Maltrattamenti e la possibilità per l’imputato di partecipare a un programma di giustizia riparativa (Riccardo Radi)

Segnaliamo la sentenza numero 18985/2025 della cassazione penale sezione 6 (allegata al post in forma anonimizzata), inviataci dal collega Riccardo Amadei del foro di Latina, per due specifiche ragioni: la cassazione ha inteso dare continuità al principio che ai fini della integrazione della fattispecie aggravata dei maltrattamenti commessi in presenza del minore, ai sensi dell’art. 572, comma secondo, cod. pen., non è sufficiente che il minore assista ad un singolo episodio in cui si concretizza la condotta maltrattante e la seconda che l’imputato aveva richiesto, nei giudizi di merito, di partecipare a un programma di giustizia riparativa ma l’istanza era stata respinta in quanto nel distretto della Corte di appello di Roma non sono ancora stati individuati gli enti cui affidare la gestione dei centri di giustizia riparativa e aveva richiesto l’applicazione della sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità.

Nel disporre l’annullamento con rinvio la Suprema Corte indica alla corte di appello di valutare “l’applicabilità di eventuali sanzioni sostitutive

Nella parte motiva la cassazione richiama il precedente della medesima sezione 6 sentenza numero 31929/2024 che ha stabilito che ai fini della integrazione della fattispecie aggravata dei maltrattamenti commessi in presenza del minore, ai sensi dell’art. 572, comma secondo, cod. pen., non è sufficiente che il minore assista ad un singolo episodio in cui si concretizza la condotta maltrattante, ma è necessario che il numero, la qualità e la ricorrenza degli episodi cui questi assiste siano tali da lasciare inferire il rischio della compromissione del suo normale sviluppo psico-fisico.

La sentenza si contraddistingue per aver intrapreso una strada diversa dal principio maggioritario espresso dalla medesima sezione, ad esempio sentenza numero 21998/2023 che sempre in tema di maltrattamenti contro familiari e conviventi, ha ritenuto che stante la natura abituale del reato, che si consuma con la cessazione delle condotte vessatorie, è sufficiente che anche solo una di esse sia stata posta in essere alla presenza di un minore dopo l’entrata in vigore della legge 19 luglio 2019, n. 69, perché trovi applicazione la circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 572, comma secondo, cod. pen., introdotta da tale legge, in luogo di quella, previgente, di cui all’art. 61, comma primo, n. 11-quinquies), cod. pen.

Inoltre, sulla medesima linea sentenza numero 19832/2022 che in tema di maltrattamenti in famiglia, stante la natura abituale del reato, che si consuma con la cessazione delle condotte vessatorie, è sufficiente che anche solo una di esse sia stata posta in essere alla presenza di un minore dopo l’entrata in vigore della legge 19 luglio 2019, n. 69, perché trovi applicazione la circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 572, comma secondo, cod. pen., introdotta da tale legge, in luogo di quella, previgente, di cui all’art. 61, comma primo, n. 11-quinquies, cod. pen.

Ricordiamo che la circostanza aggravante di cui all’art. 572, comma 2, c.p., inizialmente prevista con riferimento alla condotta commessa in danno di persona minore degli anni quattordici, è stata abrogata dal D.L. 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni dalla L. 15 ottobre 2013, n. 119 (art. 1, comma 1-bis) che, contestualmente, ha introdotto la circostanza aggravante comune di cui al n. 11-quinquies dell’art. 61 c.p. con riferimento alla condotta commessa in presenza o in danno di un minore degli anni diciotto (ovvero di persona in stato di gravidanza) in relazione ai delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale ed al delitto di cui all’art. 572 c.p..

La Legge 19 luglio 2019, n. 69 (in vigore dal 9 agosto 2019) ha nuovamente introdotto al comma 2 dell’art. 572 c.p. la previsione di una circostanza aggravante, non più comune, ma ad effetto speciale, ampliando le ipotesi previste dal testo originario della norma, abrogato nel 2013.

