Sezioni Unite dovranno decidere in tema di traduzione del decreto di citazione a giudizio di appello e in relazione alla mancata traduzione della sentenza (Redazione)

Segnaliamo che la Cassazione sezione 2 con l’ordinanza numero 9900/2025 ha rimesso allo scrutinio delle Sezioni Unite le seguenti questioni, in riferimento all’imputato che non conosca la lingua italiana:

(a) se il decreto di citazione per il giudizio di appello dell’imputato che non conosca la lingua italiana debba essere obbligatoriamente tradotto nella lingua del destinatario, conseguendo alla omessa traduzione una nullità di ordine generale a regime intermedio.

(b) Se la mancata traduzione della sentenza nella lingua nota all’imputato che non conosca la lingua italiana comporti solo lo slittamento del termine per impugnare in capo all’imputato ovvero integri una nullità generale a regime intermedio.

Sul primo quesito, relativa alle conseguenze della mancata traduzione del decreto di citazione a giudizio in appello in lingua nota all’imputato, nella giurisprudenza di legittimità si registrano due orientamenti.

Secondo alcune pronunce, l’omessa traduzione integra una nullità di ordine generale a regime intermedio, posto che l’obbligo di traduzione degli atti, previsto dall’art. 143 cod. proc. pen., non è diretto solo ad informare l’imputato dell’accusa a suo carico, ma è anche, e soprattutto, funzionale a garantire l’effettività della sua partecipazione al procedimento, anche in fase di appello, oltre che l’esplicazione della difesa in forma diretta e personale (Sez. 6, n. 3993 del 30/11/2023, dep. 2024, Dabo, Rv. 286113 – 01; Sez. 5, n. 20035 dell’01/03/2023, Vacariu, Rv. 284515; Sez. 6, n. 44421 del 22/10/2015, Amoha, Rv. 265026 – 01; conf., sia pur con riferimento al previgente tenore dell’art. 143 cod. proc. pen., Sez.4, n. 14174 del 28/10/2005, Kajtazi, Rv. 233948; Sez. 6, n. 44421 del 22/10/2015, Amoha, Rv. 265026).

In linea con tale indirizzo interpretativo si è affermato che l’obbligo di traduzione degli atti in favore dell’imputato alloglotto, non irreperibile né latitante, sussiste, a pena di nullità ex art. 178, lett. c), cod. proc. pen., anche nel caso in cui lo stesso abbia eletto domicilio presso il difensore, avendo quest’ultimo solo l’obbligo di ricevere gli atti destinati al proprio assistito, ma non anche quello di tradurli (Sez.1, n. 28562 dell08/03/2022, Ali, Rv. 283355).

Secondo tale orientamento, il fatto che il secondo comma dell’art. 143 cod. proc. pen. preveda la traduzione scritta negli “stessi casi” indicati dal primo comma non ha la funzione di contrarre l’obbligo di traduzione ai soli atti diretti ad informare l’imputato delraccusa” mossa a suo carico, dato che tale incipit ha solo la funzione di richiamare la condizione della traduzione, ovvero la “mancata conoscenza della lingua italiana”.

L’obbligo di traduzione riguarda, dunque, tutti gli atti indicati dal secondo comma dell’art. 143 cod. proc. pen., tra i quali vi sono atti – come le informazioni di garanzia e le informazioni sul diritto di difesa – che non contengono la formulazione dell’accusa; ed atti, come le sentenze, che sono emessi quando l’imputato è già stato informato dell’accusa e che, dunque, non hanno la specifica funzione di informare l’imputato dell’imputazione elevata contro di lui.

Pertanto, la previsione contenuta all’art. 143, comma 1, cod. proc. pen. non circoscrive la finalità della traduzione all’esigenza di consentire all’imputato la conoscenza dell’accusa, ma è, più in generale, diretta a garantire la sua partecipazione consapevole al processo.

Peraltro, anche la lettera di tale comma individua espressamente come fine della traduzione, non solo quello di comprendere l’accusa, ma anche quello – più generale e diffuso – di seguire il compimento degli atti e lo svolgimento delle udienze.

Ne consegue che la traduzione degli “atti di impulso processuale”, tra i quali si colloca il decreto di citazione a giudizio in appello, è indispensabile per garantire la consapevole partecipazione al procedimento, a prescindere dal fatto che gli stessi contengano un preciso riferimento all’accusa.

Tale interpretazione, in punto di inquadramento del vizio da mancata traduzione come nullità generale a regime intermedio, conferma sia quanto affermato in epoca risalente dalle Sezioni Unite “Jakani”, secondo cui la mancata traduzione nella lingua dell’imputato alloglotto del decreto di citazione a giudizio, in presenza delle condizioni richieste dall’art. 143 cod. proc. pen. come interpretato da Corte cost. 12 gennaio 1993 n. 10, integra una nullità generale di tipo intermedio, la cui deducibilità è soggetta a precisi termini di decadenza, e che resta sanata dalla comparizione della parte (Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216259 – 01), sia quanto ritenuto, in epoca più recente, con riferimento all’omessa traduzione dell’ordinanza cautelare, dalle Sezioni Unite “Niecko”, che hanno ribadito l’inquadramento del vizio da omessa traduzione come nullità generale a regime intermedio (Sez. U, n. 15069 del 26/10/2023, dep. 2024, Niecko, Rv. 286356 – 01).

Secondo altro orientamento, l’avviso di fissazione dell’udienza nel giudizio di appello non deve obbligatoriamente essere tradotto nella lingua del destinatario, quando questi sia uno straniero che non conosce la lingua italiana, non contenendo il suddetto avviso alcun elemento di accusa, ma solo la data dell’udienza fissata per l’esame del gravame proposto dallo stesso imputato o dal suo difensore (Sez. 2, n. 20394 del 07/04/2022, Riyad, Rv. 283227; Sez.6, n. 46967 del 04/11/2021, Muhammad, Rv. 282388; Sez. 5, n. 32251 del 26/01/2015, Ali Gabre, Rv. 265301).

