Riparazione per ingiusta detenzione: può essere negata anche se l’imputato sia stato assolto nel giudizio abbreviato sulla base degli stessi elementi utilizzati per l’emissione della misura cautelare (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 12725/2025, udienza del 28 febbraio 2025, deposito del 2 aprile 2025, ha chiarito che, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, trova applicazione la disciplina di cui all’art. 314, comma 1, cod. proc. pen. nel caso in cui la sussistenza di gravità indiziaria posta a fondamento della limitazione della libertà personale non sia stata esclusa in fase cautelare e non sia stato accertato, in via definitiva, che la misura risulti adottata in difetto delle condizioni di cui agli artt. 273 e 280 cod. proc. pen., non rilevando che l’assoluzione dell’imputato sia stata pronunciata in esito di giudizio abbreviato, sulla base dei medesimi elementi posti a fondamento del provvedimento applicativo della misura, posto che tale evenienza, correlata alle diverse regole di giudizio applicabili nella fase cautelare e in quella di merito, è del tutto fisiologica.

Provvedimento impugnato

Con ordinanza del 24 ottobre 2024, la Corte di appello ha respinto la domanda formulata da VR per la liquidazione dell’equa riparazione dovuta ad ingiusta privazione della libertà personale sofferta dal 17 dicembre 2013 al 21 marzo 2014.

La misura cautelare fu disposta dal GIP con ordinanza del 28 gennaio 2020 per la ritenuta sussistenza di gravi indizi della partecipazione ad una associazione a delinquere ex art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 [capo 1)] e del reato di cui agli artt. 81, comma 2, 110 cod. pen., 73 e 80, lett. b) d.P.R. n. 309/90, in relazione all’art. 112 n. 4 cod. pen. [capo 15)].

Risulta dagli atti: – che il 4 luglio 2020 VR fu interrogato ai sensi dell’art. 294 cod. proc. pen. e respinse ogni addebito; – che l’ordinanza genetica fu impugnata di fronte al Tribunale per il riesame il quale, con ordinanza del 23 luglio 2020, confermata la sussistenza di un grave quadro indiziario a carico di VR per entrambi i reati oggetto di imputazione, sostituì la custodia in carcere con gli arresti domiciliari (attenuazione, peraltro, già disposta dal GIP in data 8 luglio 2020); – che l’ordinanza del Tribunale per il riesame fu annullata dalla Corte di cassazione con sentenza del 26 novembre 2020 in accoglimento del ricorso proposto dall’indagato; – che, con ordinanza del 18 febbraio 2021, giudicando in sede di rinvio, il Tribunale confermò la gravità del quadro indiziario; – che un nuovo ricorso per cassazione proposto dall’indagato fu dichiarato inammissibile con sentenza del 22 giugno 2021 per «sopravvenuta carenza di interesse alla definizione dell’incidente cautelare» atteso che, in data 7 maggio 2021, all’esito di giudizio abbreviato, il GIP aveva assolto VR dalle imputazioni a lui scritte «per non aver commesso il fatto» e ne aveva disposto l’immediata liberazione; che la sentenza di assoluzione pronunciata in primo grado, impugnata dal PM è stata confermata in appello con sentenza del 7 luglio 2022, divenuta definitiva il 19 novembre 2022. L’istanza volta ad ottenere la liquidazione di un equo indennizzo per la privazione della libertà personale ingiustamente sofferta è stata proposta il 5 luglio 2024.

La Corte di appello l’ha respinta ritenendo sussistente una colpa grave ostativa ai sensi dell’art. 314, comma 1, cod. proc. pen.

Ricorso per cassazione

Contro il provvedimento della Corte di appello, VR ha proposto tempestivo ricorso per mezzo del difensore munito di procura speciale.

