La Cassazione sezione 5 con la sentenza numero 5242/2025 ha stabilito che integra il delitto di interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessità, la condotta di chi ne alteri l’ordinato e regolare svolgimento proponendo, sulla scorta di false procure alle liti, molteplici ricorsi seriali che comportano per le cancellerie e gli uffici giudiziari coinvolti un aggravio di attività inutili perché fondate sul fallace presupposto di una domanda di tutela inesistenti.
Nel caso esaminato le condotte ascritte al ricorrente consistono nell’aver presentato dinanzi alla Corte d’Appello ovvero ai TAR ricorsi (rispettivamente) per l’esecuzione o per l’ottemperanza al giudicato rispetto a decisioni di condanna dello Stato per la responsabilità per l’irragionevole durata di giudizi relativi a procedimenti incardinati senza il conferimento delle relative procure dalle parti (delitti per i quali si è proceduto separatamente).
Di qui, in conformità al capo e) dell’imputazione, il L. è stato chiamato a rispondere del delitto di cui all’art. 340 cod. pen. per aver indotto il TAR e la Corte d’Appello di Lecce a svolgere indebitamente una serie di attività processuali volte alla definizione di procedimenti fondati su titoli esecutivi ottenuti in base a procure false.
Su un piano generale, è opportuno ricordare, a riguardo, che, in conformità alla giurisprudenza della Suprema Corte, ai fini della configurabilità del reato di interruzione di un ufficio ovvero di un servizio pubblico o di pubblica necessità di cui all’art. 340 cod. pen., è necessario che il turbamento della regolarità abbia comportato e causato un’apprezzabile alterazione del funzionamento dell’ufficio o del servizio, ancorché temporanea (ex multis, Sez. 5, n. 1913 del 16/10/2017, dep. 2018, Andriulo e altri, Rv. 272321 – 01; Sez. 6, n. 19676 del 16/04/2014, Musolino, Rv. 259768 – 01).
Nell’alveo della tutela della norma incriminatrice rientra, inoltre, non solo l’effettivo funzionamento di un ufficio, ovvero di un servizio pubblico o di pubblica necessità, ma anche il suo ordinato e regolare svolgimento (Sez. 6, n. 35071 del 14/03/2007, Esposito, Rv. 238025 – 01).
La questione di diritto che pone, dunque, il primo motivo del ricorso è se, in una situazione come quella in esame, in cui l’imputato aveva posto in esecuzione numerose decisioni rese in giudizi promossi dallo stesso quale difensore in forza di procure false, l’aggravio dell’attività delle cancellerie e degli uffici giudiziari possa essere o meno ricondotto al turbamento di un pubblico servizio.
Come noto, il sistema giurisdizionale italiano da lungo tempo è impegnato a risolvere il problema, divenuto “strutturale”, e suscettibile di tradursi in forme di vera e propria denegata giustizia, dell’irragionevole durata dei giudizi.
Circostanza, questa, che la Corte europea dei diritti dell’uomo, sin dalla celebre pronuncia resa nel caso Capuano c. Italia (Corte europea dei diritti dell’uomo, 25 giugno 1987, Capuano c. Italia, ric. n. 7/1986/105/153), ha ritenuta causa di un danno risarcibile in favore delle parti poiché le stesse hanno diritto alla definizione del giudizio in tempi ragionevoli, costituendo la ragionevole durata connotato essenziale dell’equo processo ex art. 6, § 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e ratificata dall’Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848.
A tale decisione ne sono seguite numerose altre, al punto che, con una serie di pronunce emanate in data 28 febbraio 1999, la medesima Corte di Strasburgo ha sancito l’esistenza nel nostro ordinamento di una “prassi incompatibile” con il rispetto del principio della durata ragionevole dei processi sancito dall’art. 6, § 1, CEDU, tale da comportare un’inversione dell’onere della prova circa le cause dei ritardi nella definizione degli stessi a carico dello Stato convenuto (v., tra le altre, Corte europea dei diritti dell’uomo, 28 febbraio 1999, Bottazzi c. Italia, ric. n. 34884/97).
Nella successiva sentenza resa dalla Grande Camera nel caso “Kudla c. Polonia”, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha poi affermato il principio in forza del quale, in virtù dell’art. 13 CEDU – secondo cui «ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivi davanti ad un’istanza nazionale» – ciascuno Stato della Convenzione è tenuto a contemplare al proprio interno uno strumento giurisdizionale volto a lamentare specificamente l’eccessiva durata dei processi (Corte europea dei diritti dell’uomo, 26 ottobre 2000, Kudla c. Polonia, ric. n. 30210/96).
La richiamata pronuncia, attribuendo per la prima volta un carattere “positivo” al principio di sussidiarietà ritraibile dal combinato disposto del predetto art. 13 e della regola del previo esaurimento dei mezzi di ricorso interni (espressione, a propria volta, di una regola del diritto internazionale consuetudinario) stabilita dall’art. 35 della medesima Convenzione, ha di fatto “invitato” anche l’Italia a introdurre, nell’ambito del proprio sistema giudiziario, un mezzo di ricorso per lamentare specificamente la violazione dell’art. 6 CEDU sotto il profilo dell’eccessiva durata dei processi.