Secondo tale interpretazione, è decisivo il fatto che il decreto di citazione per il “giudizio di appello”, diversamente dal decreto che dispone il “giudizio di primo grado“, contiene solo i requisiti funzionali all’individuazione dell’imputato, del procedimento e della data di trattazione del giudizio di appello, ma non contiene alcun elemento relativo all’accusa, che è a lui già nota.

Inoltre, il diritto dell’imputato di seguire il compimento degli atti e lo svolgimento delle udienze cui partecipa viene assicurato dall’assistenza dell’interprete: da ciò consegue che il decreto di citazione per il giudizio di appello non deve essere obbligatoriamente tradotto nella lingua del destinatario. Si precisa che «tale conclusione non si pone in contrasto con il diritto a un processo equo sancito dall’art. 6 CEDU, atteso che tale disposizione, alla lett. a) del comma 3, stabilisce il diritto dell’accusato a essere informato, in una lingua che comprende, dell’accusa elevata contro di lui; accusa che, come si è detto, esula dal contenuto del decreto di citazione per il giudizio di appello» (Sez. 6, n. 46967 del 04/11/2021, cit.).

Gli opposti orientamenti, come descritto, si fondano sulla diversa interpretazione della rilevanza, ai fini dell’effettivo esercizio delle prerogative processuali riservate all’imputato, delle informazioni contenute nel decreto di citazione a giudizio in appello.

L’interpretazione che esclude che l’omessa traduzione” generi una violazione del diritto di difesa, con una conseguente nullità generale a regime intermedio, valuta non decisive le informazioni contenute nel decreto per l’esercizio effettivo del diritto di difesa ed afferma che il diritto alla consapevole partecipazione sia, comunque, garantito dall’assistenza dell’interprete in udienza.

Secondo tale indirizzo, pertanto, la traduzione è obbligatoria solo per gli atti che contengono informazioni in ordine all’accusa, sicché non riguarda il decreto di citazione a giudizio in appello.

Di contro, secondo l’orientamento che ritiene che all’omessa traduzione consegua una nullità generale a regime intermedio è decisiva la funzione informativa e propulsiva del decreto, la cui conoscenza in lingua nota all’imputato garantisce l’effettività del suo diritto di partecipazione al giudizio di secondo grado e tutela le sue prerogative difensive.

Con riguardo al controverso tema della rilevanza a fini difensivi delle informazioni contenute nel decreto, corre l’obbligo di segnalare che la riforma c.d. “Cartabia” ha arricchito il contenuto del decreto di citazione a giudizio in appello.

Questo deve ora somministrare anche gli avvisi in ordine alla possibilità di accesso alla giustizia riparativa (art. 601, comma 3, cod. proc. pen., che richiama l’art. 429, comma d-bis), cod. proc. pen.): non può non rilevarsi, rispetto a tale novità, che, ove la possibilità di accesso alla giustizia riparativa non sia segnalata all’imputato nella lingua da lui compresa, si profila una ulteriore (ed inedita, prima della riforma) limitazione delle sue prerogative processuali.

2Nel caso in esame, benché fosse noto alla Corte di appello che N.M. non conoscesse la lingua italiana (come risulta, tra l’altro, dall’intestazione della sentenza di appello), il decreto di citazione a giudizio in appello, emesso nel vigore della riforma c.d. “Cartabia”, non risulta essere stato tradotto.

In ordine al secondo quesito, la Suprema Corte ha rilevato che, quanto agli esiti della mancata traduzione della sentenza, emergono due indirizzi interpretativi:

(a) da un lato, si ritiene che l’omessa traduzione generi una nullità generale a regime intermedio, deducibile, solo nel corso del procedimento di cognizione, sottoposta al regime di deducibilità e decadenza che emerge dal combinato disposto degli artt. 180 e 182 cod. proc. pen.,

(b) dall’altro, si ritiene che l’omessa traduzione produca solo lo slittamento del termine per impugnare e che – questione invero decisiva – tale omissione si riverberi sul perfezionamento del titolo esecutivo.

Il contrasto rilevato incide in maniera significativa sull’estensione del diritto alla . partecipazione consapevole dell’imputato alloglotto al processo: la qualificazione del vizio da omessa traduzione come nullità generale a regime intermedio implica, infatti, che lo stesso possa essere eccepito solo “durante il processo”, nel rispetto dei termini, e con i limiti indicati dagli artt. 180 e 182 cod. proc. peri.; di contro se il vizio viene inquadrato come violazione di legge che genera lo slittamento (sine die) del termine per impugnare, lo stesso incide sulla perfezione del titolo esecutivo e può essere eccepito con l’incidente di esecuzione.

Infine deve essere segnalato che secondo alcune sentenze per riconoscere la violazione di legge che genera lo slittamento del termine per impugnare è necessaria la specifica “richiesta” di traduzione (Sez. 6, n. 24730 del 13/03/2024, I., cit.); tale richiesta, invece, non è ritenuta necessaria – in quanto l’obbligo di traduzione incombe sul giudice, che deve disporla ex officio – dall’indirizzo che ritiene che l’omessa traduzione generi una nullità (Sez. 6, n. 20679 del 02/05/2024): si tratta di una incongruenza interpretativa di rilievo, in quanto incide sulla definizione degli oneri della parte e del giudice in materia di tutela del diritto fondamentale dell’alloglotto alla partecipazione consapevole al processo.