La difesa deduce violazione di legge e vizi di motivazione, osservando che la Corte di appello ha considerato come gravemente colposi comportamenti valorizzati nell’ordinanza cautelare senza tenere conto del contenuto delle sentenze di assoluzione e del significato che quelle sentenze hanno attribuito sia alla presenza di VR nei luoghi ove operava l’associazione, sia al contenuto delle conversazioni telefoniche che lo hanno coinvolto.

In tesi difensiva, i comportamenti valorizzati dalla Corte di appello hanno potuto essere ritenuti gravemente colposi solo perché è stato ignorato il percorso motivazionale delle sentenze di merito.

Secondo la difesa, a ciò deve aggiungersi che l’assoluzione è intervenuta all’esito di giudizio abbreviato, sulla base dei medesimi elementi che erano stati valutati ai fini della applicazione della misura cautelare. Il difensore rileva che il valore indiziante di tali elementi è sempre stato contestato dalla difesa e ricorda che, con sentenza n. 1616/21 del 26 novembre 2020, la Corte di cassazione valutò «carente l’analisi della gravità indiziaria» in relazione alla posizione di VR e al suo coinvolgimento nei reati contestati ai capi 1) e 15) e, per questo, annullò l’ordinanza con la quale il Tribunale per il riesame aveva confermato l’ordinanza applicativa della misura.

Decisione della Suprema Corte

Il ricorso è infondato.

Il contenuto dei motivi di ricorso impone di delineare con precisione l’oggetto del presente giudizio di riparazione.

Non è sufficiente a tal fine il riferimento all’art. 314 cod. proc. pen., atteso che possono ricondursi entro l’ambito operativo di questa norma più ipotesi di ingiusta privazione della libertà personale in relazione alle quali il sorgere del diritto all’indennizzo si fonda su presupposti diversi.

Nel presente procedimento hanno astratta rilevanza due diverse ipotesi di applicazione dell’istituto in esame: – la prima, disciplinata dal primo comma dell’art. 314 cod. proc. pen., riguarda la, così detta, “ingiustizia sostanziale” della detenzione e si verifica quando una persona – prosciolta perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato – era stata sottoposta, per quel fatto, a misura cautelare privativa della libertà personale; – la seconda, disciplinata dall’art. 314, comma 2, cod. proc. pen., riguarda la così detta “ingiustizia formale” e si verifica quando una persona – prosciolta per qualsiasi causa o anche condannata – sia stata sottoposta, nel corso del procedimento o del processo, a misura cautelare privativa della libertà personale e si sia accertato, con decisione irrevocabile, che la misura era stata disposta o mantenuta «senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280» del codice di rito.

La giurisprudenza si è chiesta se la circostanza di avere dato o concorso a dare causa per dolo o colpa grave all’applicazione della misura cautelare possa operare quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione solo con riferimento alle ipotesi di “ingiustizia sostanziale” di cui all’art. 314, comma 1, cod. proc. pen. (per le quali è espressamente prevista) o anche con riferimento alle ipotesi di “ingiustizia formale” ex art. 314 comma 2 cod. proc. pen. e ha concluso positivamente.

Si è affermato che, in linea di principio, tale condizione ostativa opera «anche in relazione alle misure disposte in difetto delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen.», fatta eccezione per i casi in cui l’accertamento della insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura avvenuta sulla base di una diversa valutazione dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare. In questi casi, infatti, la possibilità di valutare l’incidenza della condotta dolosa o colposa dell’imputato è preclusa dalla constatazione che il giudice della cautela disponeva, per negare o revocare la misura, degli stessi elementi sulla base dei quali il giudice di merito ha escluso la sussistenza delle condizioni di applicabilità della stessa, sicché la condotta dell’interessato, ancorché dolosa o gravemente colposa, non può aver avuto efficacia sinergica rispetto alle determinazioni assunte nella fase cautelare (Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, D’Ambrosio, Rv. 247663; nello stesso senso, fra le tante: Sez. 4, n. 5452 del 11/01/2019, Rv. 275021).