Di qui il legislatore interno ha varato la legge 24 marzo 2001, n. 89, c.d. Pinto, la cui origine nella richiamata giurisprudenza europea è resa evidente dallo stesso art. 2 laddove prevede che il diritto all’equa riparazione spetta a quanti abbiano subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto della violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, § 1.
Ed è proprio la legge n. 89 del 2001 quella invocata a fondamento dei diritti fatti valere dal L. nei giudizi seriali instaurati sulla base di procure false, giudizi definiti con pronunce di condanna esitate da tale mendace presupposto, che egli pure pretendeva di eseguire nei numerosi processi di esecuzione e di ottemperanza contestualmente promossi, in forza degli stessi titoli, dinanzi alla Corte d’Appello e al TAR di Lecce.
Ancora in via generale occorre premettere che il diritto di accesso al giudice di cui all’art. 24, primo comma, Cost., ascritto tra i substantialia processus, è inviolabile (Corte Cost. sent. n. 114 del 2018) e annoverato tra i principi supremi dell’ordinamento costituzionale (Corte Cost. sent. n. 18 del 1982).
Nell’ambito di una tutela multilivello dei diritti fondamentali, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato da lungo tempo, sin dalla fondamentale pronuncia Golder (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 21 febbraio 1975, Golder c. Royaume Uni) che, sebbene l’art 6 della CEDU non contempli espressamente tra le garanzie dell’equo processo anche quella dell’accesso al giudice, tale garanzia rientra implicitamente nell’ambito tutelato da tale previsione, poiché, ove non vi fosse la possibilità di denunciare in sede giurisdizionale la violazione dei propri diritti, anche le altre garanzie di carattere processuale risulterebbero prive di significato.
Nello stesso solco si è posta, inoltre, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, la quale ha sancito che il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva costituisce un principio generale di diritto comunitario che deriva dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, codificato dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e che è stato ribadito dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: pertanto, il principio di autonomia processuale degli Stati membri è limitato dai criteri di equivalenza e di effettività della tutela (CGCE, Grande Sezione, sentenze I 13 marzo 2007, C-432/05, Unibet c. Justitiekanslem; 25 luglio 2002, causa C-50/00 P, Unión de Pequeflos Agricultores c. Consiglio, § 39; 19 giugno 2003, causa C-467/01, Eribrand, § 61).
Ed è allora evidente che l’art. 24 Cost. tutela anche il diritto a proporre in giudizio domande infondate (o persino manifestamente tali) per le ragioni più disparate.
Tuttavia, proprio l’esigenza di assicurare che tutti i diritti possano beneficiare di una tutela giurisdizionale effettiva in tempi ragionevoli implica che nessuna delle limitate risorse del servizio giustizia venga distolta da tale finalità.
Il perseguimento di questo obiettivo comporta, infatti, che il processo si sostanzi, anche grazie allo svolgimento tempestivo degli adempimenti amministrativi da parte delle cancellerie, in una sequenza ordinata delle relative attività che conducano, in tempi ragionevoli, all’emanazione di una decisione giusta.
Vi è infatti che l’esigenza di celerità non può compromettere (specie nel processo penale: Corte Cost., sent. n. 111 del 2022) le preminenti esigenze di tutela del principio del contraddittorio, del diritto di difesa e del diritto alla parità delle armi tra le parti: come da lungo tempo riconosciuto nella giurisprudenza costituzionale (sent. n. 317 del 2019), il diritto di difesa e il principio di ragionevole durata del processo non possono entrare in comparazione, ai fini del bilanciamento, indipendentemente dalla completezza del sistema delle garanzie, in quanto ciò che rileva è solo la durata del «giusto» processo, quale delineato proprio dall’art. 111 Cost. Ciò in quanto «[u]na diversa soluzione introdurrebbe una contraddizione logica e giuridica all’interno dello stesso art. 111 Cost., che da una parte imporrebbe una piena tutela del principio del contraddittorio e dall’altra autorizzerebbe tutte le deroghe ritenute utili allo scopo di abbreviare la durata dei procedimenti. Un processo non “giusto”, perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata». 5
Nell’indicata prospettiva, che sottende il perseguimento del complesso obiettivo di una definizione dei processi attraverso una decisione giusta resa in tempi ragionevoli, occorre dunque affermare il principio di diritto per il quale integra il delitto di turbamento di un pubblico servizio di cui all’art. 340 cod. pen., inteso quale ordinato e regolare svolgimento dello stesso, la proposizione di numerosi giudizi sulla scorta di documenti falsi.
Nella fattispecie concreta, dunque, in coerenza con tale principio, è stato ritenuto integrato a carico del L. il delitto di turbamento del pubblico servizio della giustizia poiché, sebbene dall’istruttoria sia emerso che la proposizione dei numerosi ricorsi per l’esecuzione del giudicato non hanno determinato, anche per la loro serialità e la definizione con pronunce di analogo tenore, un’interruzione del pubblico servizio, non vi è dubbio che ne sia stato turbato l’ordinato svolgimento, stante il compimento e da parte delle cancellerie e dei magistrati coinvolti di copiose attività inutili, fondate sul fallace presupposto di una domanda di tutela in realtà inesistente.
