Indizi e prova indiziaria: molti assiomi, nessuna certezza (Riccardo Radi e Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 5^, sentenza n. 19100/2025, udienza del 25 marzo 2025, offre un tentativo di sistematizzazione dell’indizio e della prova indiziaria.

Nozione di indizio

In ordine alla valutazione degli indizi va premesso che per indizio s’intende «un fatto certo dal quale, per inferenza logica basata su regole di esperienza consolidate e affidabili, si perviene alla dimostrazione del fatto incerto da provare, secondo lo schema del cd. sillogismo giudiziario» (Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, PM, p.c., Musumeci e altri, Rv. 191230).

L’indizio è un elemento conoscitivo che, senza poter rappresentare in via diretta il fatto da provare, è dotato di un’autonoma capacità rappresentativa, riguardante una o più circostanze diverse, ma collegate sul piano logico con quella da dimostrare.

Se dall’indizio è deducibile un’unica conseguenza, esso costituisce una prova logica compiuta ed in sé sufficiente (Sez. 4, n. 19730 del 19/03/2009, Rv. 243508) nel senso che presenta una correlazione obbligata tra fatto ignoto e quello noto, al quale, sulla base delle leggi scientifiche, il primo è legato in modo certo ed inevitabile.

Solitamente esso è però significativo di una pluralità di fatti non noti, presentando un livello di gravità e precisione in relazione di proporzione diretta con la forza di necessità logica con la quale l’indizio porta verso il fatto da dimostrare e di proporzione inversa con la molteplicità di accadimenti che se ne possono desumere secondo le regole di comune esperienza.

Tale relativa ambiguità ed inefficienza probatoria diretta dà conto della ragione per la quale il sistema processuale impone un particolare rigore valutativo degli indizi secondo la regola dettata dall’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. di cui pretende gravità, precisione e concordanza.

Requisiti necessari per la formazione della prova indiziaria

La riflessione esegetica condotta dalla giurisprudenza di legittimità è ormai pervenuta ad esiti consolidati nel ravvisare la corretta applicazione del parametro legale di apprezzamento della prova indiziaria in quanto il fatto assumibile come indizio deve presentare carattere di certezza, intesa, non in senso assoluto e naturalistico, ma quale portato della verifica processualmente conducibile alla stregua delle fonti di prova acquisite (Sez. 4, n. 2967 del 25/01/1993, Rv. 193407; Sez. 4, n. 39882 del 01/10/2008, Rv. 242123; Sez. 1, sentenza n. 31456 del 21/05/2008, Rv. 240762-240766).

È, dunque, necessario che la prova critica non sia affidata ad un fatto verosimilmente accaduto, supposto o intuito sulla scorta di opinabili congetture o di elaborazioni personali del decidente, dovendo ricevere riscontro nelle evidenze probatorie del processo.

Per gravità s’intende poi l’intrinseca capacità dimostrativa rispetto al thema probandum, ossia la probabilità di derivazione dal fatto noto di quello ignoto, mentre precisione significa specificità, univocità ed impossibilità di diversa interpretazione, altrettanto o più verosimile e concordanza, requisito proprio della pluralità di indizi, indica convergenza, concordanza e non contraddittorietà di significato in modo tale che, grazie al reciproco collegamento ed alla simultanea direzione verso lo stesso risultato, il loro insieme assume l’efficacia dimostrativa della prova (Sez. 1, n. 7027 del 08/03/2000, Rv. 216181; Sez. 4, n. 22391 del 02/04/2003, Rv. 224962; Sez. 6, n. 3882 del 04/11/2011, Rv. 251527; Sez. 1, n. 44324 del 18/04/2013, Rv. 258321; Sez. 1, n. 37348 del 06/05/2014, Rv. 260278).

Vincolo metodologico posto dall’art. 192, comma 2, cod. proc. pen.

