L’11 giugno 2024 la Grande Camera della Corte europea dei diritti umani ha definito con sentenza (allegata alla fine del post nella versione in lingua inglese) il caso N. e H. c. Regno Unito (ricorsi nn. 32483/19 35049/19).
Riassunzione dei fatti oggetto del ricorso
I ricorrenti sono VN, cittadino irlandese nato nel xxx, e SH, cittadino britannico nato nel xxx.
I loro ricorsi alla Corte riguardano il regime di risarcimento previsto dalla legge per gli errori giudiziari previsto dal Criminal Justice Act del 1988, come modificato dall’AntiSocial Behaviour, Crime and Policing Act del 2014.
Il signor VN è stato condannato nel 1997 per tentato stupro e condannato all’ergastolo con una pena minima di sette anni.
Nel 2013 la sua condanna è stata annullata dopo che un’ulteriore analisi degli abiti indossati dalla vittima la notte dell’aggressione ha rivelato la presenza di DNA di un uomo sconosciuto.
Il signor SH è stato condannato nel 2004 per omicidio, associazione a delinquere finalizzata a commettere lesioni personali gravi e disordini violenti.
Le sue condanne sono state annullate dopo che sono emerse nuove prove che hanno messo in dubbio alcune delle prove che avevano costituito parte del caso contro di lui.
Entrambi i ricorrenti hanno successivamente chiesto un risarcimento per errore giudiziario.
Nel 2013, la Grande Camera aveva esaminato il ricorso di una ricorrente a cui, a seguito dell’annullamento della condanna, era stato negato il risarcimento per errore giudiziario ai sensi dell’articolo 133 (1) del Criminal Justice Act del 1988 (Allen contro Regno Unito (n. 25424/09)). All’epoca, l’articolo 133(1) del Criminal Justice Act del 1988 prevedeva un risarcimento qualora un fatto nuovo o recentemente scoperto dimostrasse oltre ogni ragionevole dubbio che si era verificato un errore giudiziario. Non esisteva una definizione legale di errore giudiziario. La ricorrente aveva sostenuto che le motivazioni addotte dai tribunali nazionali per rifiutare il risarcimento violavano i suoi diritti ai sensi dell’articolo 6 § 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (presunzione di innocenza).
La Grande Camera ha ritenuto che l’articolo 6 § 2 fosse applicabile ai fatti del caso, ma ha concluso che non vi era stata alcuna violazione di tale articolo, poiché le sentenze dell’Alta Corte e della Corte d’Appello non avevano dimostrato una violazione della presunzione di innocenza.
A seguito della sentenza della Grande Camera nel caso Allen, il Criminal Justice Act del 1988 è stato modificato, introducendo il nuovo articolo 133(1ZA) che prevede il risarcimento per errore giudiziario solo nel caso in cui un fatto nuovo o recentemente scoperto dimostri oltre ogni ragionevole dubbio che il ricorrente non aveva commesso il reato.
Le domande di risarcimento presentate dal signor Nealon e dal signor Hallam dovevano essere esaminate ai sensi del nuovo articolo 133 (1ZA).
Entrambe le domande sono state respinte dal Ministero della Giustizia perché i loro casi non soddisfacevano il requisito legale per il risarcimento previsto da tale articolo, ovvero che un fatto nuovo o recentemente scoperto non dimostrasse oltre ogni ragionevole dubbio che non avessero commesso il reato. Le lettere di decisione inviate a entrambi i ricorrenti affermavano che nulla in esse era “inteso a minare, qualificare o mettere in dubbio la [loro] condanna”. Entrambi i ricorrenti hanno chiesto la revisione giudiziaria delle decisioni del Ministero della Giustizia. Hanno sostenuto che il criterio di risarcimento previsto dalla legge era incompatibile con l’articolo 6 § 2 (presunzione di innocenza) perché imponeva loro di “provare” la propria “innocenza” per poter avere diritto al risarcimento. Hanno quindi chiesto una dichiarazione di incompatibilità ai sensi dell’articolo 4 dell’Human Rights Act del 1998. Le domande di revisione giudiziaria presentate dai sigg. Nealon e Hallam sono state respinte e i loro ricorsi sono stati respinti, poiché i tribunali nazionali hanno stabilito che – nonostante quanto affermato dalla Grande Camera nel caso Allen – l’articolo 6 § 2 (presunzione di innocenza) non aveva alcuna incidenza su una decisione di risarcimento ai sensi dell’articolo 133(1ZA) del Criminal Justice Act del 1988. Un successivo ricorso dei ricorrenti alla Corte Suprema è stato respinto nel gennaio 2019. Tale Corte ha inoltre stabilito, a maggioranza, che l’articolo 6 § 2 (presunzione di innocenza) non era applicabile a una decisione di risarcimento ai sensi dell’articolo 133(1ZA) del Criminal Justice Act del 1988 e/o che il nuovo articolo 133(1ZA) non era incompatibile con esso.
