Errare humanum est, perseverare ovest: l’ineffabile giurisprudenza disciplinare della Procura generale presso la Corte di cassazione (Vincenzo Giglio)

La consultazione delle massime di archiviazione della Procura generale della Repubblica presso la Suprema Corte di cassazione ci permette di apprendere che l’1° ottobre 2024 si è ritenuto che “Non costituisce grave violazione degli articoli 103, 269, 270 e 116 c.p.p., ma è il frutto di insindacabile attività interpretativa, la condotta del sostituto procuratore che disponga una intercettazione dell’utenza telefonica intestata ad un avvocato sull’erroneo presupposto che l’articolo 103 c.p.p. non trovi applicazione nei confronti dei difensori nominati in procedimento amministrativo e poi utilizzi le trascrizioni in altro procedimento penale. Né viola l’articolo 116 c.p.p. il magistrato subentrato nella titolarità del procedimento che autorizzi il rilascio di copie delle intercettazioni dopo che queste abbiano avuto completa discovery nel procedimento in cui furono disposte”.

Parliamone!

Le garanzie difensive ex art. 103 cod. proc. pen.

La massima individua correttamente come primo riferimento normativo l’art. 103, cod. proc. pen., rubricato “Garanzie di libertà del difensore”.

I commi pertinenti al caso in esame sono quelli compresi tra il 5 e il 7.

Eccone il testo.

5. Non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, degli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, dei consulenti tecnici e loro ausiliari, né a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite.

6. Sono vietati il sequestro e ogni forma di controllo della corrispondenza tra l’imputato e il proprio difensore in quanto riconoscibile dalle prescritte indicazioni, salvo che l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato.

6-bis. È parimenti vietata l’acquisizione di ogni forma di comunicazione, anche diversa dalla corrispondenza, intercorsa tra l’imputato e il proprio difensore, salvo che l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato.

6-ter. L’autorità giudiziaria o gli organi ausiliari delegati interrompono immediatamente le operazioni di intercettazione quando risulta che la conversazione o la comunicazione rientra tra quelle vietate.

7. Salvo quanto previsto dal comma 3 e dall’articolo 271, i risultati delle ispezioni, perquisizioni, sequestri, intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, eseguiti in violazione delle disposizioni precedenti, non possono essere utilizzati. Fermo il divieto di utilizzazione di cui al primo periodo, quando le comunicazioni e conversazioni sono comunque intercettate, il loro contenuto non può essere trascritto, neanche sommariamente, e nel verbale delle operazioni sono indicate soltanto la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta.”.

Serve tuttavia specificare che i commi 6-bis e 6-ter sono stati inseriti nel corpo dell’art. 103 dall’art. 2, comma 1, lett. a), L. 9 agosto 2024, n. 114, e sono entrati in vigore a decorrere dal 25 agosto 2024. Non li si può quindi utilizzare come parametri valutativi per una condotta di ipotetico rilievo disciplinare tenuta verosimilmente prima della loro vigenza.

Si può però assumere che il rafforzamento delle garanzie del difensore nella parte attinente alle sue comunicazioni con il proprio assistito prodotto dalle nuove disposizioni indica al contempo una condizione problematica e una volontà legislativa di intervento correttivo: la prassi vigente stava indebolendo le garanzie, occorreva fissare normativamente limiti invalicabili.

E dunque, un monito preciso per il futuro ma anche, almeno per chi sappia e voglia coglierlo, un rimprovero per il passato.

Messa da parte questa parentesi, è adesso opportuno verificare l’orientamento interpretativo riguardo al pacchetto garantistico contenuto nell’art. 103 e il grado e il tempo del suo consolidamento.

Soccorre sul punto Cassazione penale, Sez. 3^, sentenza n. 2559/2024, udienza del 25 ottobre 2023, la quale ha ricordato che le garanzie difensive di cui all’art. 103 cod. proc. pen., in quanto finalizzate a prevenire il pericolo di abusive intrusioni nella sfera difensiva e a tutelare il segreto professionale e l’esercizio del diritto di difesa, non sono limitate al difensore dell’indagato o dell’imputato nel procedimento in cui sorge la necessità dell’attività di ispezione, di ricerca o di sequestro, ma devono essere osservate in tutti i casi in cui tali atti sono eseguiti nell’ufficio di un professionista, iscritto all’albo degli avvocati, che abbia assunto la difesa di assistiti, anche fuori del procedimento in cui l’attività di ricerca della prova è compiuta (Sez. 2, n. 44892 del 25/10/2022, Rv. 283822), venendo in rilievo, appunto, l’inviolabilità del diritto di difesa, come diritto fondamentale della persona garantito dall’art. 24 Cost. (Sez. 6, n. 20295 del 12/03/2001, Rv. 218841).

Con particolare riguardo alle intercettazioni, premesso che il divieto di cui all’art. 103, comma 5, cod. proc. pen. riguarda l’attività captativa in danno del difensore in quanto tale e ha dunque ad oggetto le sole conversazioni o comunicazioni – individuabili, ai fini della loro inutilizzabilità, a seguito di una verifica postuma – inerenti all’esercizio delle funzioni del suo ufficio (Sez. 4, n. 55253 del 05/10/2016, Rv. 268618; Sez. 5, n. 42854 del 25/09/2014, Rv. 261081), la sua operatività non postula che lo svolgimento dell’attività difensiva risulti da uno specifico e formale mandato, conferito con le modalità di cui all’art. 96 cod. proc. pen., potendo desumersi l’esistenza di un mandato fiduciario anche dalla natura stessa delle conversazioni (Sez. 2, n. 32905 del 30/10/2020, Rv. 280233; Sez. 6, n. 10664 del 16/12/2002, Rv. 223965).

