Ricusazione: sempre angusti i margini di applicabilità dell’istituto consentiti dalla giurisprudenza di legittimità (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 22548/2025, udienza del 6 giugno 2025, deposito del 16 giugno 2025, prosegue l’orientamento interpretativo di legittimità che sottopone a rigorosi limiti la ricusazione dei giudici.

Provvedimento impugnato

Con ordinanza in data 24 febbraio 2024 (depositata il 10/3/2025), la Corte territoriale ha rigettato la dichiarazione di ricusazione proposta nell’interesse di GF nei confronti di due giudici nel procedimento a suo carico n. XXXX RGNR.

GF a sostegno della propria dichiarazione ex art. 37 e segg. cod. proc. pen. aveva dedotto di essere imputato in altro procedimento (n. YYYY RGNR) per tre ipotesi di reato relative a condotte di estorsione aggravate dall’agevolazione del presunto clan di appartenenza (clan ZZZZ) e di essere stato condannato per tali fatti con sentenza confermata anche dalla Corte di appello in data 23 settembre 2024, il cui collegio giudicante era composto anche dai due giudici ricusati.

Lo stesso ricusante rappresentava che nel procedimento n. XXXX RGNR pendente innanzi alla stessa Corte di appello, il cui collegio è composto dai giudici ricusati, l’imputato è chiamato a rispondere anche del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. (oltre che di altro) per una condotta di partecipazione associativa di tipo ‘ndranghetistico riconducibile al clan ZZZZ, con il precipuo compito di commettere, per conto ed a beneficio del sodalizio, una serie di reati fine e aggiungeva che l’associazione di tipo mafioso oggetto di imputazione nel proc. n. XXXX RGNR è contestata come unitaria rispetto a quella di cui al proc. n. YYYY RGNR, con la conseguenza che i giudici ricusati saranno chiamati a valutare le medesime fonti di prova.

Ricorso per cassazione

Ricorre per cassazione avverso il predetto provvedimento il difensore dell’imputato deducendo, con motivo unico, violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. per erronea applicazione dell’art. 38 cod. proc. pen. come richiamato dall’art. 41, comma 1, cod. proc. pen. ed in relazione all’art. 125, comma 3, cod. proc. pen.

Sulla premessa che la Corte di appello ha rigettato la richiesta di ricusazione ritenendo che l’incompatibilità dei giudici ricusati non poteva essere valutata in astratto in quanto non era stata ancora depositata la motivazione del procedimento già conclusosi innanzi alla Corte di appello e non essendo idoneo a provare l’incompatibilità dei magistrati a procedere al nuovo giudizio il solo deposito del dispositivo della sentenza stessa, rileva la difesa del ricorrente che l’oggettiva impossibilità di fornire il predetto documento non potrebbe legittimare di per sé il rigetto della richiesta di ricusazione.

A ciò si aggiunge, prosegue parte ricorrente, che la difesa aveva altresì segnalato che trattandosi di decisione (quella emessa in sede di gravame) confermativa della sentenza di primo grado (allegata alla dichiarazione di ricusazione), che era stata attinta da specifica impugnazione proprio sul punto che interessa (esistenza del clan ZZZZ ed intraneità nello stesso del Fortuna), pacificamente poteva ritenersi, senza bisogno di leggere la motivazione della sentenza di appello, che i giudici ricusati avessero esaminato ed espresso il proprio convincimento sul medesimo materiale probatorio.

Decisione della Corte Suprema

Il ricorso non è fondato.

Come si è detto, secondo parte ricorrente, l’attività posta in essere dai giudici ricusati consisterebbe nel fatto che gli stessi hanno fatto parte del collegio della Corte di appello che in data 23 settembre 2024 ha confermato la sentenza di condanna pronunciata in primo grado nei confronti di GF per tre delitti di estorsione, tutti aggravati dall’agevolazione mafiosa del clan ZZZZ e dal metodo mafioso, di talché i predetti magistrati sarebbero incompatibili a giudicare lo stesso soggetto nel presente procedimento penale in relazione al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., a lui contestato, in quanto appartenente all’associazione di stampo mafioso denominata clan ZZZZ.

