“Veniamo noi con questa mia addirvi”: la mitica lettera di Totò e Peppino è ancora tra noi (Vincenzo Giglio)

La scena (a questo link per la visione su YouTube) della lettera dettata da Antonio Caponi (Totò) al fratello Peppino (Peppino De Filippo) nel film Totò, Peppino e la malafemmina dimostra la genialità artistica dei due grandi attori napoletani non solo per l’irresistibile comicità ma anche per la capacità di rappresentare un certo modo di usare il linguaggio.

Il film uscì nel 1956 e i suoi protagonisti erano due piccoli proprietari terrieri di provincia di scarsa istruzione, soliti servirsi della lingua parlata con larghi influssi dialettali, in difficoltà con quella scritta.

La necessità di rivolgersi “da remoto” alla “malafemmina” li costringe ad affrontare un test durissimo i cui risultati sono quelli che hanno fatto ridere milioni di italiani.

L’italiano scritto e incolto dei fratelli Caponi era quello dei loro tempi, del loro territorio, della loro condizione sociale, della loro cultura, eppure, per quanto strano possa apparire, sue tracce consistenti sono ancora presenti anche in ambiti dai quali ci si aspetterebbe una scrittura colta e asciutta.

Ne fa sicuramente parte quello giuridico.

La giustificazione di questa affermazione richiede previamente l’identificazione dei segni più caratteristici della lettera dei fratelli Caponi.

…La ridondanza

L’intero testo è costruito sull’idea che più si scrive meglio è perché, altrimenti, “dicono che noi siamo provinciali, siamo tirati”.

L’abbondanza è intesa pertanto come segno di distinzione, proprio di chi dispone di un vocabolario ricco, il quale a sua volta esprime una condizione sociale elevata.

Nulla sfugge a questa necessità.

Certamente non la punteggiatura (“punto, due punti …punto, punto e virgola”), ma lo stesso vale per i riferimenti agli autori (“i fratelli Caponi che siamo noi medesimo di persona”), al loro nipote traviato (“il giovanotto è studente che studia”) e al suo dovere (“deve tenere la testa al solito posto, cioè sul collo”).

…L’uso di espressioni tratte da linguaggi settoriali

Nella mente dei fratelli Caponi risuonano espressioni e formule arcane, verosimilmente captate a fatica da linguaggi e gerghi che gli sono normalmente estranei.

Sempre nell’intento di non sembrare provinciali le introducono qua e là nel testo, traducendole a casaccio e collocandole secondo criteri personali, comunque finalizzati a generare la migliore impressione nella destinataria della lettera.

Non poteva ovviamente mancare il ricorso al gergo curiale e burocratico.

Ecco, quindi, il latinetto riadattato in puro stile caponiano, “abbondandis ad abbondandum”, chiaramente derivato da “ad abundantiam” ma, come si è detto, all’abbondanza è meglio non mettere limiti.

Ed ecco anche l’unico contributo di Peppino, peraltro scartato, al contenuto della lettera: “Vuoi aggiungere qualcosa? P.: Mah ‘senza nulla a pretendere’ non c’è bisogno? T.: ‘In data odierna’ bah, ma quello poi si capisce P.: va beh poi si capisce”.

Nulla a pretendere”, come riconosce lo stesso Peppino, è un’espressione inutile e fuori contesto ma già solo averla pensata implica una sorta di sudditanza al gergo giuridico.

…La violazione sistematica delle regole linguistiche

Qui ce ne è per tutti i gusti.

Il maltrattamento della concordanza: “veniamo noi con questa mia”, “quest’anno c’è stato una grande morìa delle vacche, Questa moneta servono, questa moneta servono, questa moneta servono che voi vi consolate”.

L’invenzione di forme verbali inesistenti: “dai dispiaceri che avreta”.

L’alterazione di vocaboli esistenti: “laura” al posto di laurea, “parente” anziché parentesi e così via.

L’incertezza classificatoria: “che avreta, che avreta e già è femmina femminile’, perché è aggettivo qualificativo”.

L’uso azzardato delle subordinate: “Salutandovi indistintamente i fratelli Caponi che siamo noi, questo, apri una parente, apri una parente, dici che siamo noi, i fratelli Caponi, hai aperto la parente? Chiudila!”.

Le contrazioni improbabili: “veniamo noi con questa mia a dirvi. A dirvi. Addirvi. Una parola!  (con la mano indica a Peppino che addirvi è una parola sola) Addirvi! Una parola! Addirvi una parola”.

…L’incomunicabilità

Una costante della scena della lettera è l’incomprensione tra Totò che compone e detta e Peppino che scrive: esemplari a tal fine la scena iniziale della signorina che Totò indica come destinataria mentre Peppino si aspetta che entri nella stanza da un momento all’altro e il “voi vi consolate” che diventa “con l’insalata” ma, in generale, l’intero contesto della scena.

Note conclusive

Chi per mestiere, studio o passione scorre quotidianamente le grandi praterie del diritto e quindi viene a stretto contatto con il linguaggio del legislatore, del giudice, dell’accademico, del funzionario pubblico, del professionista legale, ha spesso sensazioni di déjà vu e quando si ferma nel tentativo di identificarne la provenienza può capitargli di rievocare la scena della mitica lettera dei fratelli Caponi.

Neologismi saccenti e inutili, subordinate da perderci la testa, punteggiatura un po’ così, latinetti come se piovesse e, prima e sopra ogni cosa, chi detta, già confuso di suo, fa entrare nel panico e nel caos chi scrive fino a renderlo altrettanto confuso.

Roba da brividi ma meglio riderci sopra.