Nel “Paese delle confische” si apre qualche spiraglio di ragionevolezza (Leonardo Filippi)

Il “Paese delle confische”: commento a Cass., Sez. IV, 23.4.2025, n. 16380, Piroscia

L’Italia, come si sa, è “il Paese delle confische”. Pochi Stati vantano un armamentario ablativo dei beni sospetti pari al nostro. Da noi l’”arcipelago delle confische” conosce ben quattro diverse tipologie, che brevemente passiamo in rassegna.  

La confisca diretta ex art. 240 c.p. (confisca “stretta”), che esige una stretta correlazione tra il fatto per cui è intervenuta condanna e un determinato bene che servì o fu destinato a commettere il reato o ne è il prodotto, il profitto o costituisce il prezzo del reato o la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisce reato. Essa è una misura di sicurezza regolata dalla legge vigente al momento della sua applicazione ex art. 200 c.p. perché postula la valutazione in termini di attualità della pericolosità sociale della res rispetto al condannato, da ricostruire in base alla legislazione in quel momento vigente, pur se entrata in vigore in epoca successiva al sorgere della pericolosità, o all’acquisizione dei cespiti patrimoniali oggetto di ablazione.

La confisca per equivalente, invece,anziché incidere direttamente sui beni entrati nella sfera giuridica dell’autore del reato per effetto di questo, “rompe” il nesso di pertinenzialità tra reato e bene, per cui si confiscano al condannato beni diversi ma dello stesso valore del provento del reato.

Le Sezioni unite 26.9.2024, n. 13783/2025, Foffano, sono di recente intervenute in materia con una sentenza che ha dettato lo “statuto” delle confische. Nell’occasione le Sezioni unite hanno sviluppato alcune fondamentaliconsiderazioni in generale, precisando che la confisca è misura sottoposta anch’essa al controllo di proporzione, a prescindere dalla sua formale “etichetta” (cioè diretta o per equivalente). Inoltre, anche rispetto alla confisca si deve valutare se la compromissione del diritto di proprietà sia idonea, necessaria e proporzionata rispetto al fine prefissato. Ancora, se l’ablazione non è diretta ad un mero ripristino ma assume connotati punitivi, nel senso che ha un effetto peggiorativo rispetto alla situazione patrimoniale del trasgressore, il controllo di proporzionalità assume una valenza retrospettiva, con particolare riguardo alla proporzione della sanzione complessivamente irrogata rispetto alla gravità del singolo fatto. Se, invece, l’ablazione è diretta al ripristino della situazione anteriore all’illecito, il controllo di proporzionalità ha una valenza prospettica ed è volto a verificare la congruità del mezzo – cioè della misura- rispetto al fine. Si avverte che gli automatismi e le rigidità sanzionatorie possono essere elementi indicativi di sproporzione. Si è osservato, ancora, che la natura della confisca per equivalente deriva e dipende dalla natura della confisca diretta a cui accede: se la confisca diretta ha natura “recuperatoria” (confisca del profitto), la confisca per equivalente sarà recuperatoria; se la confisca diretta ha carattere punitivo (confisca in eccesso del profitto), la confisca per equivalente sarà punitiva.

Le Sezioni unite hanno indicato alcuni importanti principi di diritto in tema di confisca diretta e per equivalente.  Esse hanno chiarito, infatti, che la confisca di somme di denaro ha natura diretta soltanto in presenza della prova della derivazione causale del bene rispetto al reato, non potendosi far discendere detta qualifica dalla mera natura del bene. La confisca è, invece, qualificabile per equivalente in tutti i casi in cui non sussiste il già menzionato nesso di derivazione causale.Inoltre, in caso di concorso di persone nel reato, esclusa ogni forma di solidarietà passiva, la confisca è disposta nei confronti del singolo concorrente limitatamente a quanto dal medesimo concretamente conseguito. Il relativo accertamento è oggetto di prova nel contraddittorio fra le parti. Solo in caso di mancata individuazione della quota di arricchimento del singolo concorrente, soccorre il criterio della ripartizione in parti uguali. I medesimi principi operano in caso di sequestro finalizzato alla confisca, per il quale l’obbligo motivazionale del giudice va modulato in relazione allo sviluppo della fase procedimentale e agli elementi acquisiti.