Occorre, innanzitutto, ricordare che, come già sopra evidenziato, la Corte di appello ha ritenuto non sufficienti a provare l’ipotesi di incompatibilità dei giudici interessati gli atti allegati alla dichiarazione di ricusazione (sentenza di primo grado del proc. n. YYYY RGNR e dispositivo della sentenza di appello) osservando che la valutazione della dedotta situazione non può essere effettuata in astratto.

La Corte territoriale ha correttamente richiamato un precedente giurisprudenziale (Sez. 1, n. 21064 del 12/05/2010, Rv. 247578 – 01) secondo il quale “non è passibile di ricusazione il magistrato componente della Corte di Assise davanti alla quale è incardinato un procedimento penale per reati di omicidio commessi al fine di agevolare un’associazione di tipo mafioso, e quindi aggravati ai sensi dell’art. 7 D.L. n. 152 del 1991, convertito in legge n. 203 del 1991, che abbia già concorso alla pronuncia di condanna dello stesso imputato per il reato associativo sulla base delle dichiarazioni dei medesimi collaboratori di giustizia da escutere nel nuovo dibattimento” (Sez. 1, n. 21064 del 12/05/2010, Rv. 247578 – 01).

Nella pronuncia appena indicata si è chiarito che la Corte costituzionale, con sentenza del 14 luglio 2000 n. 283, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 37, comma 1, cod. proc. pen., dettato in tema di ricusazione, nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato dalle parti il giudice che, chiamato a decidere in ordine alla responsabilità di un imputato, abbia espresso in un altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito “sullo stesso fatto” e nei confronti del medesimo soggetto.

Tuttavia, nel caso in esame non è data ravvisare una situazione di pregiudizio del tipo di quella delineata dalla Corte costituzionale con la sentenza anzidetta, soprattutto se si tiene conto del

carattere di eccezionalità costantemente riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte alle norme sulla ricusazione, tale da escludere la possibilità di far luogo ad interpretazioni estensive od analogiche delle relative norme.

Infatti, l’ordinanza impugnata ha correttamente rilevato la sostanziale diversità dei procedimenti de quibus (associazione a delinquere di stampo mafioso l’uno; tre fatti estorsivi

aggravati l’altro) unita all’assenza di prova, che potrebbe derivare solo dalla lettura della motivazione della sentenza dagli stessi pronunciata nel secondo di detti procedimenti e non ancora disponibile, che i magistrati ricusati nel precedente processo relativo alle estorsioni, abbiano manifestato, seppure in via incidentale, valutazioni in ordine alla posizione dell’odierno ricorrente riferita all’addebito di partecipazione all’associazione di stampo mafioso che costituiscono l’oggetto del procedimento nel quale è stata proposta la ricusazione nel cui ambito i delitti di estorsione sarebbero maturati.

Va poi rilevato che, alla stregua della condivisibile giurisprudenza di legittimità, neppure costituisce valido motivo di ricusazione la pretesa identità delle fonti probatorie valutate nel precedente procedimento e da valutare nell’ambito di quello, per il quale è stata proposta istanza di ricusazione, atteso che una medesima fonte probatoria, considerata importante ed attendibile in un processo, ben potrebbe non esserlo altrettanto in un diverso procedimento (cfr. Sez. 1, n. 25526 del 12/04/2001, Rv. 219360).

Sul punto deve, ancora, essere ricordato che sempre la Suprema Corte ha chiarito che non è passibile di ricusazione il giudice che, nei confronti del soggetto imputato di un fatto aggravato

