La pena naturale e la richiesta di archiviazione di un Pm per una madre che “sconta già un ergastolo senza fine” ma la Corte Costituzionale ha già detto no (Riccardo Radi)

La notizia della richiesta di archiviazione avanzata da un Pm nei confronti di una madre che investì accidentalmente il proprio figlio di 18 mesi causando al minore lesioni gravissime permanenti riporta alla luce il tema delle pene naturali e dell’inutilità della sanzione penale nei casi di sofferenza morale dove l’autore della condotta colposa è anch’egli vittima a vita di una pena indelebile.

La notizia è stata pubblicata da Il Dubbio : «Sconta già un ergastolo senza fine»: il pm chiede l’archiviazione

In tema di “pene naturali”, ossia quelle situazioni di sofferenza che sono conseguenza di proprie condotte colpose commesse a danno di prossimi congiunti (pensiamo al caso del padre che dimentica il minore in auto, della madre condannata per omicidio colposo per la morte del figlio piccolo investito nel corso di un attraversamento stradale, in relazione al quale la stessa aveva omesso di tenerlo per mano).
La cronaca non è avara, purtroppo, di casi in cui l’autore del reato è sostanzialmente anch’egli vittima – direttamente o indirettamente – del reato stesso, avendo già patito una sofferenza morale tale da rendere sproporzionata e inutilmente afflittiva la risposta sanzionatoria penale.

Nella richiesta di archiviazione il pubblico ministero richiama quanto scritto dal professore avvocato Vittorio Manes nel libro “Introduzione ai principi costituzionali in materia penale”, sottolineando che il diritto penale, in questi casi, deve farsi carico della complessità del dolore umano, evitando di replicare «alla brutalità con la brutalità, alla violenza con la violenza, alla crudeltà con la crudeltà, e così stabilendo una differenza fondamentale che separa la pena dalla cieca vendetta».

In proposito ricordiamo che la Corte Costituzionale con la sentenza numero 48 del 2024 (allegata al post) ha esaminato le questioni di legittimità costituzionale – sollevate dal Tribunale di Firenze, sez. prima pen., in riferimento agli artt. 3, 13 e 27, terzo comma, Cost. – dell’art. 529 cod. proc. pen., nella parte in cui, nei procedimenti relativi a reati colposi, non prevede la possibilità di emettere sentenza di non doversi procedere allorché l’agente, in relazione alla morte di un prossimo congiunto cagionata con la propria condotta, abbia già patito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso.

La Consulta ha così risposto: “Non sussiste un vincolo costituzionale che imponga di introdurre, nei termini richiesti dal rimettente, una causa di improcedibilità fondata sul dolore patito dal reo – inteso come “pena naturale” – per la morte del familiare colposamente cagionata.

Il riferimento nel petitum ai «reati colposi» è infatti talmente generico da ricomprendere tutte le ipotesi di colpa, pure ontologicamente diverse, tra cui quelle basate su una posizione di garanzia qualificata, come la colpa specifica e professionale, e anche fattispecie contravvenzionali (come, nella specie, quelle per inosservanza delle misure di sicurezza dei lavoratori), svilendone la funzione preventiva.

Inoltre, il rimando alla nozione penalistica di «prossimo congiunto» (art. 307, quarto comma, cod. pen.) – che si estende ben oltre la famiglia nucleare, fino a includere rapporti di parentela in linea collaterale di grado inferiore al secondo (come quello di specie, tra zio e nipote), e persino vincoli di affinità– è troppo ampio perché possa postularsi tra il reo e la vittima un rapporto affettivo di un’intensità tale, in base all’ id quod plerumque accidit , da far presumere l’equivalenza sostanziale tra pena naturale e pena giuridica.

Infine, non vi sono ragioni costituzionali per le quali la pena naturale da omicidio colposo del prossimo congiunto debba integrare una causa di non procedibilità, anziché un’esimente di carattere sostanziale, ovvero ancora una circostanza attenuante soggettiva”.