Sintesi della decisione della Grande Camera
Nella sentenza odierna della Grande Camera nel caso N. e H. contro Regno Unito (ricorsi nn. 32483/19 e 35049/19), la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito, con una maggioranza di 12 voti contro 5, che non vi è stata violazione dell’articolo 6 § 2 (presunzione di innocenza) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Il caso riguardava il rigetto delle richieste di risarcimento dei ricorrenti per errore giudiziario dopo che le loro condanne erano state annullate in quanto nuove prove avevano indebolito le accuse a loro carico.
Il regime legale di risarcimento per errore giudiziario previsto dal Criminal Justice Act del 1988, come modificato dall’Anti-Social Behaviour, Crime and Policing Act del 2014, prevedeva il risarcimento per errore giudiziario solo laddove un fatto nuovo o recentemente scoperto dimostrasse oltre ogni ragionevole dubbio che la persona interessata non aveva commesso il reato. I ricorrenti sostenevano che il regime legale fosse incompatibile con l’articolo 6 § 2, in quanto imponeva loro di “provare” la propria “innocenza” per poter beneficiare del risarcimento.
Nella sua giurisprudenza, la Corte ha riconosciuto un secondo aspetto dell’articolo 6 § 2, che entra in gioco dopo la conclusione del procedimento penale al fine di proteggere le persone precedentemente imputate che sono state assolte, o nei cui confronti il procedimento penale è stato interrotto, dal trattamento da parte dei pubblici ufficiali e delle autorità come se fossero effettivamente colpevoli.
Tali persone sono innocenti agli occhi della legge e devono essere trattate come tali. Nel caso di specie, la Corte ha confermato l’applicabilità dell’articolo 6 § 2 della Convenzione a questo secondo aspetto.
Inoltre, a seguito di una revisione della propria giurisprudenza in materia, la Corte ha ritenuto che in tutti questi casi, indipendentemente dalla natura del procedimento successivo e indipendentemente dal fatto che il procedimento penale si fosse concluso con un’assoluzione o con un’archiviazione, la questione che la Corte doveva considerare era se le decisioni e la motivazione dei tribunali nazionali o di altre autorità nel procedimento successivo, considerate nel loro complesso e nel contesto dell’esercizio che erano tenute a compiere in base al diritto interno, equivalessero all’imputazione di responsabilità penale al ricorrente.
Imputare la responsabilità penale a una persona significava riflettere un’opinione secondo cui la stessa era colpevole secondo il criterio penale della commissione di un reato.
La Corte ha osservato che il criterio di cui all’articolo 133 (1ZA) della legge modificata del 1988 imponeva al Ministro della Giustizia, nel contesto di una procedura civile e amministrativa riservata, di pronunciarsi solo sulla questione se il fatto nuovo o recentemente scoperto dimostrasse oltre ogni ragionevole dubbio che il ricorrente non avesse commesso il reato in questione.
Il rifiuto di risarcimento da parte del Ministro della Giustizia non ha, pertanto, attribuito una colpevolezza penale ai ricorrenti, riflettendo l’opinione che fossero colpevoli, ai sensi del principio penale, di aver commesso i reati, né ha suggerito che il procedimento penale avrebbe dovuto essere definito diversamente.
Affermando che non si poteva dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio che un ricorrente non avesse commesso un reato – in base a un fatto nuovo o di recente scoperta o in altro modo – non equivaleva a dichiarare che lo avesse commesso.
Pertanto, non si poteva affermare che il rifiuto di risarcimento da parte del Ministro della Giustizia attribuisse una colpevolezza penale ai ricorrenti.
La Corte ha concluso che il rigetto delle richieste di risarcimento dei ricorrenti ai sensi dell’articolo 133 (1ZA) della Legge del 1988 non aveva violato la presunzione di innocenza nel suo secondo aspetto.
