Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 13557/2025, udienza del 27 marzo 2025, ha affermato che nel procedimento di esecuzione il diritto alla traduzione degli atti trova disciplina principalmente nell’art. 143, comma 1 seconda parte, cod. proc. pen. quando è funzionale alla presentazione di una richiesta o una memoria nel corso del procedimento, sicché l’interessato ha l’onere di formulare apposita richiesta al giudice dell’esecuzione evidenziando tale necessità funzionale alla presentazione di una precisa richiesta o una memoria.
Nell’udienza camerale dell’8 ottobre 2024 davanti al giudice dell’esecuzione il difensore della ricorrente aveva chiesto la restituzione degli atti al PM per mancata traduzione degli “atti” dell’incidente di esecuzione, in quanto la condannata non conosce la lingua italiana.
Si trattava di una richiesta del tutto anomala, sia per il contenuto (la traduzione degli “atti” dell’incidente di esecuzione), sia per le conclusioni del difensore (la restituzione degli atti al PM, come se si trattasse di una nullità del giudizio di cognizione che determina la retrocessione alla fase delle indagini preliminari).
La richiesta è stata respinta, il difensore della ricorrente l’ha coltivata ulteriormente in sede di legittimità negli stessi termini in cui l’aveva proposta al giudice dell’esecuzione.
Il motivo è manifestamente infondato.
La lingua del processo è la lingua italiana (art. 109 cod. proc. pen.), pertanto gli “atti” del processo sono redatti in lingua italiana.
Soltanto di alcuni specifici “atti” del processo, indicati nell’art. 143, comma 2, cod. proc. pen., è prevista la traduzione; si tratta degli atti più significativi in cui è contenuta l’accusa a carico dell’imputato (l’informazione di garanzia o sul diritto di difesa, le ordinanze cautelari, l’avviso di conclusione indagini, il decreto di citazione a giudizio, la sentenza o il decreto penale di condanna), e tra essi non ci sono gli atti dell’incidente di esecuzione, e neanche, in particolare, la richiesta di incidente di esecuzione, che poi è l’unico “atto” della fase dell’incidente di esecuzione in quanto tale.
Né l’istanza formulata nell’udienza camerale conteneva motivazioni specifiche da cui avrebbe potuto ricavarsi l’applicabilità al caso in esame del disposto dell’art. 143, comma 1, ultimo periodo, cod. proc. pen., nel significato che ad esso ha dato la giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto che “nel procedimento di esecuzione invece il diritto alla traduzione degli atti trova disciplina principalmente nell’art. 143, comma 1 seconda parte, cod. proc. pen. quando è funzionale alla presentazione di una richiesta o una memoria nel corso del procedimento, sicché l’interessato ha l’onere di formulare apposita richiesta al giudice dell’esecuzione evidenziando tale necessità funzionale alla presentazione di una precisa richiesta o una memoria” (Sez. 1, n. 34866 del 12/05/2021, Rv. 281893 – 02), perché la difesa della condannata non ha formulato una motivata richiesta di traduzione di uno o più specifici atti in funzione di una istanza o memoria particolare che intendeva depositare.
