Coltivazione di cannabis: luci ed ombre della recente giurisprudenza di legittimità (Carlo Alberto Zaina)

La pubblicazione di un importante stralcio della sentenza n. 11964/2025 della Terza Sezione penale della Corte di cassazione, in materia di coltivazione di piante di cannabis, induce a plurime riflessioni.

La prima attiene alla conclusione che l’uso personale del prodotto ricavato dalla attività coltivativa rimane, comunque, per ragioni – esclusivamente formali – al di fuori del recinto di non punibilità che circoscrive, invece, detenzione, acquisto, importazione ed esportazione.

La giurisprudenza mantiene, quindi, una propria posizione ermeneutica modellata su esperienze e situazioni di quasi vent’anni or sono, senza considerare l’evoluzione storica e di costume del fenomeno coltivativo e consumativo concernete la cannabis.

La seconda, invece, si riferisce ad alcuni passaggi dell’ampia ricognizione ricostruttiva la L. 242/2016.

A) In relazione ai limiti che la legge pone per il THC, all’art. 4 – il principale pari a 0,2% e quello derogatorio dello 0,6% -in presenza dei quali nessuna responsabilità deve essere «posta a carico dell’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di cui alla presente legge»[1] , la sentenza, poi, fornisce un’interpretazione della ratio che sottenderebbe a queste percentuali, piuttosto opinabile.

Si legge, infatti, che, riguardo al tasso di tetraidrocannabinolo dello 0,2%, la Corte afferma che: “…Può anticiparsi che la ratio di questo limite, che caratterizza la coltivazione di canapa incoraggiata e incentivata dalla legge n. 242 del 2016, è di intuitiva evidenza: quella soglia individua una percentuale di THC così esigua da essere inidonea a provocare qualsivoglia effetto stupefacente o psicotropo…”.

Invero, quella indicata dai giudici di rito – esiguità di ipotetici effetti stupefacenti – non pare la reale ragione di individuazione della soglia dello 0,2%.

Il motivo è, invece, strettamente politico e si rinviene nella volontà del legislatore di armonizzare la normativa interna (seppure con la deroga di cui si dirà) con quella europea che fissava nello 0,2% – livello passato dal 21 ottobre 2023 allo 0,3% – il limite di THC nella cannabis, ai fini dell’ottenimento di finanziamenti UE.

Poiché la Francia, paese importantissimo per la produzione di canapa, ha sempre avuto coltivazioni esercitate nel limite dello 0,2%, è di tutta evidenza che tale soglia ha condizionato le scelte politiche europee e quella di tutti i paesi nei quali i coltivatori di canapa avessero inteso ottenere questi finanziamenti [Reg. UE n.1307/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio (art. 32 paragrafo 6)].

B) Si legge, poi, che la liceità della coltivazione della canapa e dei prodotti da essa derivati è condizionata dal fatto che la percentuale di THC deve essere priva di efficacia drogante, anche per rendere lecito anche il commercio dei prodotti ricavati

L’espressione non è particolarmente felice e poco chiara, in quanto tradisce un’interpretazione della norma abbastanza sorprendente e per nulla in linea con gli approdi della giurisprudenza di merito, ispirata dagli studi di tossicologia forense.

È errato, infatti, l’affermazione, contenuta in sentenza, per cui se “…il livello di THC superi il predetto limite dello 0.2% ma rimanga entro il valore massimo dello 0,6 % la coltivazione, ove ne emerga l’offensività ovvero l’idoneità della sostanza ricavabile a produrre un effetto drogante, potrà ritenersi oggettivamente illecita, ai sensi dell’art. 73 D.P.R. 309/90 e nel quadro dei principi stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità per la coltivazione di sostanze stupefacenti, pur escludendosi comunque la responsabilità del coltivatore che abbia rispettato le condizioni di legge…”.

Nell’ipotesi di prodotto che rispetti il limite massimo di THC dello 0,6%, è, infatti, irrilevante la valutazione relativa all’offensività (intesa come idoneità della sostanza ricavabile a produrre un effetto drogante).

Ciò per due ragioni.

La prima riguarda la natura dei limiti imposti dalla norma (in particolare quello più ampio dello 0,6%), in questione, che appaiono costituire una vera e propria presunzione di legalità del prodotto coltivato ed ottenuto, nonché della attività coltivativa, ove svolta – ai sensi della L. 242/2016 -dall’agricoltore e che sono intimamente legati alla fase della coltivazione.

La seconda attiene ai principi tossicologici – ormai diffusi da almeno 40 anni e recepiti nell’ultimo decennio in giurisprudenza unanimemente – i quali hanno sancito che esiste un valore soglia al di sotto del quale il THC non produce effetti psicoattivi e lo identificano nella misura dello 0,5%.

Dunque, il ragionamento che richiama la necessità di una valutazione, in ordine alla capacità della sostanza ottenuta a produrre un effetto drogante, una volta accertata che la percentuale del Tetraidrocannabinolo è pari od inferiore a 0,5% è, come detto, del tutto pleonastica ed irrilevante.

La percentuale dello 0,6% potrebbe interessare in ambito commerciale, trattandosi di dato da applicarsi esclusivamente alla fase coltivativa, ma lo scarto rispetto al limite dello 0,5% è talmente minimo (e talora incerto) che molte consulenze ed altrettante pronunzie pervengono ad estendere il valore anche all’ambito del mercato.

La terza appare molto interessante, laddove emerge che la Corte ritiene necessario per addivenire ad affermare il fumus dell’art. 73 co. 4 Dpr 309/90 l’accertamento di una percentuale di THC idonea a produrre un significativo effetto drogante.

L’importanza dell’affermazione si ricava, sia perché presuppone che si debba dare corso ad una preliminare analisi tossicologica del prodotto – unica forma per stabilire l’attitudine psicoattiva dello stesso – sia perché il tenore dell’osservazione pare coinvolgere sia la coltivazione, che il successivo commercio.

Si tratta di conclusioni che vanno in direzione opposta a quell’orientamento che, sovente, giustifica il fumus in questione, prescindendo da una valutazione scientifica del prodotto, affidandosi a meri empirismi.

La quarta ed ultima priva di valore quell’argomento, talora evocato dalle pubbliche accuse, per cui la coltivazione ed il commercio di prodotti a fini di consumo ricreativo costituirebbe deroga penalmente rilevante all’elenco delle destinazioni dei prodotti coltivati, previsto dall’art. 2 L. 242/2016.

Viene, infatti, privilegiato su tutti il dato della non psicoattività del prodotto, quale carattere legittimante la liceità del commercio.

Afferma, infatti, testualmente la Corte che “…ove il prodotto a base di canapa non rientri tra quelli espressamente contemplati dall’indicato art. 2, comma 2, ciò non è di per sé sufficiente per la configurabilità del delitto punito dall’art. 73, comma 4, d.P.R. n. 309 del 1990, dovendosi accertare l’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile…”.

Dunque, una sentenza che mostra alcune incertezze cognitivo-interpretative, ma che, al contempo, sancisce due aspetti da sempre propugnati dai difensori di coltivatori e commercianti.


[1] Ove a seguito di un accertamento effettuato secondo il metodo di cui al comma 3 dell’art. 4, risulti che il contenuto di THC nella coltivazione sia superiore allo 0,6 per cento, l’autorità giudiziaria potrà procedere al «sequestro o distruzione delle coltivazioni di canapa impiantate nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla citata legge».