Diversa è la c.d. confisca “allargata” o “estesa” o “per sproporzione”, che è quella oggetto della sentenza in esame. Essa è una confisca dei beni di sospetta origine illecita, fondata su una presunzione (relativa) di provenienza criminosa dei beni posseduti dai soggetti condannati per taluni “reati-spia”, non sempre gravi: si presume cioè che il soggetto condannato per un certo reato possa averne commesso anche altri dai quali potrebbe essere derivato il patrimonio sproporzionato alle sue possibilità. Infatti, la confisca di cui all’art. 240-bis c.p. prende in considerazione il diverso nesso che si stabilisce tra un patrimonio ingiustificato e una persona condannata o cui è stata applicata la pena su richiesta per uno dei reati-presupposto di cui allo stesso art. 240-bis c.p. Dalla accertata sproporzione tra guadagni (desumibili dal reddito dichiarato ai fini delle imposte) e patrimonio deriva una presunzione relativa di illecita accumulazione patrimoniale, che può essere superata dall’interessato sulla base di specifica e verificata prova contraria, dalla quale si possa desumere la legittima provenienza del bene sequestrato, in quanto acquistato con proventi proporzionati alla propria capacità reddituale lecita e pertanto di provenienza dal patrimonio legittimamente accumulato.

Del tutto differente ancora è la confisca “di prevenzione”, prevista dall’art. 24 d.lgs. n. 159/2011, in cui i soggetti proposti per l’applicazione della confisca di prevenzione sono solo indiziatidi aver commesso un reato e quindi non vi è ancora alcun accertamento di responsabilità e addirittura potrebbero essere stati assolti in sede penale ma subire ugualmente la confisca di prevenzione, per cui tale misura ablativa  è ora sotto la lente della Corte europea dei diritti dell’uomo nel “caso Cavallotti”, due impresari assolti dal delitto di associazione mafiosa ma espropriati dell’intero patrimonio.

La Corte e.d.u. si è già pronunciata nella vicenda in modo interlocutorio, sottolineando con estrema chiarezza che una simile ablazione di beni sino a quel momento detenuti (“peaceful enjoyment of possessions”) deve comunque risultare “necessaria e proporzionata” (“necessary and proportionate”), ed ha invitato conseguentemente le parti (cioè lo Stato italiano e i ricorrenti) ad approfondire una serie di aspetti, quali in particolare: a) la dubbia ragionevolezza di un giudizio di pericolosità qualificata a fronte della già avvenuta assoluzione dei ricorrenti da analoga imputazione; b) la concorrente necessità di ricondurre la titolarità di tutti i beni confiscati proprio ai ricorrenti principali, piuttosto che ai loro effettivi intestatari, sulla base di una valutazione oggettiva delle risultanze probatorie e non in forza di un mero sospetto; c) l’esigenza che la provenienza illecita di detti beni risulti a sua volta dimostrata sempre sulla base di una valutazione oggettiva delle risultanze probatorie e non in forza di un mero sospetto, tenendo in debito conto anche il momento in cui i ricorrenti li hanno acquisiti; d) l’eccessivo onere probatorio posto eventualmente a carico dei ricorrenti in relazione alla richiesta di dimostrare la legittima provenienza di beni da loro acquisiti molti anni prima; e) l’effettiva possibilità offerta ai medesimi in giudizio di esporre argomentazioni a loro difesa e la concreta disamina delle stesse (Corte eur .dir. uomo. 28.7.2023, Cavallotti v. Italia, ric. n. 29614/16).

Il peccato originale della confisca “allargata” ex art. 240-bis c.p.: una misura di sicurezza atipica

Il peccato originale della confisca “allargata” è la sua asserita natura di “misura di sicurezza atipica”

Mentre è pacifica la natura di misura di sicurezza della confisca ordinaria ex art. 240 c.p., la costante giurisprudenza della Corte di cassazione ha ripetutamente affermato che anche la confisca allargata di cui all’art. 240-bis c.p.  sarebbe “una misura di sicurezza atipica con funzione anche dissuasiva, parallela all’affine misura di prevenzione antimafia introdotta dalla legge 31 maggio 1965, n. 575” (Cass.., S.U., 17.12.2003, n. 920/2004, Montella, ripresa, da ultimo, da Cass., S.U., 25.2.2021, Crostella, n. 27421), e che si colloca su una linea di confine con la funzione repressiva propria della misura di sicurezza patrimoniale (Cass., S.U., 30.5.2001, n. 29022, Derouach), come emerge anche dalla sua collocazione sistematica, “coniugandosi la finalità dissuasiva con la funzione preventiva della misura, in quanto volta ad evitare il proliferare di ricchezza di provenienza non giustificata ed il suo impiego per ulteriori attività delittuose”.

Nello stesso senso si atteggiò anche la Corte costituzionale che, con la sentenza n. 24 del 2019, chiarì che “la confisca ‘di prevenzione’ e quella ‘allargata’ (e i sequestri che, rispettivamente, ne anticipano gli effetti) costituiscono ‘species di un unico genus’, identificato nella ‘confisca dei beni di sospetta origine illecita’ e che ‘l’ablazione di tali beni costituisce non già una sanzione, ma piuttosto la naturale conseguenza della loro illecita acquisizione’”.

