Ingiusta detenzione: casistica della colpa grave che concorre a darvi causa e preclude il diritto alla riparazione (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 19091/2025, udienza dell’8 maggio 2025, ha ribadito, con un’ampia ricognizione, gli elementi valutabili dal giudice della riparazione a titolo di colpa grave che esclude il diritto alla riparazione nei casi di ingiusta detenzione.

Provvedimento impugnato

Con ordinanza del 25 novembre 2024, la Corte territoriale ha rigettato la domanda formulata da VR per la riparazione dovuta ad ingiusta sottoposizione alla misura della custodia cautelare dal 16 settembre 2002 – data in cui veniva tratto in arresto – al 29 marzo 2003 – data in cui veniva rimesso in libertà, per poi essere assolto con sentenza del Tribunale del 20 marzo 2019 (irrevocabile il 5 luglio 2019).

La misura cautelare nei confronti di VR fu disposta in quanto gravemente indiziato del reato di cui all’art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309.

Più in particolare, l’impugnata ordinanza ha ritenuto sussistente la colpa grave di cui all’art. 314, comma 1, cod. proc. pen., osservando che nel giudizio di cognizione, pur conclusosi con pronuncia assolutoria, non sono stati smentiti i rapporti illeciti con NF, soggetto implicato nel traffico di sostanze stupefacenti, con il quale il ricorrente aveva intrattenuto conversazioni dal tenore criptico, il cui contenuto rimandava all’acquisto, da parte di VR, di ingenti quantitativi di sostanza stupefacente.

Tali conversazioni venivano a saldarsi, sul piano dimostrativo, con le dichiarazioni di NF, che lo stesso Tribunale ha ritenuto attendibili.

Ricorso per cassazione

Avverso l’ordinanza propone ricorso per cassazione VR.

Il suo difensore, con un unico motivo, deduce violazione della legge penale processuale e vizio della motivazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c) ed e), cod. proc. pen.

I giudici della riparazione, si osserva, sono incorsi in errore nel ritenere gravemente colposa la condotta del ricorrente, valorizzando delle mere congetture, senza considerare l’esito assolutorio.

Inoltre, le condotte valorizzate dalla Corte della riparazione al fine di escludere l’indennizzo non furono contestate al ricorrente.

Ancora, questi lamenta che dall’esame dell’ordinanza impugnata non è possibile nemmeno individuare i comportamenti a lui attribuibili, men che meno qualificarli come espressione di macroscopica negligenza o imprudenza.

Infine, in capo al ricorrente mancava la consapevolezza che altri fossero dediti ad attività illecite costituenti reato.

Decisione della Suprema Corte

Il ricorso è inammissibile.

Essendo stata dedotta una ipotesi di c.d. ingiustizia sostanziale, è compito del giudice della riparazione valutare se l’imputato, con una condotta gravemente negligente o imprudente, abbia colposamente indotto in inganno l’autorità giudiziaria in relazione alla sussistenza dei presupposti per l’adozione di una misura cautelare.

In tal modo la connotazione solidaristica dell’istituto viene quindi ad essere

contemperata in rapporto al dovere di responsabilità gravante su tutti i consociati.

La Suprema Corte, nella sua più autorevole composizione, ha più volte ribadito che il giudice della riparazione deve procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze processuali rispetto al giudice penale.

Ciò in quanto è suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se queste si sono poste come fattore condizionante (anche nel concorso dell’altrui errore) alla produzione dell’evento “detenzione” (Sez. U, n. 43 del 13/12/1995, dep. 1996, Sarnataro, Rv. 203638 – 01; conf., Sez. U, n. 34559 del 26/06/2002, De Benedictis, Rv. 222263 – 01).

La valutazione deve essere effettuata, e ricalca quella eseguita al momento dell’emissione del provvedimento restrittivo, ed è volta a verificare, seppur in presenza di un errore dell’autorità procedente: in primo luogo, se dal quadro indiziario a disposizione del giudice della cautela potesse desumersi l’apparenza della fondatezza delle accuse, pur successivamente smentita dall’esito del giudizio; in secondo luogo, se a questa apparenza abbia contribuito il comportamento extraprocessuale e processuale tenuto dal ricorrente (Sez. U, n. 32383 del 27/05/2010, D’Ambrosio, Rv. 247663).

Tali comportamenti possono essere, come detto, di tipo extra-processuale (ad es., grave leggerezza o macroscopica trascuratezza tali da aver dato causa all’imputazione, violazione di legge o regolamenti) o processuale (ad es., auto-incolpazione, silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi).

Il giudice della riparazione, quindi, non può ritenere provati fatti che non sono stati considerati tali dal giudice della cognizione, ovvero non provate circostanze che quest’ultimo ha valutato dimostrate (Sez. 4, n. 46469 del 14/09/2018, Rv. 274350; Sez. 4, n. 12228 del 10/01/2017, Rv. 270039; Sez. 3, n. 19998 del 20/04/2011, Rv. 250385 – 01).

Nel rispetto di tali limiti, pertanto, il giudice della riparazione rimane libero di valutare autonomamente i fatti già giudicati.

