Coltivazione di piante da stupefacenti e punibilità: la Cassazione illustra il quadro normativo di riferimento (Riccardo Radi)

La Cassazione sezione 3 con la sentenza numero 11964/2025 riassume il quadro normativo di riferimento per la punibilità della condotta di coltivazione di piante da cui siano estraibili sostanze stupefacenti.

La Suprema Corte, premette che come già evidenziato con sentenza della sezione 3 del 7.12.2018 n. 10809, non massimata, deve premettersi che la coltivazione non autorizzata di piante da stupefacenti è punita ai sensi dell’art. 73 del D.P.R. 309/90, laddove include tra le varie condotte penalmente rilevanti anche quella di chiunque coltivi senza autorizzazione piante dalle quali siano estraibili sostanze stupefacenti o psicotrope.

In ragione del mancato richiamo nell’ambito della previsione di cui all’art. 75 del D.P.R. citato, le condotte di coltivazione assumono rilevanza penale anche in caso di uso solo personale della sostanza stupefacente.

In tal senso si sono espresse le Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Sez. U. n. 28605 del 24/04/2008 Di Salvia, Rv. 239920 – 2389921) che hanno precisato come ai fini della punibilità della condotta di coltivazione di piante stupefacenti sia irrilevante l’eventuale destinazione ad uso personale, sebbene sia comunque indispensabile la verifica, in concreto, dell’offensività della condotta, con riferimento alla idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile.

Su questo ambito di operatività dell’art. 73 citato, con riferimento alla condotta di coltivazione di piante da cui siano estraibili sostanze stupefacenti, è intervenuto il Legislatore con novella di cui all’art. 1 comma 4 del D.L. 20 marzo 2014 n. 36 convertito, con modificazioni, nella L. 16 maggio 2014 n. 79, laddove all’art. 26 comma 1 del DPR 309/90 ha previsto che «salvo quanto stabilito nel comma 2 è vietata nel territorio dello Stato la coltivazione delle piante comprese nelle tabelle I e II di cui all’art. 14 ad eccezione della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali diversi da quelli di cui all’art. 27 consentiti dalla normativa dell’Unione Europea.»

All’articolo 27 prima citato si prevede la possibilità del rilascio di un’autorizzazione alla coltivazione di sostanze stupefacenti o psicotrope in favore di soggetti contemplati agli artt. 16 e 17, che contenga, tra l’altro, l’indicazione della specie di coltivazione e dei prodotti che si intendano ottenere; con la precisazione, contenuta nel comma 3 del medesimo articolo, per cui in tali ultimi casi l’autorizzazione è valida «oltre che per la coltivazione anche per la raccolta, la detenzione, e la vendita dei prodotti ottenuti», purchè però effettuata esclusivamente dalle ditte titolari di autorizzazione per la fabbricazione e l’impiego di sostanze stupefacenti.

A fronte della illustrata cornice normativa, il legislatore ha ritenuto di intervenire per ulteriormente disciplinare l’attività di coltivazione della canapa mediante la legge 242/2016 (intitolata «disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa»), la quale reca «norme per il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della canapa (Cannabis sativa L.), quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversità, nonchè come coltura da impiegare quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione» (cfr. art. 1).

L’art. 1, comma 2, delimita l’ambito applicativo della legge, la quale si riferisce «alle coltivazioni di canapa delle varietà ammesse iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, le quali non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309».

Il comma 2 del medesimo articolo 1 specifica le finalità della coltura della canapa così disciplinata, quali:

a) la relativa coltivazione e trasformazione;

b) l’incentivazione dell’impiego e del consumo finale di semilavorati di canapa provenienti da filiere prioritariamente locali;

c) lo sviluppo di filiere territoriali integrate che valorizzino i risultati della ricerca e perseguano l’integrazione locale e la reale sostenibilità economica e ambientale;

d) la produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori;

e) la realizzazione di opere di bioingegneria, bonifica dei terreni, attività didattiche e di ricerca. L’art. 2, nel precisare al primo comma che la coltivazione di canapa conforme alle prescrizioni di cui alla L. 242/2016 non richiede una preventiva autorizzazione, stabilisce ulteriormente, nel definire i prodotti ricavabili dalla coltivazione della predetta tipologia di canapa, l’ambito entro la quale opera la disciplina in parola.

Dispone infatti, al comma 2, che dalla canapa coltivata ai sensi del comma 1 e’ possibile ottenere:

a) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori;

b) semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico; c) materiale destinato alla pratica del sovescio;

d) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia;

e) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati; coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonchè di ricerca da parte di istituti pubblici o privati;

f) coltivazioni destinate al florovivaismo.

