Commisurazione della pena: partecipe del finalismo rieducativo se proporzionata, causa di “rumore” se sproporzionata (Vincenzo Giglio)

La rivista web Sistema Penale ha pubblicato ieri 17 giugno 2025 un bel saggio dell’ex magistrato Rocco Blaiotta dal titolo Costituzione, colpevolezza, pena, consultabile a questo link.

Lo scritto è denso di considerazioni davvero interessanti e merita di essere letto nella sua interezza.

Qui però ci si concentrerà sull’idea della necessaria proporzionalità della pena concretamente inflitta come segmento irrinunciabile del principio del finalismo rieducativo.

Una proporzionalità – afferma l’Autore – che, accanto al suo scopo primario, serve ad evitare “la ingiustificata disparità delle risposte in differenti processi riguardanti casi identici o molto simili, che vulnera profondamente la accettabilità, la plausibilità di un sistema giudiziario. Il fenomeno del “rumore” (KANEMAN, SIBONY, SUNSTEIN). Indagini che restituiscono l’immagine di una giustizia punitiva che troppo spesso si esprime in decisioni radicalmente ed irrazionalmente divergenti. Il principio di proporzione e l’ideale commisurativo entrano in crisi quando ci si confronta con la realtà. I processi decisionali della giurisprudenza pullulano di rumore, di soluzioni arbitrariamente difformi”.

Sicchè, per Blaiotta, una pena sproporzionata danneggia in vario modo l’amministrazione della giustizia e l’immagine che dà di se stessa: nella percezione individuale di coloro che la subiscono come diretti interessati, soprattutto ove debbano constatare un’incomprensibile differenza di trattamento rispetto a situazione identiche alla loro; nella percezione collettiva, quando, a fronte di prospettive inspiegabilmente divergenti tra le quali prevalgano quelle “colpevoliste”, ai consociati sia offerto il volto punitivo della giustizia.

Questa complessiva fenomenologia, nell’opinione dell’Autore, è classificabile come “rumore”, nel senso che a questo termine è stato attribuito nel saggio Rumore. Un difetto del ragionamento umano (Utet, 2021), scritto congiuntamente da Daniel Kahneman, psicologo e studioso dell’economia insignito del premio Nobel, Olivier Sibony, economista francese esperto di strategia comportamentale, e Cass R. Sunstein, giurista e direttore del programma di economia comportamentale della scuola giuridica dell’Università di Harvard.

All’indomani dell’uscita del saggio, la giornalista Elisabetta Tola ha incontrato Kahneman e Sibony al Festival della Letteratura (a questo link per il resoconto dell’evento di presentazione).

Raccomandiamo come sempre la lettura integrale dell’articolo.

Qui ne riportiamo letteralmente i passaggi più significativi. Le interruzioni sono segnalate col simbolo […]. I neretti sono di chi scrive.

La presentatrice esordisce con queste parole:

Ciascuno di noi, più volte al giorno, formula dei giudizi che raramente sono uguali a loro stessi, perché nell’esprimerli generiamo sempre un certo grado di errore. Il rumore è uno di questi […] Perché accade che due giudici assegnino pene diverse a colpevoli dello stesso reato? La colpa è del rumore. Il testo è ricco di esempi concreti, tra cui quelli presi dal sistema giudiziario. Questo implica che l’imputato sia di fronte a una lotteria, che ogni sistema giudiziario può essere potenzialmente ingiusto? Per capire il focus del libro e del dibattito che vi verte intorno è fondamentale partire dalla distinzione tra l’errore comune o distorsione sistematica, noti come “bias” nel linguaggio statistico, e il “rumore”, indicato in inglese con il termine “noise”, che dà il titolo al libro. Se il primo è l’errore medio, che tutti possiamo commettere per i motivi più vari, il secondo è una variabilità di natura casuale, che non dovrebbe dipendere da fattori casuali, ma che proprio da questi ultimi è in larga parte causato” […].