Opinione dissenziente comune dei giudici Ravarani, Bošnjak, Chanturia, Felici e Yüksel (traduzione dall’inglese all’italiano a mia cura)
È con rammarico che non abbiamo potuto votare con la maggioranza nel concludere che non vi è stata violazione dell’articolo 6 § 2 della Convenzione.
Pur concordando con la maggioranza sull’applicabilità dell’articolo 6 § 2 della Convenzione ai fatti del caso, riteniamo che, con le loro decisioni, le competenti autorità amministrative e giudiziarie del Regno Unito abbiano violato la presunzione di innocenza dei ricorrenti.
1. I fatti essenziali.
Il signor N. è stato condannato per tentato stupro nel 1997, principalmente sulla base di prove identificative, ed è stato condannato all’ergastolo con una pena minima di sette anni. La scoperta di tracce di DNA di un uomo sconosciuto sulla biancheria intima indossata dalla vittima la notte dell’aggressione ha spinto il tribunale competente ad annullare la sua condanna nel 2012. Pur avendo ritenuto che le argomentazioni dell’accusa non fossero state “demolite” dalle nuove prove, il tribunale ha ritenuto che il loro effetto sulla sicurezza della condanna fosse “sostanziale”. Il Crown Prosecution Service non ha richiesto un nuovo processo perché, tra l’altro, la durata di un nuovo processo “non era nell’interesse pubblico” e il signor N. aveva già trascorso 17 anni in carcere.
Il signor H. è stato condannato per omicidio nel 2004. Il caso contro di lui si basava sulle prove identificative visive di due testimoni. Nuove prove hanno messo in dubbio le prove di identificazione che, a parere del tribunale competente, hanno minato la sicurezza della sua condanna. Tuttavia, il tribunale interno “non era convinto che fosse appropriato utilizzare [il suo potere di dichiararlo innocente] in base ai fatti del [detto] caso”.
A seguito dell’annullamento delle rispettive condanne, entrambi gli ex detenuti hanno presentato domanda di risarcimento per errore giudiziario.
La domanda è stata respinta in entrambi i casi, poiché il Segretario di Stato per la Giustizia (“il Segretario di Giustizia”) non era convinto che le loro condanne fossero state annullate in quanto un fatto nuovo o recentemente scoperto dimostrasse oltre ogni ragionevole dubbio che non avevano commesso i reati.
2. Le disposizioni normative rilevanti
Le disposizioni giuridiche sulle quali il Ministro della Giustizia si è basato nell’emanare le decisioni pertinenti, che sono state infine confermate dalla Corte Suprema, sono l’articolo 133 del Criminal Justice Act del 1988 (“la Legge del 1988”), che prevede il pagamento di un indennizzo nel caso in cui la condanna di una persona per un reato penale sia stata annullata in quanto un fatto nuovo o recentemente scoperto ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che si è verificato un errore giudiziario; e l’articolo 133(1ZA), emanato nel 2014, ai sensi del quale si è verificato un errore giudiziario se, e solo se, il fatto nuovo o recentemente scoperto dimostra che la persona non ha commesso il reato.
È degno di nota che durante il processo di elaborazione del testo legislativo siano state sollevate preoccupazioni circa una potenziale violazione dell’articolo 6 § 2 della Convenzione. Alla luce di tali preoccupazioni, il termine “innocente del reato” è stato sostituito con la frase “non ha commesso il reato”.
3. La sentenza della Corte Suprema.
Entrambi i ricorrenti hanno chiesto un riesame giurisdizionale del rifiuto del Ministro della Giustizia. Le loro richieste sono state respinte dal Tribunale Amministrativo e successivamente dalla Corte d’Appello. Quando i casi sono stati presentati alla Corte Suprema, si è sviluppata un’ampia discussione tra i giudici sull’applicabilità dell’articolo 6 § 2 a tutte le decisioni e ai criteri per il riconoscimento di un risarcimento ai sensi dell’articolo 133 della Legge del 1988, in particolare il “secondo aspetto” dell’articolo 6 § 2, che vieta l’imputazione di colpevolezza penale a una persona assolta in via definitiva in un procedimento penale (vedi anche infra). Notiamo che, nella sua sentenza, Lord Wilson, insieme a diversi colleghi, ha sottolineato che “se l’articolo 6 § 2 [ha] il significato attribuitogli dalla Corte [di Strasburgo], l’articolo 133 della Legge del 1988 [non è] compatibile con esso”. La sua raccomandazione era che il significato attribuito all’articolo 6 § 2 dalla Corte non dovesse essere adottato, il che, a contrario, implica che, se tale significato venisse adottato, l’articolo 133(1ZA) di per sé viola il secondo aspetto dell’articolo 6 § 2.