Particolare attenzione è dedicata altresì alla fase della coltivazione ed ai relativi controlli. Infatti l’art. 4 disciplina le modalità dell’attività di campionamento svolta dai soggetti deputati ai controlli sulle coltivazioni, con particolare riferimento alla determinazione quantitativa del contenuto di tetraidrocannabinolo (THC).

Nel caso in cui all’esito del controllo il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2 per cento ed entro il limite dello 0,6 per cento, si prevede che nessuna responsabilità sia « posta a carico dell’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di cui alla presente legge» (il quale ha tra l’altro l’obbligo, di cui all’art. 3, di conservare sia cartellini della semente acquistata per un periodo non inferiore a dodici mesi sia le fatture di acquisto della medesima per il periodo previsto dalla normativa vigente).

Nel caso in cui, a seguito di un accertamento effettuato secondo il metodo di cui al comma 3 dell’art. 4, risulti che il contenuto di THC nella coltivazione sia superiore allo 0,6 per cento, l’autorità giudiziaria potrà procedere al «sequestro o distruzione delle coltivazioni di canapa impiantate nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla citata legge».

Pur essendo esclusa comunque, in tal caso e, dunque, in presenza delle predette condizioni, la responsabilità dell’agricoltore. Si tratta di una previsione che appare rispettosa del Regolamento (UE) n.1307/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio (art. 32 paragrafo 6) recante norme sui pagamenti diretti agli agricoltori nell’ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune, secondo cui la percentuale di THC non deve superare, appunto, lo 0,2%.

Può anticiparsi che la ratio di questo limite, che caratterizza la coltivazione di canapa incoraggiata e incentivata dalla legge n. 242 del 2016, è di intuitiva evidenza: quella soglia individua una percentuale di THC così esigua da essere inidonea a provocare qualsivoglia effetto stupefacente o psicotropo.

Consegue che la liceità della coltivazione della canapa e dei prodotti di quella filiera che da essa derivano soggiace all’esigenza, tradotta nel citato limite, per cui la percentuale di THC deve essere priva di efficacia drogante.

Come emerge chiaramente dalla lettura delle norme in cui si articola la disciplina riportata, l’oggetto della stessa è esclusivamente la coltivazione della canapa, comprensiva della successiva filiera agroindustriale, come definita, oltre che dall’art. 1 comma 2 nella sua tipologia, anche attraverso l’esplicita individuazione dei settori finali di riferimento, ulteriormente descritti anche mediante l’indicazione dei prodotti ricavabili dal tipo di coltivazione consentita.

Tali finalità e prodotti, assieme alla tipologia di sementi utilizzabili ed alla prova delle stesse (assicurata ai sensi del citato art. 3 mediante la conservazione dei cartellini della semente e delle fatture di acquisto della medesima) definiscono nel contempo il campo delle “prescrizioni” citate dall’articolo 4 comma 5 della L. 242/2016, quali condizioni il cui rispetto assicura l’esonero da responsabilità penale del coltivatore nel caso in cui, all’esito dei controlli svolti, il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2 per cento ed entro il limite dello 0,6 per cento.

Deve rilevarsi, in altri termini, che il legislatore ha elaborato la disciplina in parola, di promozione innanzitutto della coltivazione della canapa, avendo cura nel contempo di garantire al coltivatore che ne rispetti l’intera disciplina spazi di esonero dalla responsabilità astrattamente configurabile in virtù della applicazione della normativa di cui al D.P.R. 309/90, come illustrata in premessa con riferimento al settore in esame.

Depongono in tal senso plurime indicazioni:

1) il riferimento e la delimitazione dei limiti massimi di THC presenti nella coltivazione;

2) il richiamo alla possibilità per l’Autorità giudiziaria di intervenire con il sequestro della coltivazione per la relativa distruzione;

3) la precisazione stessa dell’esonero “da responsabilità”, solo a date condizioni, del coltivatore.

Lo spazio di liceità che viene così definito in ordine alla coltivazione della canapa oggetto della L. 242/2016 risulta essere il seguente:

1) deve trattarsi della coltivazione della tipologia di canapa indicata dalla legge, che sia finalizzata ai settori agroalimentari di cui all’art. 2 comma 2 citato;

2) il livello massimo consentito presente in coltura non può essere superiore allo 0,2 %:

3) la coltivazione deve essere finalizzata alla realizzazione dei soli prodotti tassativamente elencati dal citato art. 2 comma 2.

Il rispetto delle predette condizioni fa sì che sia lecita anche la commercializzazione dei prodotti ricavabili dalla coltivazione come disciplinata con la legge citata, riconducibili alle tipologie e settori espressamente contemplati dalla legge .