Più in generale, le garanzie previste dalla disposizione a tutela del diritto di difesa non sono limitate alla ipotesi in cui il mezzo di ricerca della prova sia disposto nell’ambito dello stesso procedimento in cui si svolge l’attività difensiva, dovendo, viceversa, ritenersi estese agli altri eventuali procedimenti – anche non penali – in cui il difensore sia impegnato nell’interesse dell’assistito (Sez. 5, n. 8963 del 17/04/2001, 2002, Rv. 221900).

Applicati tali principi al caso in esame, deve essere dunque ritenuta erronea l’esclusione dell’operatività del divieto sancito dall’art. 103, comma 5, cod. proc. pen. che la sentenza impugnata ha giustificato in base al mero rilievo che «dal contenuto delle conversazioni non emerge che ci si stesse riferendo ad un procedimento penale, ma, semmai, alla pratica della voluntary disclosure», trattandosi, appunto, di conversazioni afferenti allo svolgimento di una funzione difensiva, espletata nell’ambito di una vertenza tributaria, tutelata dalla richiamata garanzia.

Una decisione chiarissima, dunque, che si muove nel solco di precedenti costanti, alcuni dei quali risalgono addirittura a un quarto di secolo fa.

Appare di conseguenza piuttosto opinabile derubricare ad una “insindacabile attività interpretativa la condotta del sostituto procuratore che disponga una intercettazione dell’utenza telefonica intestata ad un avvocato”, opinabilità che diventa ancora più manifesta e contraddittoria allorché nell’immediato prosieguo della massima si attesta candidamente che quella condotta è stata tenuta “sull’erroneo presupposto che l’articolo 103 c.p.p. non trovi applicazione nei confronti dei difensori nominati in procedimento amministrativo”.

L’esportazione delle intercettazioni in altro procedimento

Come si è visto, la massima ha escluso la censurabilità della prosecuzione della condotta del PM che, andando oltre il primo erroneo presupposto da cui è partito, ha ritenuto lecito utilizzare le trascrizioni delle captazioni in un altro procedimento penale.

La massima cita esclusivamente a tal fine l’art. 270, cod. proc. pen., che in effetti consente la trasmigrazione dei risultati delle intercettazioni in presenza di alcuni presupposti legittimanti, ma curiosamente non cita il successivo art. 271, rubricato “Divieti di utilizzazione”, il cui primo comma dispone che “I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati qualora le stesse siano state eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge o qualora non siano state osservate le disposizioni previste dagli articoli 267 e 268 commi 1 e 3” e il cui secondo comma prevede a sua volta che “Non possono essere utilizzate le intercettazioni relative a conversazioni o comunicazioni delle persone indicate nell’articolo 200 comma 1, quando hanno a oggetto fatti conosciuti per ragione del loro ministero, ufficio o professione, salvo che le stesse persone abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati”.

E nemmeno cita il settimo comma del già menzionato art. 103 il quale destina all’inutilizzabilità “i risultati delle ispezioni, perquisizioni, sequestri, intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, eseguiti in violazione delle disposizioni precedenti”.

Nemmeno ricorda, a quanto pare, Cassazione penale, Sez. 5^, sentenza n. 17579/2013, del 5 marzo 2013, secondo la quale “Il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni, stabilito dall’art. 271, comma secondo, c.p.p., è posto, tra gli altri, a tutela dell’avvocato (come degli altri soggetti indicati nell’art. 200, comma primo, c.p.p.) e dell’esercizio della sua funzione, ancorché non formalizzato in un mandato professionale, purché detto esercizio sia causa della conoscenza del fatto, ben potendo un avvocato venire a conoscenza, in ragione della sua professione, di fatti relativi ad un soggetto del quale non sia difensore. Ne consegue che detto divieto sussiste ed è operativo quando le conversazioni o le comunicazioni intercettate siano pertinenti all’attività professionale svolta dai soggetti indicati nell’art. 200, comma primo, c.p.p. e riguardino, di conseguenza, fatti conosciuti in ragione della professione da questi esercitata, a nulla rilevando il fatto che si tratti di intercettazione indiretta. (Fattispecie in cui la S.C. ha censurato la decisione del giudice di merito il quale era pervenuto alla conclusione dell’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni delle conversazioni dell’imputato con un avvocato, distinguendo tra fatti conosciuti da quest’ultimo in quanto difensore in un procedimento civile e fatti di cui avrebbe conosciuto come “amico”, esulanti dal divieto in questione, non considerando che la ragione della conoscenza di detti fatti era pur sempre data dal rivestire la qualità di avvocato e che proprio in quanto tale egli forniva consigli all’imputato)”.

Note conclusive

Come osservato da tanti commentatori, la giustizia disciplinare dei magistrati è frutto di una legislazione fortemente protezionistica.

Non stupisce né scandalizza: occorre indubbiamente proteggere la magistratura da iniziative disciplinari frutto di intenti pedagogico-punitivi perché altrimenti sarebbero a rischio la sua autonomia e la sua indipendenza.

Questa legittima direttrice della legislazione di settore può tuttavia superare il livello di guardia e trasmodare in privilegio castale ogni qualvolta, passata la parola al PM ed ai giudici disciplinari, si dia preponderanza alla protezione e si lascino sullo sfondo i profili della possibile colpa.

Non è affatto detto, né si è voluto sostenere, che la condotta presa in esame in questo post sarebbe stato certamente passibile di sanzioni ma, al tempo stesso, impedirne la valutazione al giudice disciplinare suona tanto come uno sbarramento ingiustificato.

E questo è quanto.