Ingiusta detenzione e mancata ottemperanza alla misura cautelare ingiusta: incidenza sulla determinazione dell’indennizzo (Riccardo Radi)

Vieni arrestato ma sei innocente, all’inizio vai in carcere poi agli arresti domiciliari e non rispetti le prescrizioni e ti viene aggravata la misura e quindi ritorni in carcere.

Il tuo comportamento non rispettoso incide sulla determinazione dell’indennizzo.

La Cassazione sezione 4 con la sentenza numero 12267/2025 ha affermato, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, che la maggiore afflittività del carcere rispetto agli arresti domiciliari non può essere valorizzata per incrementare l’indennizzo, nel caso in cui l’aggravamento della misura cautelare sia dipeso da evasione, posto che la violazione degli arresti domiciliari è causalmente riconducibile ad una scelta volontaria dell’istante. (Vedi: Sez. U, n. 1 del 1995, Rv. 201035-01).

La questione sottoposta attiene alla determinazione dell’indennizzo per ingiusta detenzione nel particolare caso in cui, durante il periodo detentivo rivelatosi ingiusto, si sia verificato un aggravamento della misura cautelare – da arresti domiciliari a custodia carceraria – a seguito di una condotta dolosa dell’istante, consistita nell’evasione dal regime degli arresti domiciliari.

Rileva la Suprema Corte come l’ordinanza impugnata sia incorsa in violazione di legge, segnatamente dell’art. 314 cod. proc. pen., nella parte in cui non ha considerato il dolo o la colpa grave del M. nell’aver violato la misura degli arresti domiciliari, mediante la condotta di evasione.

La Corte territoriale, infatti, anche per il suddetto periodo di custodia in carcere, a seguito dell’aggravamento per l’evasione, ha liquidato l’indennizzo secondo gli stessi parametri adottati per il primo periodo di detenzione in carcere, omettendo così di operare una necessaria differenziazione in relazione alle diverse cause generatrici delle restrizioni patite.

Osserva la cassazione come il giudice a quo abbia del tutto omesso di procedere a un’adeguata valutazione della condotta del M., al fine di rinvenirvi eventuali profili di grave colpevolezza causalmente idonei a determinare l’aggravamento degli arresti domiciliari.

A tale riguardo, mette conto di evidenziare come la misura della custodia in carcere, in aggravamento a seguito di evasione dagli arresti domiciliari, fosse da ritenere legalmente adottata, ossia sostenuta dall’emissione di un provvedimento giurisdizionale dotato di piena efficacia, fondato sulla riscontrata sussistenza dei relativi presupposti di legge e riconducibile causalmente alla condotta dolosa del M.

Nel momento in cui il ricorrente si è allontanato dal luogo degli arresti domiciliari, egli era sottoposto alla stessa misura cautelare sulla base di un provvedimento legalmente emesso e pienamente valido.

Egli pertanto era sottoposto all’obbligo di non allontanarsi e di attenersi alle prescrizioni dettate nel provvedimento dispositivo della misura cautelare, al fine di non incorrere, non solo nella sanzione prevista dalla norma incriminatrice di cui all’art. 385 cod. pen., comma 3, la cui ratio risiede nella necessità che l’imputato agli arresti domiciliari non si sottragga alla costante possibilità di controllo della polizia giudiziaria, ma anche nelle conseguenze legate alla possibile valutazione di detto comportamento alla stregua dei canoni di pericolosità che legittimano l’inasprimento della originaria misura cautelare con quella della custodia in carcere.

In tema di riparazione per ingiusta detenzione, l’equità che deve guidare la determinazione dell’indennizzo non può prescindere da una valutazione circa il contributo del soggetto alla causazione o all’aggravamento dello stato detentivo. Il principio di causalità che governa l’an della riparazione deve necessariamente riflettersi anche sul quantum, con la conseguenza che, laddove sussista un concorso causale tra la condotta dell’istante e l’aggravamento del provvedimento restrittivo, l’indennizzo dovrà essere proporzionalmente ridotto.

Nel caso di specie, occorre considerare che l’aggravamento della misura cautelare dagli arresti domiciliari alla custodia in carcere è stato determinato dal comportamento doloso dell’istante, il quale si è volontariamente sottratto al regime degli arresti domiciliari, integrando la fattispecie di evasione.

È principio consolidato nella giurisprudenza che la dolosa trasgressione, da parte dell’imputato, delle prescrizioni inerenti alla misura cautelare degli arresti domiciliari, ancorché successivamente rivelatasi illegittima, renda giustificato l’inasprimento della misura con quella della custodia cautelare in carcere.

L’adozione della misura e il relativo mantenimento devono ritenersi, fino al momento della relativa formale rimozione per via giudiziale, disposti nel pieno rispetto delle norme di legge (cfr. Cass., n. 24197/2013, Zizza).

Presupposto del delitto di evasione (art. 385 cod. pen.) è, infatti, che l’arresto e la detenzione alla quale l’evaso si sottrae siano stati disposti “legalmente”.

