La vita dell’avvocato è ascolto dell’assistito.
Quante ore della nostra esistenza trascorriamo a comprendere i racconti dei clienti!
Ci sono i logorroici che a stento conteniamo, gli ermetici che a forza stimoliamo, i fatui che severamente ammoniamo e così via.
“Ogni avvocato è come un confessore. Una folla di viziosi e di onesti, di delinquenti e di offesi, di temerari e di umiliati, entra continuamente nel suo studio a confidargli segrete colpe e disgrazie, e paure e speranze, e menzogne e sincerità, prima di andare a svelarle, o a tentar di occultarle, nella cruda luce dei dibattiti giudiziari”.
Inizia così un libro del 1937 scritto dagli avvocati Pierluigi ed Ettore Erizzo, figli dell’avvocato Paolo Francesco Erizzo.
Nel testo si raccolgono ricordi di cupe tragedie e di impreviste comicità della vita di un avvocato.
Sono trascorsi tanti anni ma nulla è cambiato:
“Esemplari infiniti dell’umanità entrano nel nostro studio, siedono al nostro tavolo, svelano – volenti o nolenti – un poco della loro anima e riprendono il cammino. Le parole conte con cui il cliente maschera talvolta il suo vero appetito non sempre ci ingannano.
Nella maggioranza dei casi, e assai più sovente di quanto il nostro cliente creda, ci è facile intuire quale sia la verità nascosta dietro le parole”.
Ma tale verità noi non giudichiamo mai e non ci condiziona nel rapporto professionale, altrimenti non saremmo avvocati.
E quel po’ di evangelico che c’è nel nostro lavoro è proprio in questa nostra astensione dal giudizio.
Nolite iudicare, e noi non giudichiamo: sta in questo la nostra umanità.