Per quanto riguarda la nozione di «decisione irrevocabile» di cui all’art. 314, comma 2, dopo una iniziale incertezza, la giurisprudenza si è consolidata nell’affermare che tale nozione comprende, oltre alle decisioni adottate in fase cautelare, anche quelle adottate all’esito del giudizio di merito, purché incidenti, sin dall’origine, sulle condizioni di applicabilità della misura. Di conseguenza, è stata ritenuta ravvisabile una “ingiustizia formale” nel caso in cui, nel giudizio di merito, il fatto sia diversamente qualificato come reato punibile con pene edittali inferiori a quelle indicate nell’art. 280, comma primo, cod. proc. pen. (Sez. 4, n. 8869 del 22/01/2007, Rv. 240332; Sez. 4 n. 44596 del 16/4/2009, Rv. 245437; Sez. 4, n. 8021 del 28/01/2014, Rv. 258621; Sez. 4, n. 26261 del 23/11/2016, Rv. 270099; Sez. 4, n. 16175 del 22/04/2021, Rv. 281038); oppure quando, all’esito del giudizio di cognizione e della diversa qualificazione in esso attribuita ai fatti, sia stata ritenuta necessaria una condizione di procedibilità in difetto della quale la misura cautelare non avrebbe potuto essere applicata (Sez. 4, n. 23896 del 09/04/2008, Rv. 240333; Sez. 4 n. 43458 del 15/10/2013, Rv. 257194; Sez. 4, n. 39535 del 29/05/2014, Rv. 261408).

Queste conclusioni non implicano, però, che le ipotesi previste dall’art. 314, commi 1 e 2, cod. proc. pen. possano essere assimilate. Non implicano, dunque, che il giudice della riparazione debba sempre valutare se, per negare o revocare la misura, il giudice della cautela degli stessi elementi sulla base dei quali il giudice di merito ha escluso la sussistenza delle condizioni di applicabilità della stessa.

Nei casi di “ingiustizia formale” – che ricorrono quando una decisione irrevocabile ha escluso la sussistenza dei presupposti per la applicazione della misura (decisione che può intervenire a chiudere la fase cautelare o derivare dalla diversa qualificazione giuridica del fatto definitivamente compiuta nel giudizio di merito) – la rilevanza sinergica della colpa grave ostativa è esclusa se le condizioni di applicabilità della misura sono state ritenute insussistenti sulla base dei medesimi elementi che avevano portato alla privazione della libertà personale. In questi casi non v’è ragione di valutare il comportamento dell’indagato perché quel comportamento non può aver avuto rilevanza sinergica rispetto a una privazione della libertà personale avvenuta, ab origine, fuori dai casi consentiti.

Com’è evidente, infatti, la condotta dell’indagato può causare (o concausare) la privazione della libertà personale, ma non può incidere sulle valutazioni giurisdizionali in ordine alla sussistenza delle condizioni legittimanti l’adozione di una misura cautelare e, se è stato accertato con decisione definitiva che mancavano fin dall’inizio le condizioni legittimanti l’applicazione della misura, si è accertato che, in concreto, le valutazioni compiute dal giudice della cautela erano “errate” e la misura non avrebbe potuto essere disposta, a prescindere dalla natura dolosa o gravemente colposa del comportamento dell’indagato (sull’argomento: Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, D’Ambrosio, Rv. 247663-01; Sez. 4, n. 22806 del 06/02/2018, Rv. 272993; Sez. 4, n. 54042 del 09/11/2018, Rv. 274765; Sez. 4, n. 22103 del 21/03/2019, Rv. 276091).

