Ieri, 27 febbraio 2025, il professore Gian Luigi Gatta ha pubblicato su Sistema Penale un editoriale dal titolo “Separazione delle carriere e riforma costituzionale della magistratura: 20 domande per un confronto e un dibattito aperto” (a questo link per la consultazione).
Il testo – avverte l’Autore – è stato “predisposto in vista dell’intervento all’Assemblea pubblica dell’ANM a Milano in occasione dello sciopero dei magistrati del 27.2.2025 contro il disegno di legge governativo di riforma costituzionale della magistratura”.
L’auspicio di Gatta è per un dibattito aperto.
Lo si accoglie volentieri, limitandosi ad alcuni spunti connessi a due sole delle venti domande, nell’impossibilità di pronunciarci sull’intero questionario.
Domanda n. 1
È una riforma della magistratura o contro la magistratura?
Fatta questa domanda, l’Autore invita a sottrarsi al tranello di cui è espressione.
Il giurista – afferma a ragione – analizza il merito delle questioni, evitando accuratamente di schierarsi in base a pregiudizi e simpatie o antipatie ideologiche.
Comunque sia – aggiunge, restituendo legittimità alla domanda – dovrebbe essere condiviso universalmente il presupposto che qualsiasi riforma di rango costituzionale non deve essere concepita contro la magistratura perché essa è una res publica, un patrimonio di tutti. Chi ha a cuore la democrazia, deve avere per ciò stesso a cuore la magistratura come sua componente imprescindibile.
Chiarito in termini inequivocabili, e qui condivisi, questo primo punto, Gatta si concede un passaggio che pare assai meno convincente.
È questo: “Beninteso: la magistratura ha le sue responsabilità e le sue colpe, delle quali ha pagato e sta pagando il prezzo, anche in termini di fiducia da parte dell’opinione pubblica. La fiducia era massima negli anni di Mani Pulite, quando davanti al Palazzo di Giustizia di Milano sfilavano cortei a sostegno del Pool.
Poi le porte girevoli con la politica, lo scandalo dell’Hotel Champagne, le tensioni con alcune forze politiche e leader nell’ultimo trentennio, hanno danneggiato l’immagine della magistratura”.
Affermare che la fiducia nella magistratura fu massima ai tempi di Mani Pulite – cosa in sé verissima – significa, se le parole hanno un senso ed in assenza di aggiunte esplicative dell’Autore, che Mani Pulite e picco positivo di fiducia furono in rapporto di causa ed effetto.
Come dire che la magistratura piacque e risultò credibile ai cittadini proprio nel periodo in cui, come documentato successivamente da tanti autorevoli esponenti dell’accademia e, ciò che più conta, ammesso esplicitamente da più d’uno dei protagonisti apicali di quell’inchiesta epocale, si fece largo uso di prassi e metodi giudiziari tra i più disinvolti degli ultimi decenni e si fecero strada trasformazioni strutturali del rito penale e dei suoi equilibri interni di cui ancora oggi si paga il prezzo.
Se è quella, per Gatta, la popolarità da ricordare e difendere e magari recuperare e riproporre in salsa contemporanea, francamente la si pensa all’opposto.
C’è ancora un passaggio che merita di essere sottolineato.
L’Autore non prende posizione sull’abbandono, praticato da molti magistrati, delle cerimonie inaugurali dell’anno giudiziario. Si limita a ricordare la pregressa manifestazione di alcuni parlamentari sulle scalinate del palazzo di giustizia milanese e il celeberrimo “resistere, resistere, resistere” del procuratore Borrelli. Tace, tuttavia, sul protagonismo dei PM titolari di Mani Pulite che abbracciarono la crescente notorietà piuttosto che ritrarsene, diventando personaggi mediatici e testimonial di se stessi: interviste, comunicati diretti all’opinione pubblica, dichiarazioni pubbliche e canali costantemente aperti con la stampa, senza poi tralasciare il comunicato letto in onda su RAI3 da Antonio Di Pietro (ma scritto in collaborazione con i colleghi Davigo, Colombo e Greco) con il quale i componenti del pool minacciarono le dimissioni se fosse stato approvato un decreto legge che “a nostro giudizio non consente più di affrontare efficacemente i delitti su cui abbiamo finora investigato. Infatti, persone raggiunte da schiaccianti prove in ordine a gravi fatti di corruzione non potranno essere associate al carcere neppure per evitare che continuino a delinquere e a tramare per impedire la scoperta dei precedenti misfatti, perfino comprando gli uomini a cui avevamo affidato le indagini nei loro confronti. Quando la legge, per le evidenti disparità di trattamento, contrasta con i sentimenti di giustizia e di equità, diviene molto difficile compiere il proprio dovere senza sentirsi strumento di ingiustizia”.
