Le sentenze anomale: 413 pagine di motivi di appello condensate in 5 righe (Riccardo Radi)

Si possono riassumere 413 pagine di motivi di impugnazione in 5 scarne righe?

Tutto è possibile nel fantastico mondo giustizia.

Oggi narriamo della sentenza che liquida, in poche righe, l’impugnazione ponderosa di una Procura che a fronte della pronuncia di assoluzione in primo grado ha proposto appello.

Impugnazione di ben 413 pagine, che i giudici di una corte di appello hanno riassunto nella decisione nel seguente modo: “Con l’atto di appello il pubblico ministero ha riproposto le motivazioni a sostegno della tesi accusatoria già sviluppate dalle varie richieste cautelari e dalla requisitoria senza proporre doglianze mirate che siano idonee a devolvere alla Corte la decisione sui singoli capi o punti della sentenza. Ha concluso chiedendo genericamente alla luce di tutti gli elementi di prova insieme valutati dichiararsi la responsabilità penale degli imputati con conseguente condanna alla pena ritenuta di giustizia”.

Il pubblico ministero ricorre in cassazione e la sezione 1 della Suprema Corte con la sentenza numero 11721/2025 ha stigmatizzato duramente tale modo di fare giurisdizione: <<questa sintesi dell’atto di appello, effettuata dalla sentenza impugnata, non consente di comprendere se i motivi di appello siano stati effettivamente valutati, perché essa non cita nessun argomento in esso riportato.

L’affermazione secondo cui l’atto di appello non proporrebbe doglianze “idonee a devolvere alla Corte la decisione sui singoli capi o punti della sentenza” non è accompagnata dall’indicazione di una parte, in particolare, della sentenza di primo grado con cui l’atto di appello non si sarebbe confrontato, ed è, quindi, puramente assertiva, e non supportata da alcuna motivazione che spieghi la decisione.

Né la spiegazione della decisione si rinviene nei passaggi successivi della sentenza impugnata, che prosegue, e si conclude, al paragrafo 4, in cui la sentenza di appello si limita a riportare alcune affermazioni contenute nella sentenza di primo grado”.

In definitiva, la sentenza impugnata è totalmente priva di passaggi in cui sia stata svolta quella attività controargomentativa che caratterizza il lavoro del giudice di merito dell’impugnazione quando respinge o dichiara inammissibile un appello o un ricorso.

La Corte di appello di Catanzaro si è, infatti, limitata ad affermare di condividere la sentenza di primo grado senza confutare in alcun modo le ragioni esposte nell’atto di appello.

Si è, pertanto, in presenza di una motivazione del tutto mancante o comunque apparente, atteso che “in tema di sentenza di appello, incorre in una motivazione apparente il giudice che si limiti a una mera rassegna degli elementi di prova assunti nel corso del processo, senza tenere in adeguato conto le specifiche deduzioni difensive, omettendo, altresì, di fornire adeguata spiegazione circa l’infondatezza, l’indifferenza o la superfluità degli argomenti opposti con il ricorso” (Sez. 2, n. 18404 del 05/04/2024, Lo Coco, Rv. 286406 – 01), e nel caso in esame l’apparenza della motivazione è ancora più evidente che nel caso della pronuncia Lo Coco, perché la sentenza impugnata neanche ha passato in rassegna gli elementi di prova assunti nel giudizio di primo grado, limitandosi soltanto a ribadirne le conclusioni>>.

A riprova che la sentenza di 15 parole :”Non è un unicum” e che spesso l’apparenza inganna: La condanna con motivazione di 15 parole (Riccardo Radi) – TERZULTIMA FERMATA .