Diverso è il caso in cui, rispetto ad un quadro indiziario confermato da decisioni irrevocabili (o non smentito nel corso della fase cautelare) e riferito ad un titolo di reato che consente la privazione della libertà personale, l’imputato sia stato assolto perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. In questi casi, disciplinati dall’art. 314, comma 1, cod. proc. pen., la valutazione dell’incidenza della condotta dolosa o colposa dell’imputato sulla privazione della libertà personale è sempre doverosa ed è irrilevante che gli elementi addotti a sostegno del provvedimento cautelare fossero gli stessi sulla base dei quali l’assoluzione è stata pronunciata. In questi casi non si discute della astratta applicabilità della misura (che non è stata definitivamente esclusa), sicché il giudice della riparazione deve valutare se la persona privata della libertà personale abbia tenuto condotte dolose o gravemente colpose ostative al riconoscimento del diritto all’indennizzo perché causali (o concausali) rispetto alla privazione della libertà personale. Di conseguenza, quando decide sull’esistenza del dolo o della colpa grave ostativi al riconoscimento dell’indennizzo ai sensi dell’art. 314, comma 1, cod. proc. pen., il giudice della riparazione incontra il solo limite di non poter fondare il proprio giudizio su fatti esclusi dal giudice della cognizione, restando libero di valutare autonomamente tutti i fatti che in quel giudizio sono stati accertati o non negati (Sez. 4, n. 46469 del 14/09/2018, Rv. 274350; Sez. 4, n. 1573 del 18/12/1993, dep. 1994, Rv. 198491).

Come è stato opportunamente sottolineato, ai fini dell’accertamento della condizione ostativa del dolo o della colpa grave, può darsi rilievo agli stessi fatti accertati nel giudizio penale di cognizione» e non rileva che quest’ultimo «si sia definito con l’assoluzione dell’imputato sulla base degli stessi elementi posti a fondamento del provvedimento applicativo della misura cautelare, trattandosi di un’evenienza fisiologicamente correlata alle diverse regole di giudizio applicabili nella fase cautelare e in quella di merito, valendo soltanto in quest’ultima il criterio dell’aldilà di ogni ragionevole dubbio» (Sez. 4, n. 2145 del 13/01/2021, Rv. 280246).

Il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione, infatti, impegna piani di indagine diversi rispetto al giudizio penale di cognizione e ciò può portare a conclusioni diverse «sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti, ma sottoposto ad un vaglio caratterizzato dall’utilizzo di parametri di valutazione differenti» (Sez. 4, n. 39500 del 18/06/2013, Rv. 256764). Alla luce dei principi di diritto illustrati, si deve concludere che la difesa del ricorrente incorre in errore quando sostiene che, nel caso di specie, non si doveva valutare la sussistenza di condotte ostative perché l’assoluzione è intervenuta, all’esito di giudizio abbreviato, sulla base dei medesimi elementi che erano stati valutati ai fini della applicazione della misura cautelare. Tale argomentazione, infatti, sarebbe pertinente se dovesse trovare applicazione l’art. 314, comma 2, cod. proc. pen. e fosse stato accertato, con decisione irrevocabile, che la misura era stata disposta o mantenuta «senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280» del codice di rito, ma così non è nel caso di specie.

La difesa riferisce che, con sentenza n. 1616/21 del 26 novembre 2020, la sesta sezione penale della Suprema Corte ha annullato l’ordinanza del 21 luglio 2020 con la quale il Tribunale per il riesame di Roma aveva confermato l’ordinanza applicativa della misura. La sentenza è allegata al ricorso e dalla stessa emerge (pag. 5) che il collegio decidente valutò «carente l’analisi della gravità indiziaria» in relazione alla posizione di VR e al suo coinvolgimento nei reati contestati ai capi 1) e 15).

La difesa, tuttavia, riferisce (e questo dato trova conferma nella lettura dell’ordinanza impugnata): che alla sentenza di annullamento seguì, in data 18 febbraio 2021, – un’ordinanza del Tribunale per il riesame; – che il giudice del rinvio confermò l’ordinanza del GIP e la gravità del quadro indiziario; – che il ricorso proposto contro questa decisione fu valutato inammissibile dalla seconda sezione penale della Suprema Corte, con sentenza del 22 giugno 2021.

