Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 22551/2025, udienza del 6 giugno 2025, deposito del 16 giugno 2025, ha affermato che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione.
Provvedimento impugnato
Con sentenza in data 28 ottobre 2024 la Corte territoriale, per la parte in questa sede di interesse, ha confermato la sentenza del 12 gennaio 2022 del GIP presso il Tribunale della stessa città con la quale, all’esito di giudizio abbreviato, era stata affermata la penale responsabilità di RR con riguardo ai reati di cui agli artt. 110, 582, 585, in relazione all’art. 577, e 416-bis.1 cod. pen. ai danni di AS (così riqualificata dal GIP l’originaria imputazione di concorso in tentato omicidio ai danni di AS, AI e AB di cui al capo A della rubrica delle imputazioni), nonché di cui agli artt. 61 n. 2, 110, 416-bis.1 cod. pen., 10, 12 e 14 l. 497/74, per avere illegalmente detenuto e portato in luogo pubblico una pistola Beretta (capo B), e 110, 648, 416-bis.1 cod. pen. per avere acquistato o comunque ricevuto la predetta arma (capo C), con conseguente condanna dell’imputato a pena ritenuta di giustizia.
I reati risultano consumati/accertati in data 3 aprile 2015.
Ricorso per cassazione
Ricorre per cassazione avverso la predetta sentenza il difensore dell’imputato, deducendo con motivo unico: violazione di legge e vizi di motivazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione alla circostanza attenuante di cui al comma 3 dell’art. 416-bis.1 cod. pen.
Lamenta, al riguardo, la difesa del ricorrente il mancato riconoscimento a RR della circostanza attenuante della collaborazione sopra indicata nella sua massima estensione nonostante il contributo reso dall’imputato in ordine ai fatti di cui è processo.
Rappresenta sempre la difesa del ricorrente che la motivazione fornita sul punto dai Giudici di merito collide con i principi dettati in materia dalla Corte di legittimità e non tiene conto del fatto che l’imputato collabora con la giustizia da diversi anni e che lo stesso ha ammesso la propria responsabilità in ordine ai fatti in contestazione ed ha indicato i correi.
Il mancato riconoscimento della predetta circostanza attenuante nella sua massima estensione finirebbe, in sostanza, per vanificare l’istituto al quale detta disposizione normativa è sottesa.
Decisione della Suprema Corte
Il ricorso è manifestamente infondato.
Occorre, innanzitutto, evidenziare che già il GIP nella propria sentenza ha ritenuto di riconoscere all’imputato la sussistenza della circostanza attenuante di cui all’art. 416-bis.1, comma 3, cod. pen. evidenziando «il carattere fondamentale delle dichiarazioni rese» dal ricorrente ai fini della definizione dell’odierno procedimento anche sottolineando come le dichiarazioni stesse «assurgono a pregevole fonte di prova ai fini dell’individuazione degli autori del reato».
Lo stesso giudice ha quindi ritenuto opportuno, oltre alla concessione delle circostanze attenuanti generiche, di riconoscere all’imputato anche l’invocata circostanza attenuante della collaborazione con la giustizia, tuttavia contenendo la riduzione sanzionatoria nella misura di 1/3 «in ragione della fase incipiente della collaborazione».
La Corte di appello ha confermato la decisione del GUP di non applicare nella sua massima estensione la circostanza attenuante di cui all’art. 416-bis.1, comma 3, cod. pen. adeguatamente spiegando le ragioni per le quali, pur riconoscendo l’utilità della condotta collaborativa, la gravità dei reati contestati all’imputato unita sia al fatto che il ricorrente si è determinato alla collaborazione solo molto tempo dopo i fatti e solo a seguito di un attentato perpetrato ai suoi danni, sia al fatto che all’imputato sono state riconosciute anche le circostanze attenuanti generiche, non risulta opportuna una revisione del trattamento sanzionatorio adottato nei confronti dello stesso.
Ritiene il collegio che nel caso in esame non risultano sussistenti i vizi di motivazione denunciati con il ricorso in esame e ricorda che «La graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione» (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, Rv. 259142).
Per le considerazioni or ora esposte, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Note di commento
C’è un dialogo in Alice nel Paese delle meraviglie che meriterebbe di essere studiato in un apposito insegnamento del primo anno della facoltà di giurisprudenza.