Il corollario della asserita natura di misura di sicurezza anche della confisca “allargata” è che la giurisprudenza le assegna la natura giuridica di “misura di sicurezza patrimoniale atipica con funzione anche dissuasiva, parallela all’affine misura di prevenzione antimafia”(Cass. S.U. 17.12.2003, n. 920/2004, Montella): ciò comporta di conseguenza che l’efficacia temporale della confisca “allargata” sia immune dal principio di irretroattivitàdella legge penale di cui all’art. 2 c.p. e ciò in forza degli artt. 25 Cost. e 199 e 200 c.p. Pertanto, le disposizioni in tema di confisca “allargata” previste dall’art. 240 bis c.p. sono ritenute applicabili anche ai reati commessi al tempo in cui questa non era legislativamente prevista oppure era diversamente disciplinata.  

Confisca “allargata” v. Europa

La nostra confisca “allargata” non sembra in linea con le indicazioni provenienti dall’Europa.

Infatti, la Direttiva 2024/1260 U.E., del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione Europea, del 24 aprile 2024 in materia di recupero e confisca dei beni (che dovrà essere recepita entro il 23.11.2026), osta alla confisca “allargata”. La direttiva prevede all’art. 14 la “confisca estesa”, ossia la nostra confisca “allargata”, e all’art. 15 una “confisca non basata sulla condanna”. Rispetto alla confisca estesa (art. 14), la Direttiva prevede che gli Stati membri adottano le misure necessarie per poter procedere alla confisca, totale o parziale, dei beni che appartengono a una persona condannata per un reato, qualora il reato commesso possa produrre, direttamente o indirettamente, un vantaggio economico e l’ulteriore requisito necessario ai fini dell’applicazione della confisca in parola, è individuato nella “convinzione” da parte di un organo giurisdizionale nazionale che i beni derivino da condotte criminose. Per determinare la provenienza da condotte criminose o meno dei beni da apprendere con la confisca allargata, il giudice dovrà tenere conto non solo delle circostanze fattuali, ma anche dell’eventuale sproporzione dei beni rispetto al reddito legittimo del condannato. La direttiva richiede pertanto sempre un rapporto pertinenziale tra reato e bene. La direttiva prevede anche una “confisca senza condanna” (art. 15), ma solamente nei casi in cui un procedimento penale sia stato avviato ma non sia stato possibile farlo proseguire a causa della malattia, della fuga o del decesso dell’indagato o imputato, ovvero quando i termini di prescrizione per il reato in questione stabiliti dal diritto nazionale siano inferiori a 15 anni e siano scaduti dopo l’avvio del procedimento penale.

La nostra confisca “allargata” cozza quindi indiscutibilmente con la direttiva U.E. e la Corte di giustizia U.E. non tarderà a rilevarlo.

La vicenda esaminata dalla sentenza

In questo desolante quadro normativo si staglia una sentenza, che, pur pubblicata con alcune lacune testuali nell’’archivio “SentenzeWeb” della Corte di cassazione, apre però qualche spiraglio di garantismo e meriterebbe di essere divulgata nella sua interezza.

Sarà utile ricordare che due sonoi requisiti cumulativi della confisca “allargata”.

Il primopresupposto della confisca “allargata” è la sproporzione tra il reddito dichiarato dal condannato o i proventi della sua attività economica e il valore economico dei beni nella disponibilità del condannato stesso.Tale prova è posta a carico del p.m. il quale deve quindi, previa richiesta di prova, far assumere nel dibattimento le prove che dimostrano tale sproporzione. Una volta fornita detta prova, sussiste una presunzione relativa di illecita accumulazione patrimoniale, superabile solo attraverso la prova contraria da parte dell’interessato.

Il secondo presupposto della confisca “allargata” è la mancata giustificazione del condannato circa la lecita provenienza dei beni.

Al riguardo la giurisprudenza si è premurata di  precisare che il legislatore non ha inteso porre inversione di oneri probatori, pena il rischio di creare situazioni di dubbia legittimità costituzionale, giacché la norma, al fine di vincere la presunzione, non richiede una giustificazione qualificata (“legittimità”) della provenienza, anche se certo non può prescindere da un’attendibile e circostanziata esposizione di elementi giustificativi che, in concreto, il giudice deve valutare secondo il principio della libertà di prova e del proprio libero convincimento (Cass., Sez. IV, 4.10.2004, n.47077,  P.M. in proc. Donadio, in Guida dir.,2005, n. 2, p. 93).