Tale dichiarazione di inammissibilità fu pronunciata «per sopravvenuta carenza di interesse alla definizione dell’incidente cautelare» conseguente alla assoluzione intervenuta in primo grado e alla contestuale revoca della misura.

Ne consegue che, nel caso oggetto del presente ricorso, la disposizione di cui all’art. 314, comma 2, cod. proc. pen. non trova applicazione perché non è stato accertato con decisione irrevocabile che la misura cautelare era stata applicata in difetto dei presupposti di legge.

A questo proposito è utile ricordare: – che un consolidato indirizzo giurisprudenziale riconosce l’interesse dell’indagato a coltivare il ricorso per cassazione anche quando la misura cautelare sia stata revocata o abbia perso efficacia, proprio in funzione dell’interesse a precostituirsi una decisione irrevocabile utilizzabile ai fini della riparazione per la ingiusta detenzione e, quindi, limitatamente alla sussistenza degli indizi di colpevolezza, (Sez. 3, n. 42964 del 04/10/2007, Rv. 238107; Sez. 1, sentenza n. 25277 del 27/05/2008, Rv. 240944); – che la pronunzia inoppugnabile di annullamento di una misura cautelare privativa della libertà personale adottata nel procedimento incidentale “de líbertate” «costituisce “decisione irrevocabile”, idonea, nei casi di proscioglimento o di condanna di cui all’art. 314 comma secondo cod. proc. pen., a fondare il diritto dell’indagato alla riparazione per l’ingiusta detenzione» (Sez. U, n. 20 del 12/10/1993, Durante, Rv. 195355); – che l’interesse dell’indagato a precostituirsi il titolo in funzione della futura richiesta di equa riparazione per l’ingiusta detenzione ai sensi dell’art. 314, comma 2, cod. proc. pen. non può essere presunto e ritenuto d’ufficio, ma deve essere dedotto.

Si è argomentato a tal fine che – salvi i casi in cui sia dedotta la violazione di legge sostanziale ex art. 606 lett. b) cod. proc. pen. – il sindacato del giudice di legittimità riguarda di regola il difetto di motivazione sulla sussistenza del quadro indiziario e, pertanto, l’indagato deve dedurre di avere interesse alla decisione sull’esistenza dei vizi di motivazione.

Si è sostenuto, quindi, che tale interesse deve «essere manifestato in termini positivi e univoci» e il giudice deve valutarne «la concretezza ed attualità» (Sez. 6, n. 4222 del 26/11/2007, dep. 2008, Rv. 238719; Sez. 6, n. 9943 del 15/11/2006, dep. 2007, Rv. 235887; Sez. 5, n. 4447 del 05/12/2006, dep. 2007, Rv. 235885).

Muovendo da queste premesse si deve osservare che, nel caso di specie, la seconda sezione penale ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto da VR contro l’ordinanza del Tribunale per il riesame del 18 febbraio 2021 perché il ricorrente non aveva fornito indicazioni sul «persistente interesse alla definizione dell’incidente cautelare» (così testualmente pag. 2 della sentenza n. 39283/21 del 22/06/2021) e, così facendo, non aveva coltivato l’impugnazione ai fini del riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione.

A differenza di quanto sostenuto dalla difesa, dunque, la gravità del quadro indiziario non è stata smentita nella fase cautelare e non è stato accertato con decisione definitiva che la misura cautelare fosse stata disposta in difetto delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 cod. proc. pen.

Ne consegue che, nel caso di specie, la disposizione di cui all’art. 314, comma 2, cod. proc. pen. non può trovare applicazione e l’ordinanza impugnata non può essere censurata per non aver considerato che l’assoluzione è intervenuta, all’esito di giudizio abbreviato, sulla base dei medesimi elementi che erano stati valutati ai fini della applicazione della misura cautelare.