È bensì vero che la giurisprudenza della cassazione interpreta il requisito in questione in termini rigorosi, ritenendo che il soggetto debba trovarsi in uno stato di arresto o di detenzione del tutto conforme alle norme dettate dall’ordinamento in tema di misure cautelari personali o di pene detentive (v. Sez. 6, n. 10282 del 13/02/2001, Solla, Rv. 219158; ma v. anche, in senso meno rigoroso, in un caso particolare, Sez. 6, n. 1364 del 11/10/2006, dep. 19/01/2007, Barone, Rv. 235718; Sez. 6, n. 18733 del 09/01/2008, Andrianò, Rv. 239930).

Si è tuttavia precisato che la responsabilità dell’agente non è esclusa quando, dopo il fatto, intervenga sentenza di proscioglimento in ordine al reato per il quale era stata disposta la custodia cautelare (Sez. 6, n. 14250 del 22/03/2005, Tornasello, Rv. 231195).

Dunque, il fatto che l’imputato sia stato assolto dalla imputazione che ha dato causa all’originaria misura personale, non elide la circostanza che la condotta di evasione dell’accusato sia da ritenere penalmente illecita, secondo una valutazione da condurre alla stregua delle condizioni esistenti all’atto dell’indebito allontanamento e della vanificazione del controllo della polizia giudiziaria (v. Cass., Sez. 6, n. 15208/2009, Rv. 243939).

Va altresì ricordato che nella determinazione dell’indennizzo dovuto a colui che abbia subito una detenzione ingiusta si deve far riferimento ad alcuni principi fondamentali, enucleati da due pronunce rese dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 1 del 13/01/1995, Castellani, Rv. 201035 e Sez. U, n. 24287 del 09/05/2001, Caridi, Rv. 218975).

Come puntualizzato da queste sentenze: – la liquidazione deve essere effettuata con criteri equitativi che postulano, ai fini dell’entità della riparazione, la valutazione congiunta dei criteri della durata della custodia cautelare sofferta e delle conseguenze derivanti dalla privazione della libertà; – la liquidazione va effettuata tenendo conto del parametro aritmetico costituito dal rapporto tra il tetto massimo dell’indennizzo fissato dall’art. 315, 3 rud comma 2, cod. proc. pen. e il termine massimo della custodia cautelare pari a sei anni ex art. 303, comma 4, lett. c) espresso in giorni, moltiplicato per il periodo, anch’esso espresso in giorni, di ingiusta detenzione subita che deve essere opportunamente integrato dal giudice, innalzando o riducendo il risultato di tale calcolo numerico, nei limiti dell’importo massimo indennizzabile, per rendere la decisione più equa possibile e rispondente alla specificità, positiva o negativa, della situazione concreta.

Il differente grado di afflittività delle diverse forme di restrizione della libertà personale costituisce un parametro ineludibile nella determinazione dell’equa riparazione.

Non può infatti essere revocato in dubbio che la detenzione in carcere comporti un carico afflittivo nettamente superiore rispetto alla restrizione domiciliare, tanto che per quest’ultima si ritiene congruo un coefficiente di ragguaglio di riduzione ad un mezzo.

Tuttavia, con specifico riferimento all’ipotesi in cui la detenzione carceraria, in sostituzione di quella domiciliare, sia stata determinata dal comportamento doloso dell’istante, utili riferimenti, ai fini della quantificazione, possono trarsi dalla rilevanza ostativa della causalità tra la condotta dolosa o colposa del soggetto cautelato e l’adozione del provvedimento restrittivo, più volte affermato da questa Sezione (ex multis, Sez. 4, Sentenza n. 39726 del 27/09/2023, Rv. 285069-01).

Infatti, tale principio, con le dovute precisazioni, è applicabile anche all’ipotesi in cui si discuta non dell’esclusione totale del diritto all’indennizzo, ma di una sua riduzione in relazione al periodo in cui l’aggravamento della misura sia riconducibile alla condotta del cautelato.

In entrambi i casi, infatti, il nucleo della valutazione del giudice della riparazione risiede nell’accertamento del nesso di causalità tra il comportamento del soggetto e il provvedimento restrittivo della libertà personale.

Ne consegue che, qualora l’aggravamento della misura cautelare, dagli arresti domiciliari alla custodia in carcere, sia stato provocato dal comportamento doloso del soggetto che è evaso dagli arresti domiciliari, la maggiore afflittività del carcere rispetto alla pregressa misura non può essere considerata per maggiorare l’indennizzo, essendo riconducibile alla scelta consapevole dell’istante di violare le prescrizioni della misura cautelare cui era sottoposto.

Il principio di equità che permea l’intero istituto della riparazione per l’ingiusta detenzione richiede che l’indennizzo rappresenti un giusto ristoro del pregiudizio subito, senza però tradursi in un indebito arricchimento per il beneficiario, specialmente quando quest’ultimo abbia concorso, con il proprio comportamento, ad aggravare lo stato di privazione della libertà.

In conclusione, sei stato arrestato ingiustamente e ritieni che la misura cautelare che ti è stata applicata è profondamente ingiusta ma tutto ciò non ti esime di essere rispettoso dell’ingiustizia patita.