In tale quadro, occorre precisare che qualora il livello di THC superi il predetto limite dello 0.2% ma rimanga entro il valore massimo dello 0,6 % la coltivazione, ove ne emerga l’offensività ovvero l’idoneità della sostanza ricavabile a produrre un effetto drogante, potrà ritenersi oggettivamente illecita, ai sensi dell’art. 73 D.P.R. 309/90 e nel quadro dei principi stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità per la coltivazione di sostanze stupefacenti, pur escludendosi comunque la responsabilità del coltivatore che abbia rispettato le condizioni di legge.

In tale ultimo caso il Legislatore ha ritenuto, in sostanza, di non porre a carico del coltivatore vicende a lui non imputabili e ascrivibili piuttosto al naturale ciclo colturale pur a fronte di un tipo botanico tendenzialmente suscettibile di rimanere nell’ambito dei livelli massimi consentiti.

Diversamente, non si spiegherebbe la scelta di escludere espressamente la responsabilità dell’agricoltore che abbia comunque rispettato le prescrizioni di legge allorquando la percentuale di THC risulti superiore alla predetta soglia.

L’incidenza parzialmente derogatoria della L. 242/2016 sulla norma di cui all’art. 73 D.P.R. 309/90 con riferimento alla coltivazione di sostanze stupefacenti e alla relativa commercializzazione, come ora descritta, ne impone una lettura assolutamente restrittiva trattandosi di disciplina di carattere eccezionale sotto tale aspetto.

Ed invero, con riferimento invece al commerciante di prodotti a base di canapa, deve riconoscersi sul piano oggettivo la possibilità della configurabilità del reato ex art. 73 comma 4 DPR 309/90 ove sussistano i profili oggettivi oltre che soggettivi necessari.

A partire dalla necessaria concreta efficacia psicotropa della sostanza alla luce della verificata percentuale di THC, considerata secondo le attuali valutazioni tecniche.

Egualmente deve dirsi quanto alla possibilità di procedere al sequestro dei prodotti derivanti dalla coltivazione di canapa pur svolta in ossequio alla L. 242/2016 allorquando sussista il fumus del reato ex art. 73 comma 4 DPR 309/90 ossia, per quanto qui particolarmente interessa, quando si accerti una percentuale di THC idonea a produrre un significativo effetto drogante.

Tale interpretazione appare la più aderente al dato normativo ed alla sua ratio, perché da una parte esonera da responsabilità l’agricoltore che abbia rispettato le disposizioni di legge nel caso in cui la percentuale di THC, presente nelle piante coltivate, sia idonea a produrre un effetto stupefacente e psicotropo, non essendo a lui ascrivibile in tal caso la naturale evoluzione del ciclo colturale a fronte di sementi comunque appartenenti alle varietà previste dalla legge e come tali a basso contenuto di THC.

Dall’altro, garantisce il rispetto del principio secondo cui i prodotti derivati dalla coltivazione della canapa possono essere liberamente commercializzati – nei settori di cui alla L. 242/2016 – a condizione che la quantità di THC non sia tale da provocare alcun effetto stupefacente o psicotropo, atteso che, diversamente, trova applicazione la disciplina generale prevista dall’art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990.

Va, peraltro precisato che ove il prodotto a base di canapa non rientri tra quelli espressamente contemplati dall’indicato art. 2, comma 2, ciò non è di per sé sufficiente per la configurabilità del delitto punito dall’art. 73, comma 4, d.P.R. n. 309 del 1990, dovendosi accertare l’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile.

E’ in questa prospettiva che deve esser analizzata la questione dedotta dal ricorrente V. con il primo motivo.

Con cui si contesta che il ricorrente fosse consapevole della illiceità della piantagione, per la sola ragione per cui egli era un coltivatore diretto, in quanto non poteva aprioristicamente conoscere – nel quadro della disciplina relativa alla coltivazione della canapa -la futura evoluzione del ciclo colturale di semi acquistati regolarmente.

Ed anzi la predetta qualificazione, in uno con il rispetto di requisiti sanciti ex lege 242/16 e la regolare locazione del terreno coltivato, facilmente raggiungibile e mostrato dal ricorrente agli inquirenti, confermerebbero la assenza del dolo. Si tratta di censura invero generica, atteso che pur rivendicando l’operatività della suindicata disciplina in materia di coltivazione di canapa, al fine di sfruttarne gli spazi che escludono la responsabilità del coltivatore anche a fronte del superamento, entro certi limiti, del livello di THC, come sopra illustrato, il ricorrente non allega l’intervenuto rispetto delle plurime condizioni, requisiti e comprovati ambiti di operatività della coltivazione, propri della predetta cornice normativa, nel cui ambito soltanto, come sopra ampiamente evidenziato, è possibile promuovere rivendicazioni difensive del tipo in esame.

Limitandosi al solo, parziale ed insufficiente richiamo all’acquisto regolare delle sementi.

Il motivo è quindi inammissibile.