Come si è detto, nel valutare la sussistenza di condotte dolose o gravemente colpose ostative al riconoscimento del diritto all’indennizzo ai sensi dell’art. 314, comma 1, cod. proc. pen., il giudice della riparazione deve attenersi alla ricostruzione dei fatti operata dai giudici della cognizione e può fare riferimento soltanto a condotte che nel giudizio di merito siano state accertate o non negate.

Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata ha individuato quali condotte gravemente colpose che determinarono l’applicazione della misura cautelare: – una conversazione telefonica (progressivo n. 3955, RIT 303/19) nella quale VR raccontò al coindagato AZ (gravemente indiziato di aver promosso e diretto l’associazione) le modalità dell’arresto di AS e SC (arresto avvenuto nella flagranza di attività di spaccio) (pag. 7 dell’ordinanza impugnata); – una conversazione nella quale altro coindagato (LF) informò il ricorrente di aver acquistato a xxx marjuana di ottima qualità (progressivo n. …), valutata unitamente ad altra conversazione nella quale LF avrebbe chiesto a VR di controllare se lo stupefacente fosse ben nascosto (progressivo n. …); – una conversazione nella quale VR, tratto in arresto per aver ceduto gr. 1,20 di hashish a GC, commentò con LF la vicenda dicendo che avrebbe preso «a mazzate in bocca GC» perché aveva parlato (progressivo n. …); – la presenza di VR «sulle “scalette” della piazza ove avveniva lo spaccio di sostanze stupefacenti», attestata da alcune fotografie acquisite agli atti e dall’esito di controlli sul territorio.

Secondo la Corte di appello, tali condotte sono connotate da colpa grave perché dimostrano la «vicinanza» tra VR e altri indagati e documentano che egli non era estraneo alle attività di spaccio. L’ordinanza impugnata osserva, inoltre, che queste condotte furono valutate dal GIP e contribuirono a creare la falsa apparenza della partecipazione di VR ai reati per i quali fu applicata la misura cautelare. Nel contrastare tali conclusioni, la difesa osserva che i giudici della riparazione si sono limitati a riportare il contenuto dell’ordinanza cautelare senza tenere conto delle motivazioni delle due conformi sentenze di assoluzione (quella del GUP del 7 maggio 2021 e quella della Corte di appello del 7 luglio 2022) e senza neppure considerare che la Corte di cassazione, con sentenza del 26 novembre 2020, ha ritenuto carente la motivazione del primo provvedimento cautelare (e dell’ordinanza del Tribunale del riesame del 23 luglio 2020) proprio quanto alla gravità del quadro indiziario. Il ricorrente sottolinea che le sentenze in questione hanno esaminato tutti gli elementi di accusa richiamati dall’ordinanza cautelare /escludendo che potessero condurre alla affermazione della penale responsabilità, ma la Corte di appello le ha ignorate e ha fatto riferimento soltanto al contenuto dell’ordinanza cautelare.

Si è già detto – ma è opportuno qui ribadirlo – che il giudice della riparazione non può ritenere sussistente la colpa grave ostativa sulla base difatti la cui esistenza sia stata esclusa dal giudice della cognizione. Pertanto, l’ordinanza che decide sull’istanza volta ad ottenere la liquidazione di un equo indennizzo deve tenere conto delle motivazioni dell’assoluzione e verificare quali, tra i fatti posti a fondamento della ordinanza cautelare, siano stati affermati o non negati nel giudizio di merito.

Nel caso di specie, questo riferimento è stato omesso. Nel ritenere sussistenti comportamenti gravemente colposi ostativi al riconoscimento del diritto all’indennizzo, infatti, la Corte di appello ha richiamato soltanto il contenuto del provvedimento cautelare.