Nel caso in esame la Corte distrettuale si è attenuta a tali principi avendo ritenuto, con motivazione adeguata e coerente sotto il profilo logico e nel rispetto delle norme applicabili, che il comportamento del ricorrente aveva contribuito ad ingenerare la rappresentazione di una condotta illecita, che ha concorso nel causare la detenzione ingiustamente sofferta.

I giudici della riparazione, in maniera tutt’altro che illogica, ed in forza delle intercettazioni utilizzate nel giudizio sulla imputazione, hanno messo in evidenza come tra NF e VR (entrambi effettivamente coinvolti in un traffico di stupefacenti) fossero state intercettate una serie di conversazioni criptiche, con frasi tronche, prive di riferimenti specifici, e comunque non compiutamente decifrabili secondo il loro tenore letterale.

Contrariamente a quanto si afferma in ricorso, dalla reiterazione dei contatti e dal loro tenore, la Corte della riparazione ha tratto argomenti per ritenere la piena consapevolezza di VR circa il coinvolgimento di NF nei traffici per cui è stato poi condannato.

Conversazioni del medesimo tenore furono intercettate tra VR ed un altro sodale, RC.

Tenuto conto del fatto che il Tribunale non ha negato la materialità dei fatti, ma ha ritenuto che non costituissero prova sufficiente della condotta partecipativa, i giudici della riparazione li hanno quindi autonomamente valutati con giudizio, ritenendo che tali frequentazioni, ed i connessi dialoghi, hanno concorso a dar causa alla detenzione patita, poiché tali da denotare (quantomeno) grave imprudenza, e perciò ostativi al riconoscimento del diritto all’indennizzo.

Hanno quindi ritenuto, i giudici della riparazione, che il carattere criptico del linguaggio utilizzato, indice dell’oggetto illecito delle conversazioni, abbia (quantomeno) contribuito a creare la falsa rappresentazione del reato posta a fondamento del provvedimento cautelare.

I giudici della imputazione, attraverso l’analisi di diverse intercettazioni, e confortati dalle attendibili dichiarazioni di NF, hanno inoltre ritenuto che VR, in alcune occasioni, avesse acquistato da quest’ultimo sostanza stupefacente del tipo cocaina (circa 500 grammi per volta, al prezzo di 70 – 75 milioni di lire per chilogrammo).

Sicché, il ricorso è aspecifico, perché non si confronta con il percorso argomentativo della decisione impugnata: ciò sia nella parte in cui afferma che il giudice della riparazione ha valorizzato comportamenti non accertati in sede di merito, sia nella parte in cui afferma che la condotta ostativa non è individuata, sia nella parte in cui contesta il carattere colposo della condotta, sia nella parte in cui ipotizza l’inconsapevolezza del ricorrente circa l’altrui attività illecita.

Inoltre, i giudici della riparazione, hanno fatto corretta applicazione del principio per cui la condizione ostativa può essere integrata da comportamenti quali le frequentazioni ambigue con i soggetti condannati nel medesimo procedimento o in procedimento diverso, purché il giudice della riparazione fornisca adeguata motivazione della loro oggettiva idoneità ad essere interpretate come indizi di complicità, così da essere poste quanto meno in sinergia con il provvedimento restrittivo adottato (Sez. 4, n. 850 del 28/09/2021, Rv. 282565; sez. 4, n. 53361 del 21/11/2018, Rv. 274498), ovvero dall’utilizzo, nel corso di conversazioni telefoniche, da parte dell’indagato di frasi in “codice”, destinate a occultare un’attività illecita, anche se diversa da quella oggetto dell’accusa e per la quale fu disposta la custodia cautelare (Sez. 4, n. 44997 del 19/11/2024, non mass.; Sez. 4, n. 46584 del 12/11/2024, non mass.; Sez. 4, n. 3374 del 20/10/2016, dep. 2017, Rv. 268954 – 01, con conferma della decisione di rigetto in un caso in cui “l’allusività delle conversazioni, l’uso di termini fuori contesto e lo stesso riferimento a pagamenti privi di causale apparente rimandano a rapporti opachi se non a traffici illeciti”; Sez. 4, n. 48029 del 18/09/2009, Rv. 245794 – 01).

Infine, va osservato che il giudizio sulla prevedibilità va formulato con criterio, ed in una dimensione oggettiva, quindi non come giudizio di prevedibilità del singolo soggetto agente, ma come prevedibilità secondo il parametro della comune esperienza, in relazione alla possibilità che la condotta possa dare luogo ad un intervento coercitivo dell’autorità giudiziaria (Sez. 4, n. 13359 del 26/02/2025, non mass.; Sez. 4, n. 12727 del 04/03/2025, non mass.; Sez. 4, n. 34224 del 08/05/2024, non mass.).

È sufficiente, pertanto, analizzare quanto compiuto dalla richiedente sul piano materiale (nella specie, ripetuti contatti con linguaggio criptico, finalizzati all’acquisito di ingenti partite di cocaina, in alcuni casi concretamente accertato), traendo ciò origine dal fondamento solidaristico dell’indennizzo, per cui la colpa grave costituisce il punto di equilibrio tra gli antagonisti interessi in campo.