L’orientamento interpretativo costante della Suprema Corte ha precisato come l’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. imponga anche un vincolo di metodo operativo per il corretto utilizzo della prova indiziaria, nel senso che, poiché l’indizio in sé considerato può essere indicativo di una pluralità di fatti non noti, incluso quello da dimostrare, il relativo apprezzamento postula una preventiva valutazione per individuarne «la valenza qualitativa individuale e il grado di inferenza derivante dalla loro gravità e precisione» (Sez. U, n. 33748 del 12 7.2005, Mannino, Rv. 231678) sulla base di affidabili regole di esperienza e di criteri logici e scientifici.

S’impone quindi la verifica successiva, consistente nella considerazione unitaria e complessiva degli elementi acquisiti, che ne evidenzi «i collegamenti e la confluenza in un medesimo, univoco e pregnante contesto dimostrativo» e chiarisca eventuali profili di ambiguità, presentati da ciascuno di essi in sé considerato, in modo da consentire l’attribuzione del fatto illecito all’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio anche in assenza di una prova diretta di reità, non essendo sufficiente dal punto di vista metodologico proporne una lettura in termini di mera sommatoria, né, all’opposto, un’analisi atomistica che prescinda dal loro raffronto e dalla considerazione unitaria (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231678; Rv. 248384; Sez. 1, n. 44324 del 18/04/2013, Rv. 258321; Sez. 2, n. 42482 del 19/09/2013, Rv. 256967).

Nell’impiego della prova indiziaria è, dunque, richiesta al giudice la conduzione di un ragionamento probatorio che attraverso l’utilizzo di regole di esperienza, -tratte dalla osservazione ripetuta del normale svolgimento delle vicende naturali e di quelle umane in presenza di determinate condizioni e dalla logica, che orienta i percorsi mentali della razionalità umana, oppure di leggi scientifiche di valenza universale o di ricorrenza statistica- deve procedere, fornendone adeguata giustificazione, alla verifica, dapprima della validità delle regole o delle leggi utilizzate, quindi della correttezza e consequenzialità logica del risultato ottenuto.

Solo così è possibile proporre una ricostruzione del fatto di reato «in termini di certezza tali da escludere la prospettabilità di ogni altra ragionevole soluzione, ma non anche di escludere la più astratta e remota delle possibilità che, in contrasto con ogni e qualsivoglia verosimiglianza ed in conseguenza di un ipotetico, inusitato combinarsi di imprevisti e imprevedibili fattori, la realtà delle cose sia stata diversa da quella ricostruita in base agli indizi disponibili» (Sez. 1, n. 3424 del 02/03/1992, Rv. 189682).

Rilievo del canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio

Tale operazione deve essere guidata dalla regola, ora positivizzata dall’art. 533 cod. proc. pen., comma 1, che impone di pronunciare sentenza di condanna solo se la colpevolezza dell’imputato emerga al di là di ogni ragionevole dubbio, criterio generale per il riscontro della consistenza logica e della valenza dimostrativa del discorso probatorio esposto nella sentenza impugnata.

Come già affermato in sede di legittimità, tale canone orientativo, pur non autorizzando il recepimento di spiegazioni alternative del medesimo fatto segnalate dalla difesa (Sez. 1 n. 53512 dell’11/07/2014, Rv. 261600; Sez. 4, n. 22257 del 25/03/2014, Rv. 259204; Sez. 5 n. 10411 del 28/01/2013, Rv. 254579), impone che la pluralità di possibili ricostruzioni della vicenda abbia costituito oggetto di puntuale e attenta disamina da parte del giudice d’appello e che l’esistenza di una ragionevole perplessità sulla ipotesi alternativa, riguardante tanto la causale, quanto gli autori dell’azione criminosa, sia stata esclusa all’esito di un percorso delibativo, condotto mediante un serrato confronto dialettico con le emergenze processuali.

Per convalidare, sul piano logico, il giudizio di colpevolezza, è dunque necessario che i dati probatori acquisiti siano tali da lasciare fuori solo eventualità remote, la cui effettiva realizzazione nella fattispecie concreta sia priva del benché minimo riscontro nelle risultanze processuali, addirittura ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della ordinaria razionalità umana, secondo l’orientamento espresso da Sez. 1 n. 31456 del 21/05/2008, Rv. 240763 (vedi altresì Sez. 1, n. 44324 del 18/04/2013, Rv. 258321; Sez. 2, n. 2548 del 19/12/2014, Rv. 262280).