La norma, prevede l’aumento della pena fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di persona in stato di gravidanza o di persona con disabilità.

Con la medesima legge è stato, inoltre, espunto dall’art. 61, n. 11-quinquies, c.p. il riferimento all’art. 572 c.p., cosicché dall’entrata in vigore della Legge n. 69 del 2019, allorché la condotta di maltrattamenti sia stata commessa in presenza o in danno di un minore, l’unica circostanza applicabile è quella prevista dal comma 2 dell’art. 572.

La sentenza in commento ha ritenuto di dare continuità ad una pronuncia rimasta isolata, che ha affermato che, ai fini della configurabilità della fattispecie aggravata della “violenza assistita”, è necessario che il numero, la qualità e la ricorrenza degli episodi cui questi assiste siano tali da lasciare inferire il rischio della compromissione del suo normale sviluppo psico-fisico (Cass. pen., sez. VI, 5 ottobre 2023, n. 47121).

La Suprema Corte è pervenuta a tale soluzione sulla base di una interpretazione strutturale della fattispecie aggravata quale reato di pericolo astratto, in quanto fondata sull’elevata probabilità di produzione del danno in ragione della semplice realizzazione della condotta tipica, ovvero i maltrattamenti, alla presenza del minore (così discostandosi da altro indirizzo espresso da Cass. pen., sez. VI, 10 maggio 2022, n. 21087 e da Cass. pen., sez. VI, 22 settembre 2020, n. 27901 che ha, invece, ritenuto necessaria la verifica della concreta idoneità delle condotte ad incidere sull’equilibrio psicofisico del minore).

In particolare, la Suprema Corte, affrontando il tema relativo alla soglia minima di condotte rilevante ai fini della configurabilità dei “maltrattamenti assistiti”, ha ritenuto necessario, sul piano della offensività in concreto e, dunque, della “tipicità” della condotta, che il minore, qualunque ne sia l’età, abbia presenziato ad un numero di episodi che, per la loro gravità (non dovendo peraltro consistere nell’uso della violenza fisica) e per la loro ricorrenza nel tempo (abitualità), possano compromettere il sano sviluppo psico-fisico.

La Suprema Corte ha aderito a tale secondo indirizzo ermeneutico, non potendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’integrazione della circostanza aggravante in esame, che il minore assista ad una sola condotta.

La Suprema Corte ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 572, comma 2, c.p. per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede il medesimo trattamento sanzionatorio per le condotte di maltrattamento tenute in presenza del minore e per quelle realizzate in suo danno, venendo in rilievo una scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore non manifestamente irragionevole, posto che la “ratio” dell’aggravante è correlata all’esigenza di elevare la soglia di protezione di soggetti deboli mediante la tutela dell’integrità psicologica e di quella fisica degli stessi, l’una suscettibile di essere compromessa nel caso in cui il minore sia spettatore di violenza in ambito familiare e l’altra ove sia egli stesso vittima di violenza (Cass. pen., sez. III, 28 aprile 2022, n. 21024).

Si è, infatti, osservato che, in ragione dell’incompletezza dello sviluppo psicofisico dei minori, costoro sono più sensibili ai riflessi dell’altrui azioni aggressiva, specie se è commessa da un genitore in danno dell’altro, e possono così rimanerne vulnerati.

Il legislatore, dunque, ha inteso attribuire un maggiore disvalore penale ai fatti commessi in presenza o in danno di minori (oltre che delle altre persone indicate nel secondo comma dell’art. 572 c.p.) e ciò in ragione dell’amplificazione del raggio di offensività della condotta di maltrattamenti, estesa, oltre che al soggetto maltrattato, anche a colui che assiste siffatte condotte maltrattanti.

Va, inoltre, considerato che da un punto di vista testuale, la norma richiede che, ai fini della configurabilità dell’aggravante, “il fatto” sia commesso in presenza o in danno di una persona minore.

