Cassazione penale, Sez. 3^, sentenza n. 9917/2025, udienza del 5 marzo 2025, ha condiviso il costante orientamento di legittimità (cfr. Sez. 6, n. 13982 del 20/02/2018, Rv. 272529), secondo cui, in tema di stupefacenti, la valutazione dell’offensività della condotta non deve essere ancorata al solo dato della quantità di volta in volta ceduta, ma deve essere frutto di un giudizio più ampio che coinvolga ogni aspetto del fatto nella sua dimensione oggettiva, avuto riguardo, in particolare, alle concrete capacità di azione del soggetto e alle sue relazioni con il mercato di riferimento, all’entità della droga movimentata in un determinato lasso di tempo, al numero di assuntori riforniti, alla rete organizzativa e/o alle peculiari modalità adottate per porre in essere le condotte illecite al riparo da controlli e azioni repressive delle forze dell’ordine.
Tale approdo interpretativo è stato sviluppato ulteriormente dalle Sezioni unite penali “Murolo” con la sentenza n. 51063 del 27/09/2018, Rv. 274076, con cui si è precisato che la valutazione degli indici di lieve entità elencati dal comma 5 dell’art. 73 deve essere complessiva, il che significa abbandonare l’idea che gli stessi possano essere utilizzati dal giudice alternativamente, riconoscendo o escludendo, cioè, la lieve entità del fatto anche in presenza di un solo indicatore di segno positivo o negativo, a prescindere dalla considerazione degli altri. Ma, allo stesso tempo, ciò significa anche che tali indici non devono tutti indistintamente avere segno positivo o negativo, nel senso che il percorso tracciato dal legislatore impone di considerare anche la possibilità che tra gli stessi si instaurino rapporti di compensazione e neutralizzazione in grado di consentire un giudizio unitario sulla concreta offensività del fatto anche quando le circostanze che lo caratterizzano risultano prima facie contraddittorie in tal senso.
Il percorso valutativo così ricostruito si riflette nella motivazione della decisione, dovendo il giudice, nell’affermare o negare la tipicità del fatto ai sensi dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, dimostrare di avere vagliato tutti gli aspetti normativamente rilevanti e spiegare le ragioni della ritenuta prevalenza eventualmente riservata solo ad alcuni di essi.
Ciò significa che il discorso giustificativo deve dar conto non solo dei motivi che logicamente impongono nel caso concreto di valutare un singolo dato ostativo al riconoscimento del più contenuto disvalore del fatto, ma altresì di quelli per cui la sua carica negativa non può ritenersi bilanciata da altri elementi eventualmente indicativi, se singolarmente considerati, della sua ridotta offensività. In tale ottica è stato sottolineato come anche l’elemento ponderale, quello che più spesso assume un ruolo centrale nell’apprezzamento giudiziale, non è escluso dal percorso valutativo implicito nella formulazione dell’art. 73, comma 5, come rivela proprio il raffronto dello stesso con la disposizione di cui all’art. 80, comma 2, del d.P.R. n. 309 del 1990. In altri termini, anche la maggiore o minore espressività del dato quantitativo va anch’essa determinata in concreto nel confronto con le altre circostanze del fatto rilevanti secondo i parametri normativi di riferimento.
Ferma la possibilità che, nel rispetto delle condizioni illustrate, tale dato possa assumere comunque valore negativo assorbente, ciò significa che anche la detenzione di quantitativi non minimali potrà essere ritenuta non ostativa alla qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 73, comma 5, e, per converso, che quella di pochi grammi di stupefacente, all’esito della valutazione complessiva delle altre circostanze rilevanti, risulti non decisiva per ritenere integrata la fattispecie di lieve entità.
Ebbene, la Corte di appello si è posta in sintonia con tale impostazione, evidenziando plurimi elementi obiettivi ostativi al riconoscimento della lieve entità del fatto: in particolare, sono stati valorizzati, in senso ostativo al riconoscimento dell’ipotesi di cui all’art. 73 comma 5 del d.P.R. n. 309 del 1990, a) la cessione reiterata di sostanza stupefacente del tipo pesante, b) il viavai di acquirenti notati durante il breve lasso di tempo in cui aveva avuto luogo il servizio di o.c.p. (erano state accertate quattro cessioni di cocaina a consumatori in meno di due ore), c) l’attività illecita si svolgeva nei pressi dell’abitazione del ricorrente e in zona nota per l’ingente attività di spaccio ivi svolta, d) il ricorrente si avvaleva, unitamente al complice, originario coimputato, di mezzi di locomozione per lo svolgimento di detta attività, e) le modalità di spaccio, infine, erano sintomatiche di una predeterminata organizzazione, facente capo al ricorrente e al coimputato, rivelando la capacità di rifornire prontamente i tossicodipendenti e, nel contempo, di tenere occultata la sostanza dalla quale prelevavano le singole dosi di volta in volta consegnate agli assuntori.
L’affermazione si pone in continuità con gli indirizzi di legittimità, ed in particolare con l’orientamento secondo il quale la reiterazione nel tempo di una pluralità di condotte di cessione della droga, pur non precludendo automaticamente al giudice di ravvisare il fatto di lieve entità, entra in considerazione nella valutazione di tutti i parametri dettati, in proposito, dall’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
Ne consegue che è legittimo il mancato riconoscimento della lieve entità qualora la singola cessione di una quantità modica, o non accertata, di droga costituisca manifestazione effettiva di una più ampia e comprovata capacità dell’autore di diffondere in modo non episodico, né occasionale, sostanza stupefacente, non potendo la valutazione della offensività della condotta essere ancorata al solo dato statico della quantità volta per volta ceduta, ma dovendo essere frutto di un giudizio più ampio che coinvolga ogni aspetto del fatto nella sua dimensione oggettiva.
