Con sentenza 19415 del 17 aprile 2025 la sesta sezione della Suprema Corte torna su un tema molto caldo e molto controverso: il deposito telematico dell’impugnazione.
A differenza del processo civile telematico, in cui è acquisito il principio secondo cui il deposito è valido purché arrivi in Tribunale, anche con lo strumento sbagliato, anche alla cancelleria sbagliata, persino sul ruolo sbagliato, perché nel momento in cui è inserito in un qualsiasi ruolo del Tribunale è compito della cancelleria ritrasmetterlo a chi è competente, nel giudizio penale è fatto obbligo di depositare presso un solo indirizzo specifico.
Nel corso del tempo la Cassazione, in realtà, si è pronunciata in modo discontinuo (e forse prima o poi avremo una nuova sentenza 500/99) ammettendo, a macchia di leopardo, la legittimità di questa o quella forma di deposito alternativa rispetto all’indirizzo PEC indicato dalla DGSIA, fino ad arrivare a considerare inammissibile il deposito ad una casella non imposta dal Ministero ma dal singolo foro con provvedimento del dirigente di sub assegnazione di indirizzi alle cancellerie.
Ironicamente potremmo definirlo uno sfavor per le impugnazioni, forse anche complice una certa esigenza statistica.
Con la sentenza in commento la Corte pare compiere un primo revirement: dopo aver riassunto le varie posizioni assunte e preso atto che lo stato dell’arte è fissato da Cass. 1^, sent. 47557 del 29 novembre 2024, secondo cui legittimare la “possibilità di scrutinare, caso per caso, l’effettività dell’inoltro del ricorso presso indirizzi di posta non abilitati implicherebbe, infatti, l’affidamento della legittimità della progressione processuale ad imprevedibili – in quanto non imposti dal legislatore – controlli della cancelleria su caselle di posta non abilitate al ricevimento delle impugnazioni” si pone un dubbio se la giustizia davvero debba essere tanto attaccata alla forma, dimenticando che il suo primo dovere è rendere giustizia.
E ciò parte dall’affermazione secondo cui “L’atto, cioè, quantunque con un “percorso telematico” diverso da quello previsto dalla legge, è stato materialmente acquisito dalla cancelleria del giudice competente, entro il termine previsto per il suo deposito”.
Non senza dimenticare che resta “escluso comunque che sulla cancelleria incomba l’obbligo di trasmissione degli atti al giudice competente ex art. 582, comma 2, cod. proc. pen., la data di presentazione rilevante ai fini della tempestività è quella in cui l’atto perviene all’ufficio competente a riceverlo” (SSUU, sent. n. 1626 del 24 settembre 2020), ma “se, nel termine di dieci giorni, il ricorso depositato presso una cancelleria diversa perviene anche nella cancelleria indicata dal legislatore, non vi sono ragioni sostanziali per negare la validità del ricorso, in quanto può ritenersi raggiunta la finalità del ricorrente di attivare il sistema impugnatorio”.
E ancora: “In questo caso occorre, infatti, avere riguardo al principio del raggiungimento dello scopo dell’atto. “Tale principio, declinato nell’art. 156, comma 3, cod. proc. civ., ha ormai assunto una valenza generale e trova implicita affermazione anche nel processo penale, come è dato evincere, ad esempio, dall’art. 184, comma 1, cod. proc. pen. L’atto raggiunge, infatti, l’obiettivo che il ricorrente si era prefisso. L’attività di deposito rimane irregolare ed assume efficacia solo per il concomitante intervento di fattori esterni (l’inoltro alla cancelleria competente) della cui mancanza il ricorrente non può che assumersi il rischio per la scelta di non avere seguito le regole indicate per la presentazione dell’impugnazione“.
Richiamati questi principi, la sesta sezione, quindi, conclude che “tali principi siano applicabili anche al caso in cui l’impugnazione, trasmessa via posta elettronica certificata a un indirizzo diverso da quello indicato dal Direttore della DGSIA, sia stata comunque tempestivamente acquisita dalla cancelleria del giudice competente a decidere così come, ad esempio, nei casi in cui l’atto sia trasmesso da altro ufficio che lo aveva ricevuto per errore o presentato a mano o trasmesso per posta ordinaria in forma adeguata. Tale interpretazione è resa doverosa dalle fonti sovranazionali sul giusto processo, in quanto, se è vero che sulla materia della presentazione dell’impugnazione la Corte Edu riconosce agli Stati ampio margine di apprezzamento, è vero anche che le restrizioni applicate non devono limitare l’accesso aperto all’individuo in una maniera o a un punto tali che il “diritto a un Tribunale” risulti pregiudicato nella sua stessa sostanza (in tal senso, Corte Edu, Garda Manibardo c. Spagna, n. 38695/97, par. 36; Mortier c. Francia, n. 42195/98, par. 33)”.
In estrema sintesi: l’atto si considera validamente compiuto, anche in deroga a criteri formalistici, laddove, per qualsiasi motivo, anche estraneo alla volontà delle parti, anche dovuto alla solerzia del pubblico dipendente, sia giunto al destinatario corretto.
E’ un passo epocale: l’atto è valido se ha raggiunto l’effetto utile.
Ora possiamo sperare che, da una più attenta lettura dell’articolo 97 della Costituzione ed a fronte di una ponderata riflessione sui principi di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, ma anche della sua unitarietà (dato che una è la giurisdizione ordinaria) si possa fare un ulteriore passo nella direzione del dovere del funzionario di essere solerte, negli stessi termini in cui è richiesto al cancelliere civile.