È quello tra Humpty Dumpty e la protagonista del libro.
Eccolo:
«Quando io uso una parola», disse Humpty Dumpty in tono alquanto sprezzante, «questa significa esattamente quello che io scelgo che significhi – né più né meno».
«Bisogna vedere», disse Alice, «se puoi dare tanti significati diversi alle parole».
«Bisogna vedere», disse Humpty Dumpty, «chi è che comanda – è tutto qua».
In questo breve scambio c’è l’essenza dell’eterno conflitto attorno al linguaggio: strumento di verità e trasparenza da un lato, mezzo di governo e potere dall’altro.
La sentenza della Suprema Corte annotata in questo post e le due conformi decisioni di merito che la prima ha avallato sembrano decisamente schierate a favore della seconda alternativa.
C’è un collaboratore di giustizia che ha reso dichiarazioni tramutatesi in un contributo conoscitivo risultato utile per far luce sui fatti oggetto di un processo nel quale egli stesso è imputato.
A conclusione del giudizio abbreviato che lo riguarda, il suo difensore chiede senza successo il riconoscimento dell’attenuante della collaborazione nella sua massima estensione applicativa.
Ricorre per cassazione, facendo constare l’importanza delle informazioni offerte dal suo assistito, la confessione resa in ordine alla sua personale responsabilità, l’indicazione dei suoi correi, la durata della sua collaborazione con la giustizia, avviata ormai da anni.
Il collegio della seconda sezione penale considera così tanto prive di pregio queste argomentazioni, peraltro condivise dal PG di udienza che ha chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata in punto di determinazione del trattamento sanzionatorio, da dichiarare il ricorso inammissibile per manifesta infondatezza.
L’estensore riporta, senza dissentirne, le considerazioni del GIP (più avanti denominato GUP ma è solo un lapsus calami) riguardo al “carattere fondamentale delle dichiarazioni rese” dal ricorrente e al loro valore di “pregevole fonte di prova ai fini dell’individuazione degli autori del reato”.
Così come avalla, senza battere ciglio, la motivazione dello stesso giudice allorchè decide di applicare l’attenuante nella misura di un terzo anziché della metà, come pure la norma consentirebbe, a causa della “fase incipiente della collaborazione”. Incipiente è un altro modo di dire iniziale ma, come si è visto, il difensore del ricorrente assume che la collaborazione sia in corso da anni.
Il collegio di legittimità non registra questa contrapposizione e non si prende cura di confutarla.
La motivazione prosegue con la presa d’atto della sentenza della Corte di appello che, pur condividendo il giudizio di utilità della collaborazione, evidenzia che i reati contestati al collaboratore sono gravi, che la sua collaborazione è iniziata a distanza di anni dai fatti e solo dopo che l’interessato ha subito un attentato.
Scompare quindi l’accenno alla collaborazione “incipiente” e il suo posto viene preso da argomentazioni diverse che, tuttavia, nulla hanno a che fare con la lettera dell’art. 416-bis.1, comma 3, cod. pen., secondo la quale “Per i delitti di cui all’articolo 416-bis e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso, nei confronti dell’imputato che, dissociandosi dagli altri, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori anche aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati, la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da dodici a venti anni e le altre pene sono diminuite da un terzo alla metà”.
Non hanno quindi alcun rilievo la genesi della collaborazione, per la quale non è richiesto alcun connotato etico sicché può essere puramente utilitaristica, la distanza dell’avvio della collaborazione rispetto ai fatti che ne formano oggetto, la gravità dei fatti ascrivibili al collaboratore.
Eppure, la Corte di appello attribuisce ad ognuno di questi parametri un’importanza decisiva ai fini della minimizzazione della portata riduttiva dell’attenuante e, di nuovo, il collegio di legittimità si limita a prenderne atto.
Non solo: nella parte conclusiva della decisione, quasi a mo’ di beffa, l’estensore cita un precedente del 2013 allo scopo di evidenziare che “è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione”.
Al comune mortale sembrerebbe che un po’ di arbitrio, un pizzico di ragionamento illogico e un’ombra di insufficiente motivazione ci fossero eccome.
Non così per il collegio decidente.
Poco da dire: Humpty Dumpty aveva ragione.