La Corte Suprema si è espressa a maggioranza nel senso di ritenere l’articolo 6 § 2 applicabile ma non incompatibile con l’articolo 133 (1ZA), principalmente perché il caso non riguardava il perseguimento di alcuna accusa penale, quanto piuttosto una questione civile, i cui elementi erano stati riscontrati anche in precedenti procedimenti penali, ma che tuttavia obbedivano a regole diverse, soprattutto per quanto riguarda il livello di prova (vale a dire, il bilanciamento delle probabilità in contrapposizione alla prova oltre ogni ragionevole dubbio).
Lord Reed e Lord Kerr hanno espresso pareri discordanti. Hanno ritenuto irrealistica la distinzione tra il requisito che l’innocenza sia accertata e il requisito che l’innocenza sia accertata da un fatto nuovo o appena scoperto e nient’altro, riecheggiando la sentenza della Corte d’Appello del 15 luglio 2008 nel caso Allen: “Se l’articolo 6(2) dovesse applicarsi … non vi sarebbe motivo né logico né di equità di distinguere tra coloro le cui condanne vengono annullate sulla base di nuove prove e coloro le cui condanne vengono annullate sulla base di altri motivi; ciascuno di essi sarebbe in grado di avvalersi della presunzione di innocenza” (sentenza citata in Allen c. Regno Unito [GC], n. 25424/09, § 41, CEDU 2013). Hanno insistito sul fatto che la rilevanza di un nuovo elemento di prova può essere valutata solo nel contesto delle prove nel loro complesso. Hanno pertanto ritenuto che “non vi sia alcuna differenza sostanziale … tra chiedere se l’innocenza del ricorrente sia stata accertata dal fatto nuovo o di recente scoperta e chiedere se la sua innocenza sia stata accertata”.
Ritenendo applicabile l’articolo 6 § 2 e tuttavia non incompatibile con l’articolo 133(1ZA), la maggioranza della Grande Camera riesce a quadrare il cerchio, un risultato che i giudici sia della maggioranza che della minoranza della Corte Suprema non ritenevano possibile.
In linea con i giudici di minoranza della Corte Suprema e per le ragioni esposte di seguito, riteniamo che l’articolo 6 § 2 sia applicabile e che l’articolo 133(1ZA), di per sé e applicato ai casi in esame, violi la presunzione di innocenza tutelata da tale disposizione della Convenzione.
4. I due aspetti della presunzione di innocenza
La presunzione di innocenza è una presunzione legale. Come ogni presunzione legale, essa assiste il decisore in una situazione in cui un fatto rilevante non è noto o non può essere conosciuto. Le presunzioni legali possono essere confutate in modo ordinato in un procedimento giudiziario pertinente. Per la presunzione di innocenza, ciò significa che può essere confutata in un procedimento penale dimostrando che l’imputato ha commesso il reato e che è penalmente responsabile per tale fatto.
Questo è talvolta definito il “primo aspetto” della presunzione di innocenza tutelata dall’articolo 6, paragrafo 2.
Qualora la presunzione di innocenza non venga confutata, si trasforma in “praesumptio iuris et de iure”, il che significa che l’imputato (ex) è considerato non aver commesso il reato e non penalmente responsabile. Gli elementi costitutivi del reato non possono più essere discussi e messi in discussione in alcun procedimento giudiziario riguardante tale persona. Questo è il “secondo aspetto” della presunzione di innocenza.
5. L’articolo 133(1ZA) di per sé viola la presunzione di innocenza sancita dall’articolo 6 § 2 della Convenzione.
Affinché una persona possa ricevere un risarcimento, l’articolo 133 (1ZA) della Legge del 1988 richiede che il fatto nuovo o scoperto di recente dimostri oltre ogni ragionevole dubbio che la persona non ha commesso il reato. Questa disposizione è incompatibile con la presunzione di innocenza in quanto, da un lato, consente e persino richiede una rivalutazione dell’eventuale commissione del reato da parte dei ricorrenti, in un momento in cui la loro condanna è stata annullata e la presunzione di innocenza è stata ripristinata con effetto definitivo; e, dall’altro, struttura il processo decisionale in modo tale che il punto di partenza sia la presunzione che i ricorrenti abbiano commesso il reato, una presunzione che può essere confutata solo se dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio di non averlo commesso.