La giurisprudenza ha sempre affermato che grava sull’indagato l’onere di allegare una credibile giustificazione circa la provenienza dei beni. Più precisamente le Sezioni unite Montella del 2004 avevano chiarito che è irrilevante il requisito della “pertinenzialità” del bene rispetto al reato per cui si è proceduto, per cui la confisca dei singoli beni non è esclusa per il fatto che essi siano stati acquisiti in epoca anteriore o successiva al reato per cui è intervenuta condanna o che il loro valore superi il provento del medesimo reato. Le stesse Sezioni unite avevano spiegato che “la giustificazione credibile attiene alla positiva liceità della provenienza e non si risolve nella prova negativa della non provenienza dal reato per cui si è stati condannati”, cioè, in altre parole, una vera e propria prova positiva della provenienza lecita dei beni (Cass S.U. 17.12.2003, n. 920/2004, Montella). La giurisprudenza chiarisce che la “giustificazione” credibile deve consistere nella prova della positiva liceità della loro provenienza e non in quella negativa della loro non provenienza dal reato per cui è stata inflitta condanna (Cass., Sez. VVI, 17.1.2023 n. 10684).  Si tratta, quindi, di un onere probatorio di difficile realizzazione da parte dell’imputato, soprattutto se l’acquisizione dei beni risale a molto tempo addietro, o riguarda l’intero patrimonio del soggetto, acquisito nell’arco di una vita, e pertanto con pressoché impossibile ricostruzione della provenienza di ogni singolo bene, nel qual caso diventa una vera e propria probatio diabolica.

La giurisprudenza precisa, almeno, che tale presunzione di illegittima acquisizione dei beni da parte dell’imputato deve essere circoscritta in un ambito di “ragionevolezza temporale”, dovendosi dar conto che i beni non siano ictu oculi estranei al reato perché acquistati in un periodo di tempo eccessivamente antecedente alla commissione di quest’ultimo.Non occorre pertanto un nesso eziologicotra i reati tassativamente enunciati nella norma di riferimento ed i beni oggetto della cautela reale e del successivo provvedimento ablatorio, dal momento che il legislatore ha operato una presunzione di accumulazione, senza distinguere se tali beni siano o meno derivati dal reato per il quale si procede o è stata inflitta la condanna. Ai fini dell’adozione del provvedimento ablativo, è perciò sufficiente la sussistenza di un «vincolo pertinenziale, di significato peculiare e più ampio, tra il bene e l’attività delittuosa facente capo al soggetto, connotato dalla mancanza di giustificazione circa la legittima provenienza del patrimonio nel possesso del soggetto nei confronti del quale sia stata pronunciata condanna o sia stata disposta l’applicazione della pena».  Inoltre, secondo la Corte di cassazione, i dubbi circa la ragionevolezza della presunzione di provenienza illecita dei beni patrimoniali venivano dissipati da una rigorosa esegesi dell’elemento della “sproporzione”, che «deve, comunque, essere accertato attraverso una ricostruzione storica della situazione dei redditi e delle attività economiche del condannato al momento dei singoli acquisti, il quale può esporre fatti e circostanze specifiche e rilevanti, indicando puntualmente le proprie giustificazioni»  (Cass., Sez. II, 26.2.2009, n. 10549).

Una sentenza rispettosa della legge

La sentenza merita plauso perché fa corretta applicazione delle disposizioni di legge in materia di confisca “allargata”.

La pronuncia ha infatti annullato la sentenza che aveva disposto la confisca ex art. 240-bis c.p. delle somme di denaro che un imputato di detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti conservava nella sua abitazione, presumendone, irragionevolmente e immotivatamente, la provenienza da un’attività illecita. È evidente lo iato logico tra contestazione del fatto (mera detenzione di sostanze stupefacenti) e confisca disposta (sulle somme di denaro rinvenute nella disponibilità dell’imputato), sulla irragionevole presunzione che il denaro provenga da una attività illecita di spaccio nemmeno contestata all’imputato. 

La sentenza ricorda che  può procedersi alla confisca del denaro, trovato in possesso dell’imputato, anche quando si tratti di ipotesi di traffico illecito di sostanze stupefacenti di “lieve entità”, di cui al comma 5 dell’art. 73 t.u. stupefacenti, e ricorrano le condizioni per la confisca in casi particolari, prevista dall’art. 240-bis cod. pen., ovvero si tratti di denaro, beni o altre utilità di cui il condannato non possa giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato rispetto al proprio reddito.

Osserva correttamente la Corte che, nel caso di specie, la motivazione a sostegno della disposta confisca disattende il dato normativo, nella parte in cui afferma che “la confisca viene disposta in quanto la somma è provento del reato, con affermazione distonica rispetto alla contestazione che è riferita alla sola detenzione al fine di spaccio”, senza esaminare le condizioni necessarie per disporre la confisca di cui  all’art. 240-bis cod. pen., ma lasciando “intendere, in termini peraltro del tutto generici, la sussistenza di un profitto, inconferente, per le ragioni sopra espresse, con il reato contestato”.