Del pari, in un processo basato su prova indiziaria il verdetto assolutorio può raggiungersi per il disconoscimento della caratteristica di indizi nel senso imposto dall’art. 192 cod. proc. pen. i dati probatori, siccome dotati di insufficiente capacità dimostrativa, oppure per l’acquisizione, pur in presenza di dati indizianti significativi, di altre emergenze istruttorie in grado di supportare un’ipotesi alternativa altrettanto logica e tale da introdurre un ragionevole dubbio.

Natura e limiti del sindacato del giudice di legittimità sulla prova indiziaria

Quanto alla natura del sindacato conducibile da parte della Suprema Corte è chiaro che la stessa senza potersi occupare della gravità, della precisione e della concordanza in sé degli indizi, la cui verifica diretta comporterebbe sconfinamenti indebiti nella ricostruzione del fatto di reato, compito esclusivo del giudice di merito, deve riguardare la articolazione logica e giuridica della motivazione della relativa sentenza per poterne verificare la corretta applicazione dei criteri legali dettati dall’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. delle regole della logica e del principio di non contraddizione, nonché la compiutezza e coerenza argomentativa nella considerazione della valenza dimostrativa dei risultati probatori (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone e altri, Rv. 207944; Sez. 1, n. 42993 del 25/09/2008, Rv. 241826; Sez. 4, n. 48320 del 12/11/2009, Rv. 245880; Sez. 1, n. 44324 del 18/04/2013, Rv. 258321).

Il controllo esercitabile nella sede di legittimità investe, quindi, solo in via indiretta il risultato della valutazione perché deve riguardare il metodo seguito nelle operazioni ricostruttive del fatto mediante il raffronto dei singoli passaggi in cui si è articolato il ragionamento probatorio con i criteri legali in quanto, come affermato da Sez. U n. 6682/92 nella pronuncia sopra citata, la correttezza del metodo è l’unica garanzia circa l’affidabilità del risultato ricostruttivo.

Vizi deducibili al fine di stimolare correttamente il controllo della Corte di cassazione

La mancata rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali può essere dedotta quale motivo di ricorso qualora comporti il cosiddetto «travisamento della prova» (consistente nell’utilizzazione di un’informazione inesistente o nell’omissione della valutazione di una prova, accomunate dalla necessità che ii dato probatorio, travisato od omesso, abbia ii carattere della decisività nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica), purché siano indicate in maniera specifica ed inequivoca le prove che si pretende essere state travisate, nelle forme di volta in volta adeguate alla natura degli atti in considerazione, in modo da rendere possibile la loro lettura senza alcuna necessità di ricerca da parte della Corte, e non ne sia effettuata una monca individuazione od un esame parcellizzato, e senza che l’esame abbia ad oggetto, invece che uno o più specifici atti del giudizio, ii fatto nella sua interezza (Sez. 3, n. 38431 del 31/01/2018, Rv. 273911).

Note di commento

Si leggono spesso sentenze così nella produzione della Suprema Corte.

Si riconoscono subito: si aprono con definizioni dettagliate degli istituti e delle fattispecie applicabili nel caso di specie, proseguono con sequenze argomentative composite e considerazioni che si estendono ad ognuno degli aspetti rilevanti, pervengono a conclusioni che a questo punto sono presentate come implacabilmente evidenti e necessarie.

Tutto bene allora? No, non proprio, perché, se si sottopongono ad uno stress test le pietre d’angolo sulle quali si regge l’intera architettura di simili decisioni, non sfugge che sono nient’altro che inviti a credere piuttosto che dimostrazioni compiute, parole d’ordine piuttosto che leggi matematiche.

Lo sdoppiamento dei piani – quello teorizzato da un lato e quello reale dall’altro – si manifesta già nella definizione dell’indizio come fatto certo.

Quando poi, più avanti, si legge cosa deve intendersi per certezza, si apprende che non di certezza assoluta e naturalistica si sta discutendo ma di quella che rappresenta il “portato della verifica processualmente conducibile alla stregua delle fonti di prova acquisite”.