Sibony spiega al pubblico che ci sono tre tipi di rumore, di cui il primo è il rumore di livello – o «level noise» – che, ad esempio in ambito giudiziario, indica il diverso modo di giudicare l’imputato a seconda che il processo sia presieduto dal giudice A, più indulgente, o dal giudice B, più severo. Il secondo è il rumore legato all’occasione – o «occasion noise» – e si verifica, ad esempio, quando il giudice A è di pessimo umore o indisposto per motivi personali. Oltre alle divergenze fra i giudici e interne allo stesso giudice, il rumore può essere originato anche dalla differenza di gusti e preferenze di ciascuno – il cosiddetto «pattern noise». Quest’ultima è la forma di rumore più diffusa perché gli esseri umani sono infinitamente diversi fra loro per storia e formazione: i giudici A e B sceglieranno un ordine di importanza diverso per i dossier degli stessi imputati, nonostante possiedano gli stessi dati su di loro. Il giudizio si pone fra il dato e l’opinione ed è proprio lì che si insidia il rumore, in larga parte sottovalutatoperché ciascuno di noi è convinto di vedere il mondo e la verità così come sono e, soprattutto, che anche gli altri percepiscano la realtà così come la vediamo noi” […].

Ma il giudizio umano è abbastanza disciplinato per garantire le decisioni più eque che riguardano altri esseri umani? Kahneman spiazza il suo pubblico e sostiene che la risposta è nell’algoritmo. Una formula matematica asettica ma, secondo i suoi studi, più affidabile nel garantire l’imparzialità di giudizio perché «noise-free», svincolata dall’influenza del fattore rumore. L’algoritmo, a differenza di un essere umano, è in grado di consegnare due risposte uguali a una stessa domanda posta in due momenti diversi. Può sembrare paradossale, ma gli autori assicurano che nel sistema giudiziario americano, quando si tratta di decidere o meno per la libertà vigilata di un imputato in vista del processo, gli algoritmi sono più giusti e imparziali di un giudice perché si basano sulla misurazione oggettiva di dati come il numero dei posti disponibili in carcere e la probabilità di recidive tra chi viene lasciato libero. L’intervento dell’algoritmo sembra contribuire davvero ad abbassare il numero di recidive e di detenuti per ingiusta causa e, dal punto di vista dell’autore, questo dovrebbe rincuorare dal timore che il suo uso assolva in qualche modo gli esseri umani dalle loro responsabilità e da eventuali sensi di colpa” […].

L’intervento del pubblico, sul finire dell’incontro, non è una postilla, ma parte integrante del dibattito stesso: «Non è pericoloso delegare le decisioni a un algoritmo se si applica a sistemi iniqui e dittatoriali?», «Se eliminiamo il rumore non c’è il rischio di ridurre l’empatia?». Se lo scopo della ricerca è migliorare individui e organizzazioni, sostiene Sibony, «bisogna essere certi di non contribuire a rendere più efficienti quei sistemi che operano contro il benessere dell’umanità, come i regimi dittatoriali». E cita Il Mercante di Venezia di Shakespeare: «La potenza terrena si mostra simile a quella di Dio quando la misericordia condisce la giustizia». L’empatia implica il rumore, ma la maggior parte delle persone, pur di non essere giudicata da una macchina, è disposta ad accettare un certo grado di ingiustizia per il privilegio di avere a che fare con un essere umano” […].

Ora che sappiamo cosa vuol dire “rumore” e quali sono i suoi nefasti effetti nell’ambito penale, ci viene più facile capire una frase di Blaiotta (inserita nel paragrafo 5, pagina 11, del suo lavoro citato in apertura): “I processi decisionali della giurisprudenza pullulano di rumore, di soluzioni arbitrariamente difformi. È un tema che chiama in causa errore, certezza, verità e che recentemente mi ha coinvolto in riflessioni anche personali e retrospettive sul difficile compito di giudicare; e su ciò che può esser fatto per limitare tale genere di rumore”.

Rocco Blaiotta è stato un magistrato esemplare e, nel lungo periodo del suo impegno presso la Corte di cassazione ove ha diretto in modo illuminato la quarta sezione penale ed è stato componente delle Sezioni unite penali, ha redatto sentenze che hanno lasciato un segno soprattutto ma non solo nella complessa materia della causalità.

Queste sue parole confermano, semmai ce ne fosse bisogno, quanto sia importante che dietro il tecnico del diritto ci sia un uomo che si interroga e dubita e che, soprattutto, si accosta con umiltà al terribile compito di giudicare.