all’articolo 165 del codice penale in materia di sospensione condizionale della pena)
1. All’articolo 10 del decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 aprile 2017, n. 48, sono apportate le seguenti modificazioni: a) al comma 2, dopo il primo periodo è inserito il seguente: « Il questore può disporre il divieto di accesso di cui al primo periodo anche nei confronti di coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti, per alcuno dei delitti contro la persona o contro il patrimonio, di cui al libro secondo, titoli XII e XIII, del codice penale, commessi in uno dei luoghi indicati all’articolo 9, comma 1 »; b) il comma 5 è abrogato; c) al comma 6-quater, dopo le parole: « l’arresto ai sensi dell’articolo 380 del codice di procedura penale, » sono inserite le seguenti: « nonché nel caso del delitto di cui all’articolo 583-quater del codice penale, commesso in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, ».
2. All’articolo 165 del codice penale è aggiunto, in fine, il seguente comma: « Nei casi di condanna per reati contro la persona o il patrimonio commessi nelle aree delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e nelle relative pertinenze, la concessione della sospensione condizionale della pena è comunque subordinata all’osservanza del divieto, imposto dal giudice, di accedere a luoghi o aree specificamente individuati».
In sostanza:
al giudice, ove emetta una sentenza di condanna per i reati descritti nel comma 2 dell’art. 13, viene fatto obbligo di vietare al condannato l’accesso a “luoghi o aree specificamente individuati” e di subordinare la sospensione condizionale della pena all’osservanza di tale divieto;
se l’interessato viola il divieto, il giudice ha l’obbligo di revocare il beneficio (come esplicitato a pagina 17 del testo di presentazione del disegno di legge di conversione del decreto Sicurezza, anch’esso allegato alla fine del post);
contestualmente, in virtù delle modifiche apportate dall’art. 13, comma 1, si estende l’ambito applicativo del divieto di accesso alle aree urbane (DACUR), consentendo al Questore di disporlo anche nei confronti di coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti, per alcuno dei delitti contro la persona o il patrimonio di cui al libro secondo, titoli XII e XIII, del codice penale, commessi in uno dei luoghi indicati nell’articolo 9 comma 1 (ovvero le aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze).
A fronte di questa complessiva disciplina, la relazione evidenzia una serie di possibili criticità.
La prima discende dalla descrizione del contenuto del divieto di accesso che il giudice è tenuto ad irrogare: la locuzione “luoghi o aree specificamente individuati” è tale da permettere una portata molto ampia del divieto.
La seconda è legata all’eventuale applicazione retroattiva della modifica normativa.
È vero, si osserva nella relazione, che la sospensione condizionale della pena ha la natura di misura alternativa alla detenzione ma è altrettanto vero che la decisione n. 5352/2024 delle Sezioni unite penali ha escluso che tale istituto sia riconducibile alla nozione di pena.
Tuttavia, poiché l’innesto normativo cambia non l’atto concessorio o la sua procedura ma le condizioni di applicabilità dell’istituto, potrebbe ritenersi che venga in rilievo un suo aspetto sostanziale con il conseguente divieto di irretroattività in malam partem.
La terza ed ultima attiene alla commistione tra il divieto di accesso questorile e quello giudiziario.
Cosa succederebbe se il loro contenuto fosse diverso e, comunque, il giudice dovrebbe oppure no tener conto del provvedimento questorile ai fini della modulazione del divieto di propria spettanza?
L’opinione
Ci è noto adesso cosa abbiano sostenuto gli Autori della relazione sulla questione specifica presa qui in esame ed è quindi il momento delle domande.
Sono eversive le tesi che hanno sostenuto? Sono frutto di una caratterizzazione ideologica e di una connotazione politica? Più precisamente e, andando al cuore del problema, il Massimario sta facendo da quinta colonna all’ANM (e magari alla sua ala più oppositiva verso l’attuale maggioranza politica), strumentalizzando le sue funzioni?
Non ci sono risposte assolute, tanto meno ad opera di un blog che ambisce soltanto ed al massimo ad offrire opinioni decentemente sostenibili.
L’opinione è questa.
L’attribuzione al giudice dell’obbligo di imposizione del divieto di accesso nei termini sopra descritti sembra irragionevole sotto ogni aspetto.
Lo è per l’accozzaglia indistinta di reati ai quali consegue il divieto: basti qui ricordare che il riferimento generico ai reati contro la persona (Libro II, Titolo XII, Codice penale) fa sì che accanto a un delitto della più alta gravità come l’omicidio siano comprese anche le lesioni colpose che sono poste a presidio di un bene giuridico di ben minore importanza della vita e sono caratterizzate da un elemento psicologico – la colpa – che davvero non si comprende come possa essere equiparato al dolo ai fini dell’obbligo di cui si parla; lo stesso può dirsi per i reati contro il patrimonio (Libro II, Titolo XIII, Codice penale) che, accanto a fattispecie connotate da notevole gravità, comprendono anche i cosiddetti furti minori (art. 626, cod. pen.).
Lo è per la vastità dei luoghi presi in considerazione (“aree delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e nelle relative pertinenze”) e per la vaghezza della loro descrizione, tale da stimolare verosimilmente incertezze interpretative che richiederanno tempi lunghi prima di essere superate plausibilmente (il dibattito infinito sulla nozione di privata dimora dovrebbe insegnare qualcosa).
Lo è l’ampiezza che il giudice può attribuire al divieto: gli basterà, ad esempio, inserirvi tutte le aree aeroportuali e ferroviarie nazionali per annientare sostanzialmente la libertà di movimento del destinatario.
Lo è la concomitanza dell’intervento questorile e di quello giudiziale: si tratta dell’ennesimo caso di doppio binario nato dal pensiero che, in materia di ordine pubblico, l’Esecutivo preferisce disporre di competenze proprie e dirette piuttosto che affidarsi in via esclusiva al potere giudiziario.
È blasfemia dire queste cose?
Non pare proprio.
E prima ancora, è lungimirante per l’Esecutivo, ove si ragioni in termini puramente utilitaristi, varare una riforma così autoreferenziale e sorda ad ogni appello alla ragionevolezza da rendere verosimilmente inevitabili plurimi interventi demolitori?
Non pare neanche questo.