Si tratta di un classico spostamento dell’onere della prova, di per sé incompatibile con la presunzione di innocenza.
Lo stesso “esercizio” richiesto dall’articolo 133(1ZA) implica l’accertamento dell’innocenza dei ricorrenti ai fini della suddetta disposizione.
Pertanto, richiedeva ai ricorrenti di provare la propria innocenza in relazione al diritto penale in modo positivo, mediante un fatto nuovo. In sostanza, non erano considerati innocenti fin dall’inizio. Pertanto, la questione in esame è se il test previsto dalla legge abbia attribuito nuovamente ai ricorrenti l’onere di provare la propria innocenza, negando loro così la presunzione di innocenza.
A differenza della maggioranza, riteniamo che la questione vada oltre la mera formulazione della decisione che mette in dubbio l’innocenza della persona.
6. La questione relativa alla natura civile del procedimento di risarcimento.
Il forte affidamento da parte della maggioranza (e della Corte Suprema) sul fatto che i requisiti del procedimento di risarcimento siano diversi da quelli applicabili al procedimento penale (cfr. paragrafo 178 della presente sentenza) e che una ponderazione delle probabilità sia sufficiente per accertare se la persona abbia o meno commesso il reato è seriamente discutibile, poiché la confutazione della presunzione di colpevolezza è possibile solo superando l’ostacolo “al di là di ogni ragionevole dubbio”, che rappresenta uno standard estremamente elevato e, in linea di principio, applicabile solo all’azione penale. Quali che siano le distinzioni tra i due standard probatori proposti, il requisito della prova “al di là di ogni ragionevole dubbio” che il reato non sia stato commesso deriva direttamente dalla formulazione dell’articolo 133(1ZA).
7. Il linguaggio può “salvare” la presunzione di innocenza?
Va ricordato che nel caso Allen la Grande Camera ha affermato che non esisteva un approccio uniforme, ma che l’accertamento di una violazione in tali circostanze dipendeva “dalla natura e dal contesto del procedimento in cui era stata adottata la decisione impugnata” e che il linguaggio utilizzato era “di importanza critica”, sebbene non decisivo (cfr. Allen, §§ 125-126). Il linguaggio/la formulazione delle decisioni e della motivazione nel presente caso non è così centrale come lo era nel caso Allen, e pertanto Allen ha un’applicabilità limitata a tale riguardo. La ricorrente nel caso Allen non ha messo in discussione la compatibilità dell’articolo 133 con l’articolo 6 § 2, ma ha piuttosto lamentato che le motivazioni fornite dall’Alta Corte e dalla Corte d’Appello mettessero in dubbio la sua innocenza.
In tale caso, la Corte ha esaminato la formulazione utilizzata.
Nel caso di specie, tuttavia, i ricorrenti hanno sostenuto che, data la natura del criterio (che riguarda l’onere della prova più che la formulazione della decisione del Ministro della Giustizia), l’articolo 133 è intrinsecamente incompatibile con l’articolo 6 § 2.
È vero che le lettere di rifiuto inviate ai ricorrenti dal Ministro della Giustizia includevano dichiarazioni secondo cui nulla in esse era inteso a indebolire, qualificare o mettere in dubbio la decisione di annullare le loro condanne e che si presumeva che fossero e rimanessero innocenti delle accuse a loro carico.
Tuttavia, la Corte ha precedentemente stabilito che non dovrebbe essere rilevante il fatto che le lettere di decisione indicassero che il diniego di risarcimento non metteva in dubbio l’innocenza di un ricorrente, poiché ciò che contava era il criterio sostanziale applicato (cfr. Hammern c. Norvegia, n. 30287/96, § 48, 11 febbraio 2003). Pertanto, non è vero che la semplice formulazione di osservazioni cautelative sia sufficiente per evitare una violazione dell’articolo 6 § 2.
Come ha affermato Lord Reed, “l’applicazione di un criterio che in sostanza viola la presunzione di innocenza non è resa accettabile dall’aggiunta di termini volti a evitare un conflitto con l’articolo 6(2)” (cfr. paragrafo 45 della presente sentenza).