In assenza di ulteriori specifiche indicazioni normative, la questione interpretativa che si pone attiene proprio all’individuazione del significato da attribuire a tale lemma, se in relazione ad una o più condotte. Il termine “fatto” deve essere necessariamente interpretato in correlazione con la ratio dell’aggravante e con la struttura abituale del reato cui accede.

Va, infatti, considerato che i maltrattamenti in famiglia integrano un’ipotesi di reato necessariamente abituale che può caratterizzarsi anche per la contemporanea sussistenza di fatti commissivi e omissivi – quali percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ovvero, ancora, atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità – che, isolatamente considerati, possono anche essere privi di rilevanza penale (Cass. pen., sez. VI, 10 marzo 2016, n. 13422), rilevanza che, tuttavia, acquistano per effetto della loro reiterazione nel tempo, perfezionandosi allorché si realizza un minimo di tali condotte collegate da un nesso di abitualità (Cass. pen., sez. VI, 31 maggio 2012, n. 34480).

Pertanto, tenuto conto della ratio dell’aggravante e della struttura necessariamente abituale del reato cui accede, deve ritenersi che il “fatto” cui assiste il minore deve essere costituito da un numero minimo di episodi idoneo a rivelare la maggiore pericolosità e offensività della condotta criminosa.

Tale soluzione appare coerente con una interpretazione costituzionalmente orientata della norma alla luce dei principi di offensività e di proporzionalità. Va, in primo luogo, rammentato l’insegnamento della Corte costituzionale in tema di necessaria offensività del reato. In particolare, da ultimo, Corte Cost. n. 139 del 2023, richiamando la propria precedente giurisprudenza, ha chiarito che tale principio – la cui matrice costituzionale è ricavabile dall’art. 25, comma 2, Cost., in una lettura sistematica cui fa da sfondo l’insieme dei valori connessi alla dignità umana – opera su due piani distinti: da un lato, come precetto rivolto al legislatore, diretto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, esprimano un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione (offensività “in astratto”); dall’altro, come criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (offensività “in concreto”). Strettamente correlato a tale valutazione di offensività in concreto della condotta è il principio di proporzionalità della pena, desumibile dagli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., che, come recentemente chiarito dalla Corte costituzionale (sentenza n. 217 del 2023), esige che la pena sia adeguatamente calibrata al concreto contenuto di offensività del fatto di reato e al suo disvalore soggettivo.

Ebbene, ad avviso della Corte di Cassazione, una interpretazione della fattispecie aggravata di “maltrattamenti assistiti” coerente con i principi sopra richiamati non può prescindere dalla valutazione della concreta offensività della condotta tipica e, dunque, dall’accertamento della presenza del minore ad un numero di episodi che per la loro gravità, intensità e reiterazione nel tempo, sia idoneo a trasporre nella fattispecie concreta la valutazione di astratta offensività formulata dal legislatore sulla base dell’id quod plerumque accidit.

Di contro, l’adesione all’orientamento ermeneutico qui disatteso potrebbe comportare una possibile frizione con i suddetti principi di offensività e proporzionalità della pena nonché, in ultima analisi, con la funzione rieducativa della pena.

La circostanza aggravante in esame, proprio in ragione della maggiore offensività del fatto, da valutare, come detto, nella sua globalità e non con riferimento ai singoli episodi, ha, infatti, previsto un sensibile inasprimento del trattamento sanzionatorio con l’aumento fino alla metà della pena.

Ove si ritenesse sufficiente la realizzazione di un singolo episodio alla presenza o in danno di un minore (o delle altre persone contemplate dalla norma in esame), il notevole incremento sanzionatorio correlato all’aggravante potrebbe fondatamente far percepire tale pena come ingiusta, compromettendone, così, la funzione rieducativa ad essa costituzionalmente assegnata.