L’atto di ricorso, tuttavia, non sostiene che i comportamenti descritti dai giudici della riparazione siano stati esclusi nel giudizio di cognizione. In particolare, non sostiene che le sentenze di assoluzione abbiano attribuito un differente contenuto alle conversazioni telefoniche citate nel provvedimento oggetto del presente ricorso e neppure che il giudizio di cognizione abbia escluso rapporti di frequentazione tra VR e altri indagati.

A ciò deve aggiungersi che all’atto di ricorso non sono allegate le sentenze di assoluzione, ma i provvedimenti adottati nella fase cautelare dal Tribunale per il riesame e dalla Corte di cassazione, e ciò è coerente con l’impostazione dei motivi.

La difesa, infatti, non si duole che la Corte di appello abbia ritenuto gravemente colposi comportamenti che sono stati esclusi nel giudizio di cognizione; si duole, invece, che l’ordinanza impugnata abbia valorizzato (ritenendole idonee ad integrare una colpa ostativa) condotte alle quali non poteva essere attribuita valenza indiziaria.

In sintesi: il ricorrente non contesta di aver frequentato luoghi nei quali avveniva attività di spaccio; non nega di essere stato arrestato nella flagranza della cessione di una dose di hashish; non nega neppure di aver manifestato l’intenzione di punire l’acquirente che aveva fatto il suo nome. Sostiene, però, che queste condotte sono giustificate dal fatto che, all’epoca, egli faceva uso di stupefacenti e la sua fidanzata abitava nel quartiere di C. (luogo nel quale l’associazione era operativa) sicché la sua presenza nei luoghi dello spaccio non dipendeva dallo svolgimento di attività illecite, ma dalle visite alla ragazza.

Si deve ricordare allora che, per giurisprudenza costante, le frequentazioni ambigue con coloro che fanno parte di una consorteria dedita a traffici illeciti, che siano idonee ad essere oggettivamente interpretate come complicità, sono segni sufficienti a creare la falsa rappresentazione del reato posta a fondamento del provvedimento cautelare.

Com’è stato opportunamente sottolineato, infatti, tali condotte, per la loro prossimità all’ambiente criminale, possono facilmente indurre l’apparenza della partecipazione al reato o (come nel caso di specie) dell’appartenenza ad una compagine associativa, e, in quanto macroscopicamente imprudenti e causalmente connesse con la decisione adottata nei confronti dell’interessato, ben possono essere inquadrate nella colpa grave.

Le argomentazioni della Corte territoriale sul punto appaiono pienamente conformi al principio di autoresponsabilità (più volte richiamato nella giurisprudenza della Suprema Corte), in ragione del quale la regola solidaristica sottesa al diritto all’equa riparazione, non può essere invocata in presenza di una condotta volta alla realizzazione di un evento voluto confliggente con una prescrizione di legge, ma neppure a fronte di una condotta consapevole che – valutata dal giudice della riparazione secondo le ordinarie regole di esperienza – sia tale da creare una situazione di allarme sociale che imponga l’intervento dell’autorità giudiziaria. In questo senso è gravemente colposo quel comportamento che, pur non integrando il reato, determini – per grave negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari – una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso (cfr. Sez. U, n. 43 del 13/12/1995, dep. 1996, Sarnataro, Rv. 203637).

Il giudice della riparazione, infatti, deve valutare – secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel giudizio di merito – se le condotte la cui sussistenza è stata accertata (o non negata) in quel giudizio, ancorché non integranti estremi di reato, abbiano ingenerato la falsa apparenza di un illecito penale (Sez. 4, n. 3359 del 22/09/2016, dep. 2017, Rv. 268952).

Non rileva ai fini che qui interessano se alle condotte valorizzate nel giudizio di riparazione potesse essere attribuita valenza indiziaria.

Questo argomento, infatti, potrebbe assumere rilievo ai sensi dell’art. 314, comma 2, cod. proc. pen. e, come si è chiarito, nel caso oggetto del presente ricorso questa disposizione non può essere applicata.