Revisione di una sentenza di assoluzione in primo grado: obblighi del giudice d’appello (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 5^, sentenza n. 10361/2025, udienza del 20 febbraio 2025, si è soffermata sugli obblighi che la presunzione di innocenza e il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio impongono al giudice d’appello nel caso della revisione di una decisione assolutoria, sottolineando il maggior impegno motivazionale che ad essa consegue rispetto a quanto sia dovuto nel caso inverso della revisione di una decisione di condanna.

La decisione è espressione di un indirizzo interpretativo consolidato nella giurisprudenza di legittimità.

Il suo punto di partenza è che la progressione processuale sfavorevole all’imputato dà vita ad un’ontologica contraddittorietà della decisione sulla colpevolezza dell’imputato, derivante da due sentenze dal contenuto antitetico, pur essendo entrambe fondate sulle medesime prove in correlazione con il principio dell'”oltre ogni ragionevole dubbio.

Questo presupposto è stato alla base di un intenso dibattito giurisprudenziale, orientato dai principi convenzionali e costituzionali di riferimento, sfociato in diverse pronunce delle Sezioni unite penali.

Già nel 2005 il massimo organo nomofilattico (SU, sentenza n. 33748/2005, RV. 231679, Mannino) giunse ad affermare che la sentenza che riformi totalmente, in  senso assolutorio o di condanna, la decisione di primo grado deve delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato e, in caso di omissione, l’imputato può dedurre con ricorso per cassazione la relativa mancanza di motivazione.

Nell’occasione le Sezioni unite correlarono al principio di diritto appena citato il dovere della motivazione rafforzata in virtù del quale il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato.

Ed affermarono la necessità che le fondamentali garanzie di cui agli artt. 24, comma secondo, e 111 Cost. attinenti al pieno esercizio delle facoltà difensive, anche per i profili della formazione della prova nel contraddittorio fra le parti e dell’obbligo di valutazione della stessa nel rispetto dei canoni di legalità e razionalità, fossero riconosciute ed assicurate nel giudizio di appello instaurato a seguito dell’impugnazione del PM contro la sentenza assolutoria di primo grado.

In termini analoghi si sono espressi i giudici europei dei diritti umani (Corte EDU, Dan c. Moldavia del 5 luglio 2011), affermando che, se una Corte d’Appello è chiamata ad esaminare un caso in fatto e in diritto e a compiere una valutazione completa della questione della colpevolezza o dell’innocenza del ricorrente, essa non può, per una questione di equo processo, determinare correttamente tali questioni senza una valutazione diretta delle prove ed aggiungendo che coloro che hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o l’innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter udire i testimoni personalmente e valutare la loro attendibilità. La valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate.

L’orientamento in parola è stato rafforzato dalla sentenza delle Sezioni unite (SU, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267492) che, dopo avere fatto propria la motivazione della Corte EDU in merito ai principi di “contraddittorio”, “oralità” ed “immediatezza” e valorizzato, altresì, da una parte, il principio della motivazione rafforzata e, dall’altra, quello dell'”al di là di ogni ragionevole dubbio”, ha concluso affermando che il giudice di appello, investito dalla impugnazione del pubblico ministero che si dolga dell’esito assolutorio di primo grado adducendo una erronea valutazione sulla concludenza delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata nel senso dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato senza avere proceduto, anche d’ufficio, a norma dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado, dandosi altrimenti luogo ad un vizio di motivazione rilevante ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.

Questa regula iuris è stata ritenuta dalle Sezioni unite necessitata anche dal canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, codificato dall’art. 533, comma 1, cod. proc. pen., e dai principi del “contraddittorio”, “oralità”, “immediatezza” nella formazione della prova e “motivazione” del giudice di merito che regolano il processo

Nella stessa pronuncia, le Sezioni Unite della Corte hanno precisato come la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, anche d’ufficio, delle prove dichiarative ritenute decisive costituisca una scelta obbligata anche in caso di riforma in appello della sentenza assolutoria di primo grado ai soli fini civili, allorché fondata – appunto – su un diverso apprezzamento della prova dichiarativa.