Diventa allora drammaticamente chiaro che ciò che viene identificato col termine “certezza” è in realtà un’opinione (il portato) fondata su altre opinioni che la precedono (le fonti di prova acquisite).

 Sempre in questa prima fase, sulla tavola imbandita dall’estensore spiccano come frammenti di meteoriti di composizione sconosciuta l’inferenza logica e il collegamento logico tra il fatto noto e quello da dimostrare.

Di quale logica si sta parlando? O, per meglio dire, c’è una sola logica possibile, e se sì quale, oppure no?

Il collegio che ha emesso la sentenza non lo spiega, attribuendo quindi valore assiomatico a parole o insiemi di parole, ma così facendo perpetua la mistificazione di chi mostra di avere certezze che non ha né può avere.

Lo stesso sembra potersi dire delle tre qualificazioni normativamente richieste perché gli indizi si trasformino in prove.

La gravità, anzitutto, in quanto intesa come “la probabilità di derivazione dal fatto noto di quello ignoto”: non si dice, e ancora una volta non si può farlo, quale sia il grado di probabilità accettabile, come debbano valutarsi sillogismi diversi e alternativi rispetto a quello prescelto e quale sia la consistenza che questi debbano possedere per inficiare il primo.

E poi la precisione: le si attribuiscono aggettivazioni una più impegnativa dell’altra, quali specificità, univocità e impossibilità di diversa interpretazione ma si può scommettere che se si chiedesse ad un campione significativo di giuristi esperti quale significato dia a quei termini, si avrebbero opinioni assai differenziate.

Così anche per la concordanza, per le medesime ragioni.

Si potrebbe continuare allo stesso modo per ognuna delle proposizioni basiche della decisione qui annotata ma, appunto, si cadrebbe nella ripetitività e non è il caso.

Si chiude pertanto citando il passaggio dedicato alla necessità di “considerazione unitaria e complessiva degli elementi acquisiti, che ne evidenzi «i collegamenti e la confluenza in un medesimo, univoco e pregnante contesto dimostrativo»”.

Questa formula, tanto roboante quanto tautologica, è la miglior conferma della tesi di partenza: non esistono né possono esistere certezze probatorie assolute; non è possibile averle sui fatti perché ciò che chiamiamo fatto è in realtà un’asserzione su un fatto; a maggior ragione non è possibile averle sulle prove perché ciò che chiamiamo prova è un’ulteriore asserzione che ricaviamo dalla prima.

Non si vuole con questo dire che il giudizio è inutile e che le opinioni di cui è il risultato siano inaccettabili, tutt’altro.

Si vuole invece, più limitatamente, affermare che l’esito dei giudizi penali è nient’altro che l’opinione del giudice. Potrà essere più o meno condivisibile, argomentata, addirittura illuminata, ma sempre un’opinione resterà e ammetterlo sarebbe una grande operazione di verità.

2 commenti

  1. Una sentenza di buoni propositi quasi sempre ignorati.

    Prendo solo un esempio.

    “impone che la pluralità di possibili ricostruzioni della vicenda abbia costituito oggetto di puntuale e attenta disamina da parte del giudice d’appello e che l’esistenza di una ragionevole perplessità sulla ipotesi alternativa, riguardante tanto la causale, quanto gli autori dell’azione criminosa, sia stata esclusa all’esito di un percorso delibativo, condotto mediante un serrato confronto dialettico con le emergenze processuali.”

    Quanti ricorsi in cassazione che pur non vedono nelle motivazioni in appello quanto qua espresso vengono poi veramente accettati?

    Voglio anche fare una considerazione in piu’

    ” l’esito dei giudizi penali è nient’altro che l’opinione del giudice. Potrà essere più o meno condivisibile, argomentata, addirittura illuminata, ma sempre un’opinione resterà e ammetterlo sarebbe una grande operazione di verità.”

    Se si arrivasse alla accettazione di quanto esposto non avremmo solo una operazione di verita’, ma avremmo il primo passo verso la costruzione di protocolli stringenti che, come in tutti i campi lavorativi, migliorano il risultato e diminuiscono gli errori.

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