dall’essere stato commesso per agevolare un’associazione mafiosa, abbia in precedenza pronunciato condanna per altri fatti, commessi in tempi diversi, ma pure aggravati dell’essere stati realizzati per agevolare la medesima associazione mafiosa (Sez. 1, n. 22794 del 13 maggio 2009, Rv. 244381; in tal senso anche Sez. 5, n. 15201 del 10/2/2016, Rv. 266865, in motivazione), pur tuttavia chiarendo che tale conclusione viene meno se “nella prima occasione egli abbia incidentalmente espresso il proprio convincimento su quelli oggetto del successivo procedimento”, poi anche evidenziando, in linea più generale, che “La valutazione espressa dal giudice in un provvedimento reso nell’ambito di un procedimento connesso o collegato a quello del quale è investito, concernente lo stesso imputato ma un reato storicamente diverso, laddove funzionale all’esercizio della funzione decisoria, non costituisce indebita manifestazione del proprio convincimento, suscettibile di fondare una richiesta di ricusazione ex art. 37, comma 1, lett. b) cod. proc. pen.; né essa dà luogo ad una situazione di incompatibilità rilevante ex art. 37, comma 1, lett. a) cod. proc. pen., non potendo configurarsi, in assenza dell’identità del fatto storico, alcuna compromissione del principio dell’imparzialità, inteso sia in chiave costituzionale che convenzionale” (Sez. 5, n. 21146 del 07/02/2019, Rv. 275347 – 01).

A ciò si aggiunge che, come già sopra accennato, «Le norme che prevedono le cause di ricusazione sono norme eccezionali e, come tali, di stretta interpretazione, sia perché determinano limiti all’esercizio del potere giurisdizionale e alla capacità del giudice sia perché consentono un’ingerenza delle parti nella materia dell’ordinamento giudiziario, che attiene al rapporto di diritto pubblico fra Stato e giudice; sicché la mera connessione probatoria tra due procedimenti che non comporti una valutazione di merito svolta da uno stesso giudice sul medesimo fatto e nei confronti di identico soggetto non determina la sussistenza di una ipotesi di ricusazione, non potendosi ritenere “pregiudicante” l’attività dei giudici ricusati che abbiano partecipato al collegio che ha valutato, in altro e diverso procedimento a carico dello stesso imputato, le stesse fonti di prova in relazione ad un diverso reato o comunque a diversi fatti” (Sez. 6, n. 14 del 18/09/2013, dep. 2014, Rv. 258449 – 01).

Traslando ora i predetti principi nella vicenda qui in esame deve, innanzitutto, osservarsi che appare risolutivo il fatto che la prova del pregiudizio deve essere concretamente addotta dal ricusante e non solo astrattamente allegata e che la Corte di appello ha osservato come nel caso di specie detta prova non è stata fornita atteso che il mancato deposito della motivazione della sentenza di condanna per i fatti estorsivi adottata dai giudici ricusati impedisce oggettivamente ogni concreta valutazione al riguardo, che non può essere desunta dal mero dispositivo, tanto più in ragione della diversità tra i fatti-reato oggetto del più recente giudizio (art. 416-bis cod. pen.) e i delitti per i quali lo stesso soggetto è stato già giudicato e condannato in via definitiva, non assumendo rilievo al riguardo la circostanza che i delitti di estorsione fossero aggravati dall’agevolazione e dal metodo mafioso, in quanto la sussistenza di detta aggravante non dimostra di per sé l’appartenenza del soggetto al sodalizio criminoso, potendo essere contestata (e ritenuta) al non associato ed, invece, esclusa per l’associato (Sez. U, n. 10 del 28/03/2001, Cinalli, Rv. 218378).

Né può avere rilievo la circostanza, su cui fa leva, in particolare, il ricorrente, che la decisione di secondo grado del presente processo (alla cui pronuncia hanno concorso i due magistrati ricusati) è confermativa di quella di primo grado nella quale, a dire dello stesso ricorrente, sarebbe stato affrontato sia il tema dell’esistenza del clan ZZZZ, sia l’intraneità ad esso del GF: ciò in quanto la validazione da parte di giudici d’appello dell’opzione decisionale di primo grado è ancora priva di motivazione e, quindi, manca allo stato la prova della sussistenza di una pregressa valutazione concretamente pregiudicante, non essendo possibile accertare se i giudici ricusati abbiano in quel processo incidentalmente espresso il proprio convincimento sul fatto oggetto del successivo procedimento.

Da quanto sopra consegue il rigetto del ricorso in esame.