8. Il contesto più ampio.
Questo caso evidenzia la volontà – ampiamente presunta – delle autorità nazionali competenti di limitare il risarcimento delle vittime di un errore giudiziario ai soli casi eccezionali.
Questo è un loro diritto, poiché il risarcimento in tali casi non è previsto dalla Convenzione stessa, ma piuttosto dall’articolo 3 del Protocollo n. 7 alla Convenzione, che il Regno Unito non ha firmato né a cui non ha aderito.
È interessante notare che dopo la sentenza Allen, la legge in Inghilterra e Galles è stata modificata in modo da rendere il risarcimento ancora più difficile da ottenere.
Al contrario, la maggior parte degli Stati prevede la responsabilità oggettiva dello Stato in caso di errore giudiziario.
In pratica, il sistema attuale funziona in modo tale che il criterio stabilito dalla legislazione rappresenti un ostacolo praticamente insormontabile. Secondo le informazioni fornite dal Governo durante l’udienza, solo circa il tre percento degli individui le cui condanne penali sono state annullate senza successiva condanna (e che quindi devono essere considerati innocenti) ottengono un risarcimento per una condanna ingiusta [su 346 domande, solo 13 sono state accolte tra il 2017 e il 2022]. In altre parole, è estremamente raro che persone innocenti riescano a convincere il Segretario di Giustizia di non aver commesso il reato per il quale le loro condanne sono state annullate e di essere quindi considerate innocenti. Pertanto, le preoccupazioni espresse sopra non sono puramente teoriche. È anche piuttosto sorprendente che il Crown Prosecution Service, nel caso del signor Nealon, abbia ritenuto non necessario riaprire il suo processo – che avrebbe potuto definitivamente stabilire la sua innocenza – poiché aveva già trascorso 17 anni in carcere. Questo è un atteggiamento altamente indesiderabile nei confronti della presunzione di innocenza.
9. Conclusione.
Nel complesso, l’approccio della maggioranza si limita esclusivamente all’imputazione positiva di colpevolezza, in altre parole, vi sarà stata violazione solo in caso di imputazione di responsabilità penale, ovvero quando la formulazione delle decisioni mette in dubbio l’innocenza dei ricorrenti (si vedano i paragrafi 164 e 167 della presente sentenza).
Ciò rischia di rendere l’articolo 6 § 2 teorico e illusorio, poiché implica che, finché nelle decisioni non è inclusa alcuna formulazione che affermi la colpevolezza o l’innocenza del ricorrente, vi sarà conformità alla Convenzione, indipendentemente dalla realtà del processo decisionale. Ciò riduce significativamente la natura pratica ed efficace del secondo aspetto dell’articolo 6 § 2. Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, riteniamo che vi sia stata violazione della presunzione di innocenza garantita dall’articolo 6 § 2 della Convenzione.
Brevi note di commento
La sentenza della Grande Camera della Corte EDU oggetto di questo post appare il frutto di un compromesso che, nel tentativo di mediare tra gli interessi conflittuali (individuali da un lato e statali dall’altro) sottostanti ai ricorsi, si è risolta in una scelta al ribasso.
Il giudice dei diritti umani non smentisce, anzi riafferma, il principio della doppia presunzione di innocenza, essendo consapevole che una presunzione che si esaurisce all’interno del procedimento principale è una tutela debole potendo essere sconfessata e contraddetta da affermazioni istituzionali di segno contrario in procedimenti derivati.
Quando però deve trarne le conseguenze, la Corte ritrae la mano e si smarrisce in una sequela di bizantinismi, lucidamente smascherati dall’opinione dissenziente.
La conseguenza concreta è che due individui la cui condanna, sia pure sulla base di prove sopravvenute, è risultata ingiusta, continueranno a non avere alcun diritto risarcitorio.
È una situazione che presenta notevoli affinità con la disciplina italiana e richiama alla mente vicende clamorose come quella di cui è stato vittima Beniamino Zuncheddu e l’esito che potrebbe avere la sua domanda riparatoria sia al giudice nazionale che, in ipotesi, a quello europeo.
Non è azzardato, si crede, chiedere una nuova e più avanzata prospettiva ai giudici di Strasburgo ma è realistico ritenere che non la si otterrà, non a breve.

C’e chi sta peggio dell’Italia.
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Vero ma piacerebbe che si seguisse l’esempio di chi sta meglio di noi.
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