Mentre infuria il dibattito sull’autonomia e sull’indipendenza della magistratura, piace ricordare la storia di un giudice e del prezzo che dovette pagare per avere fatto il suo lavoro ascoltando soltanto la sua coscienza.
Parlo di Claudio Pratillo Hellmann.
Era il presidente della sezione lavoro della Corte di appello di Perugia.
Correva l’anno 2011 e, per una qualche imprevedibile congiunzione astrale, toccò a lui presiedere il collegio della Corte di assise d’appello chiamata a decidere le impugnazioni di Raffaele Sollecito e Amanda Knox contro la sentenza della Corte di assise perugina che, a dicembre del 2009, aveva riconosciuto entrambi colpevoli dell’omicidio di Meredith Kercher e di violenza sessuale e la Knox, inoltre, di calunnia in danno di Patrick Lumumba.
Anche il PM perugino aveva appellato la sentenza allo scopo di ottenere la condanna degli imputati all’ergastolo.
Il caso giudiziario è talmente noto da rendere inutile ricordare quanto clamore mediatico lo avesse accompagnato fin dalle primissime indagini, quanto fossero assertive le tesi accusatorie, quanta aspettativa ci fosse in senso colpevolista.
Eppure, a dispetto di questa imponente massa di rumore, l’Assise di appello non se ne fece né travolgere né distrarre, ampliò l’istruttoria accogliendo varie richieste difensive e ammettendo in particolare nuovi accertamenti peritali sulle tracce rinvenute sul coltello trovato in casa del Sollecito e sul gancetto del reggiseno della Kercher: accertamenti il cui esito sollevò forti dubbi sull’attendibilità delle rilevazioni fatte a suo tempo dalla Polizia scientifica.
A quelle attività seguì un’ampia revisione del verdetto di primo grado con l’assoluzione dei due imputati dalle accuse di omicidio e violenza sessuale e la conferma della condanna della Knox per la calunnia.
È ugualmente noto l’iter giudiziario successivo: la Procura generale di Perugia fece ricorso per cassazione contro la sentenza assolutoria; il 26 marzo 2013 la prima sezione penale della Suprema Corte lo accolse, annullando la sentenza impugnata e trasmettendo gli atti alla Corte di assise di appello di Firenze per un nuovo giudizio; I giudici fiorentini conclusero il loro lavoro il 30 gennaio 2014, operando un nuovo ed inverso ribaltamento rispetto ai loro omologhi perugini, dichiarando la colpevolezza del Sollecito e della Knox e condannando il primo a 25 anni di reclusione, la seconda a 28 anni e 6 mesi: i due ricorsero per cassazione e il 27 marzo 2015 la quinta sezione penale della Suprema Corte mise la parola fine al processo, annullando senza rinvio la condanna inflitta per omicidio e violenza sessuale e confermando soltanto la responsabilità della Knox per la calunnia.
L’esito definitivo del giudizio fu dunque esattamente conforme alla decisione della Corte di assise di appello presieduta da Claudio Pratillo Hellmann.
Eppure, il 28 maggio 2015, a processo ormai concluso, il PM titolare delle indagini, unitamente a due poliziotte della Squadra Mobile della Questura di Perugia, presentò una denuncia – querela alla Procura della Repubblica di Firenze.
Il bersaglio di questa iniziativa fu uno dei difensori del Sollecito, per via delle dichiarazioni che questi aveva rilasciato a un organo di stampa, gravemente critiche nei confronti dell’operato di quel PM e della Polizia giudiziaria.
Così si leggeva nell’esposto: «In sede di appello, la Corte di Assise d’Appello di Perugia, inspiegabilmente composta dal Presidente della Sezione Previdenziale e da un consigliere addetto alla Sezione civile … ha assolto i due [Sollecito e Knox] … Nel corso del processo sono stati nominati due periti che, tra l’altro, avevano redatto la perizia ignorando i documenti comprovanti l’esito negativo dei controlli sulla pretesa contaminazione del coltello e del gancetto, prodotti invece dalla Procura. Ciò avrebbe dovuto travolgere la perizia stessa ma la Corte … ha ignorato il grave errore commesso dai periti … La Quinta Sezione della Suprema Corte, chiamata a decidere in merito ai ricorsi presentati dagli imputati contro la sentenza del giudice di rinvio, avrebbe dovuto considerare inammissibili i ricorsi … Non si può negare … che la decisione della Quinta Sezione sia una decisione non solo assolutamente imprevedibile e anomala ma che costituisce addirittura un unicum della giurisprudenza della Corte di legittimità».
Sicché, nell’opinione di quel PM e delle altre denuncianti, dovevano essere considerate corrette le sentenze che avevano assecondato la tesi accusatoria mentre, per contro, erano clamorosamente sbagliate le decisioni di segno inverso, compresa quella definitiva del 2015.
Ma qualcos’altro, ben più significativo, era successo prima, pochi mesi dopo la sentenza del 2011.
Claudio Pratillo Hellmann si dimise dalla magistratura e spiegò lui stesso in un’intervista al quotidiano La Repubblica (a questo link per la consultazione) le ragioni del suo gesto.
«Praticamente fui costretto. La nostra decisione fu accolta con reazioni di sdegno. Ricordo ancora i fischi e le urla di una claque che si era radunata la sera del verdetto davanti al tribunale. Dal giorno dopo mi sentii circondato da un’ostilità crescente. Nei bar di Perugia dicevano che mi ero venduto agli americani, che avevo ceduto alla pressioni della Cia. Panzane, certo, ma quello che mi ha colpito di più del linciaggio diffamatorio durato per anni fu la reazione dei colleghi magistrati. Quasi tutti mi tolsero il saluto. In particolare, quelli che a diverso titolo erano stati coinvolti nella vicenda. Mi resi conto che quella della mia Corte era stata una voce fuori dal coro in un tribunale dove tutti i giudici, a partire dal gup per arrivare a quelli dei diversi Riesami, pur criticando l’inchiesta, avevano avallato l’accusa. In più ero in predicato per la presidenza del Tribunale e naturalmente quella carica venne assegnata ad un altro collega sicuramente degnissimo ma qualche sospetto che si trattasse di una ritorsione mi venne».
Una decisione non gradita, un’ostilità corale, il saluto tolto, l’ostracismo, l’esito negativo della partecipazione al bando del CSM per la nomina alla presidenza di un tribunale.
Il destino personale di Claudio Pratillo Hellmann fu un effetto collaterale del battage pubblicitario creato attorno all’omicidio della studentessa inglese e alle conseguenti aspettative colpevoliste.
La storia di quel singolo magistrato insegna però molto di più: l’indipendenza del giudice è un valore ma può anche trasformarsi in un prezzo da pagare, il PM partecipe della mitica “cultura della giurisdizione” è un’icona rassicurante ma raramente apprezzabile nella realtà, la compattezza della magistratura, per contro, si manifesta spesso ma non sempre nel modo che ci si aspetta.