Superfluo sottolineare che si parlava di indagati assistiti dalla presunzione di non colpevolezza della quale, a quanto pare, non importava niente a nessuno, sicuramente non a quei PM e men che meno al popolo.
Certo è che si diede vita in questo modo ad un nuovo metodo di comunicazione della giustizia senza più mediazioni e filtri. I pubblici ministeri scesero nell’agorà mediatica e ne occuparono il centro senza più abbandonarlo.
La si può mettere così: la storia è più lunga e più complessa di quanto Gatta abbia inteso raccontare.
Domanda n. 4
La separazione delle carriere assicura parità delle armi col difensore ed equidistanza dal giudice o rafforza invece la figura del pubblico ministero?
Questa domanda è assai sensata al pari di un’altra espressa così: “siamo proprio sicuri che la parità delle armi tra accusa e difesa dipenda dalla separazione delle carriere e da un rafforzamento della figura del pubblico ministero e non, in ipotesi, da un rafforzamento del ruolo e della figura del difensore, magari con una unificazione delle carriere e della formazione, come avviene in altri sistemi? In fondo tutti, avvocati, giudici e pubblici ministeri, partono insieme nel loro percorso, come matricole di un corso di laurea in giurisprudenza, studiano assieme, si frequentano, si danno del tu, si laureano e preparano concorsi ed esami”.
È una considerazione pienamente condivisibile.
La domanda immediatamente successiva dovrebbe però essere questa: condivisa da chi?
Non certo dalla magistratura che, per quanto risulta, non ha mai chiesto un rafforzamento della difesa e del difensore, si è sempre opposta, con pretesti spesso risibili, all’immissione di avvocati negli organismi di controllo sull’operato dei magistrati, è la prima sostenitrice di riforme legislative che depotenziano, minimizzano e banalizzano lo statuto garantistico dell’accusato e le prerogative di chi lo assiste tecnicamente, è l’artefice primaria di indirizzi interpretativi che vanno nella medesima direzione.
E dunque, stando così le cose, cosa spera di ottenere Gatta invocando questo cambio di passo?
In conclusione
È maledettamente complessa ogni discussione sulla magistratura e sul suo rapporto con gli altri poteri dello Stato.
Un’amministrazione della giustizia autonoma ed indipendente è un bene che deve stare a cuore ad ogni cittadino perché parte essenziale di ciò che rende democratico uno Stato.
Tuttavia, la magistratura, ogni suo singolo componente e gli organismi che ne hanno la rappresentanza non possono, non più, pretendere il riconoscimento e la tutela di quel bene senza al tempo stesso accettare la sua connessione imprescindibile al modo in cui è resa giustizia.
La fiducia della comunità persa da tempo non si recupera scioperando con percentuali bulgare, brandendo la Costituzione e aggiungendo coccarde alla toga.
Neanche astraendosi dai giudizi, puntando alla rarefazione del dibattito processuale, svilendo il contraddittorio o infierendo sulla difesa, coniando interpretazioni in spregio al buon senso prima ancora che al diritto, cimentandosi nell’invenzione di sempre nuove cause di inammissibilità.
La giustizia è conoscenza, impegno, fatica, ascolto, responsabilità.
Ripartire da qui, magari, potrebbe funzionare di più che rispondere a 20 domande.
